Aggirare il risultato non serve, meglio alzare lo sguardo

Ogni giorno, una nuova notizia ci distrae. Innanzitutto il popolo “ignorante” della provincia inglese che avrebbe deciso senza conoscere le vere conseguenze di quell’atto; i giovani contro i vecchi, poi rivelatasi una bufala, i tre milioni di presunti pentiti pronti a rivotare, gli scozzesi duri e puri e, infine, l’insinuazione che il governo inglese possa non far partire la richiesta di distacco da Bruxelles. Ovviamente alla notizia corrisponde sempre una vigorosa presa di distanza autorevole che la sgonfia in poche ore. Al di là della mia personale curiosità nell’assistere ad una gestione dell’informazione a volte un po’ ridicola, è sintomatico il prevalere di chi vorrebbe far passare diciassette milioni di inglesi come in preda a ripensamenti, paure e voglia di ritornare sui propri passi. Non è così. E non lo è neanche per i veri decisori che, in realtà, si stanno muovendo, approfittando della situazione, con lo scopo di esautorare, di fatto, Bruxelles e di riportare saldamente in mano degli Stati nazionali il potere di governo della nuova Europa che si andrà a sostituire a quella che ormai è alle nostre spalle. Ovviamente nessuno ha interesse a rompere con gli inglesi per ragioni storiche ma anche per ragioni economiche. Quindi più che perdere tempo a ipotizzare inutili ripensamenti sarebbe meglio concentrarsi per comprendere meglio quali dovrebbero essere le priorità, gli interessi e il nuovo rapporto tra Stati nazionali e Bruxelles. Cosa integrare, prima che sia troppo tardi r cosa lasciare ai singoli Stati. L’incertezza e i contraccolpi non sono causati  dalle false notizie di temporeggiamento ma dal fatto che nessuno è in grado di dire se questa improvvida forzatura è l’inizio di una nuova e più profonda crisi che ci travolgerà o se, serrando le fila, l’Europa potrà ripartire. Ma soprattutto, come. Con il referendum italiano e le elezioni tedesche e francesi all’orizzonte c’è poco da stare tranquilli. Nessuno si vorrà esporre. È il rischio di lasciare il campo alla speculazione internazionale è troppo alto. Il vero problema riguarda le due grandi famiglie politiche che oggi governano l’Europa. I popolari, per vocazione, ma anche i socialdemocratici, appartengono innanzitutto ai rispettivi Paesi. E osservano l’Europa quasi esclusivamente da quel punto di vista e interesse senza preoccuparsi troppo di scaldare le coscienze e i cuori del resto del continente. E questo è un limite che sta diventando letale, soprattutto per i socialdemocratici che rischiano, in casa propria, pesanti rovesci elettorali proprio perché non riescono a dire nulla di originale e di credibile sulla natura della crisi e sulle sue prospettive. Soli, isolati nel loro Paese, sono meno credibili dei conservatori europei e sottoposti alla pesante pressione di quei movimenti che prospettano soluzioni semplici a problemi complessi. Ed è in questo campo che, secondo me, si potrebbe giocare il futuro di un’Europa diversa. Ma ci vuole tempo. E questo tempo va gestito inevitabilmente insieme tra popolari e socialisti. Insieme perché l’alternativa di procedere in queste condizioni, motu proprio, non esiste. E sarà così anche nei singoli Paesi. Almeno fino a quando i movimenti anti sistema non ritorneranno ad essere residuali. Io non credo che il problema sia se la nuova Europa sarà a trazione tedesca o di altri. Avendoci interagito per anni, considero la Germania, un solido punto di riferimento più di altri Paesi. E non credo possibile, allo stato dei fatti, fantasticare su modelli improbabili. Personalmente credo in una Europa che metta al centro il dialogo sociale, che individui nuovi percorsi per un welfare credibile, che si occupi anche dei “perdenti” e che diventi un motore forte dell’innovazione tecnologica, sociale ed economica. In altre parole che non si rassegni al declino né che lo combatta solo a vantaggio di pochi. Nei ragionamenti e nelle proposte della sinistra europea tutto questo c’è. Però c’è anche poca generosità nell’agire. Ed è in questa mancanza di generosità e di visione strategica che la sinistra europea ha difficoltà a raggiungere il cuore dei cittadini e quindi rischia di essere sconfitta politicamente perché la paura di perdere ciò che ciascuno pensa di avere conquistato individualmente e per sempre (anche se non è vero) guiderà le scelte di ciascuno di noi. E quando gli egoismi o gli interessi personali prevalgono sugli interessi di una comunità o di un insieme di comunità, non succede mai niente di buono.

Destra, sinistra e corpi intermedi italiani nella globalizzazione

La Brexit consente a tutti, finalmente, di aprire gli occhi. Dopo la Germania anche la Spagna si avvia inevitabilmente verso la grande coalizione. In Italia, le analisi sulla crisi europea tra centro destra e centro sinistra non si differenziano più di tanto. Sono segnali di convergenza. Lo stesso intervento di Galli della Loggia sul corriere segnala un fenomeno su cui è necessario riflettere. Oggi, in Europa, si affrontano sostanzialmente due grandi schieramenti. Da una parte le forze che si riconoscono nel sistema, dall’altra chi lo vuole superare o distruggere. È uno degli effetti della globalizzazione. E chi si riconosce nel sistema economico, sociale e politico, pur con proposte e priorità differenti, comincia a comprendere che l’avversario vero è un altro e che, se non affrontato con determinazione e unità di intenti, rischia di terremotate il sistema stesso. Lo stesso vale per il nostro Paese. Chi lo ha capito e prova a giocare una carta diversa è Milano come sottolinea Galli della Loggia. Lo ha capito perché l’Expo ha messo in moto un approccio diverso, interculturale e globale. Lo ha capito perché i due candidati proposti sia dal centro destra che dal centro sinistra erano simili anche se non uguali. Entrambi hanno parlato del futuro di Milano e non del passato. E, entrambi, possono contaminare positivamente i rispettivi schieramenti. E questo è un bene. Quello che sta succedendo in tutta Europa è sotto gli occhi di tutti. Il disorientamento dei “perdenti” della globalizzazione, non gestito, sta provocando reazioni che scardinano le politiche nazionali, ne provocano la rimessa in discussione facendo riemergere rigurgiti nazionalisti, populismi e chiusure difensive cavalcati con grave spregiudicatezza da forze politiche nuove non riconducibili alle tradizioni novecentesche. Questo scontro non lascia spazio né margini alle vecchie culture politiche se costrette nei loro recinti ideologici. O entrambe sapranno rigenerarsi attraverso un processo di convergenza sui temi principali (economia, migrazioni, lavoro e giovani) portando risultati credibili nei singoli Paesi e lasciando ad un secondo tempo le differenze su altri temi o dovranno capitolare davanti alle forze anti sistema. In Italia ci aspetta il referendum. È un passaggio importantissimo per il futuro del nostro Paese. Ed è il terreno sul quale le vecchie culture di destra e di sinistra hanno l’occasione di iniziare un processo di rigenerazione e di ripartenza. Per questo non credo nelle teorie che presentano come tripolare il nostro sistema. Al contrario, mai come in questo momento siamo di fronte ad un sistema bipolare. Da un lato chi vuole e può riformare il sistema dentro un disegno più ampio, dall’altro chi lo vuole abbattere. In italia però abbiamo una carta in più: i corpi intermedi con la loro rappresentatività sociale, la loro capacità di proposta e il loro radicamento territoriale. E i corpi intermedi possono dare un contributo importante. Mai come ora chi ha qualcosa da dire dovrebbe scendere in campo con determinazione e generosità. Non sono tempi di irresponsabili neutralismi. Il disorientamento e le paure di questa fase faranno emergere egoismi e rancori profondi che solo una grande unità di intenti di tutto il Paese potrebbe esorcizzare. Speriamo che questa necessità venga compresa e interpretata con forza.

Forse un giorno dovremo ringraziare gli inglesi….

In questi giorni prevale il risentimento. Chi mette in discussione lo status quo è comunque e sempre colpevole. L’assurdo è che fino al giorno prima del referendum questa Europa non piaceva a nessuno. Adesso è una sequela di insulti contro gli inglesi “vecchi e campagnoli”, i loro giovani pavidi che non sono andati a votare, contro gli stessi istituti democratici che, addirittura, non sarebbero adatti all’espressione della volontà popolare su temi di questa portata. Il tutto condito da opinioni legittime quanto legate ad un mondo che ha le sue radici nel ‘900 e che non riesce a interpretare il nuovo paradigma insito nella globalizzazione. La finanza mondiale e, di conseguenza le multinazionali, spostano interessi, produzioni e affari dove conviene loro mentre i singoli Stati pensano di continuare a “giocare” con i loro interessi particolari dettando regole difensive, presidiando confini obsoleti e rinviando ad un futuro remoto scelte e decisioni che, prese oggi, consentirebbero di incidere sulla qualità della democrazia, sull’ambiente e sul futuro dei nostri figli. La scelta della Gran Bretagna è solo la rappresentazione plastica di una realtà che ci riguarda tutti. Una politica minuscola non può competere con il disorientamento e le paure di milioni di individui. Ma la politica è minuscola perché in questa transizione lo spazio assegnatole è ridotto dai vincoli che essa stessa si è creata in rapporto alla globalizzazione e alla interconnessione economica. L’Europa delle banche e della finanza ha dettato le sue regole e ha reso il sogno europeo un succedaneo di quanto avrebbero voluto i suoi costruttori. Adesso gli inglesi, ci consentono, di fatto, una nuova occasione. Per questo non dobbiamo farci condizionare da un dibattito che, a noi, che non siamo chiamati a decidere nulla, ci fa migliori di quelli che in realtà siamo. Ha ragione Gianni Pittella: ora o mai più. Occorre mettere la mordacchia alla burocrazia di Bruxelles e muoversi con coraggio e determinazione. Senza prendersela con falsi colpevoli. I colpevoli veri siamo tutti noi. È vero che il popolo duemila anni fa scelse Barabba e non Gesù. Ma, vista con gli occhi di oggi, mai un popolo fece scelta fu più azzeccata. Anche se lo si è capito solo molto più avanti.

Negoziato metalmeccanici e nuovo modello contrattuale

Se qualcuno nutriva aspettative su presunti spazi di manovra nel prossimo confronto sul nuovo modello contrattuale con Confindustria il Presidente Boccia, oggi, sul Corriere, ha sciolto ogni possibile equivoco confermando, di fatto, il suo appoggio alla posizione di Federmeccanica. L’elemento centrale del nuovo modello proposto, nelle intenzioni di Confindustria, dovrà essere caratterizzato dallo scambio salario-produttività con la sola funzione di garanzia affidata al contratto nazionale. La Brexit, semmai ci fossero stati dubbi derivati dai differenti comportamenti dei chimici e degli alimentaristi nell’era Squinzi, sembra chiuda definitivamente una stagione. E, per rendere ancora più chiaro il messaggio, Boccia dice chiaramente di essere intenzionato ad aprire il negoziato solo dopo la conclusione del contratto dei metalmeccanici. Quindi se non maturano nuovi elementi di riflessione tra i negoziatori sull’unica proposta presente sul tavolo, il rinvio in autunno della partita appare inevitabile. La stessa richiesta del segretario generale della FIOM Landini tesa a far scendere in campo la politica è destinata a restare senza risposta, soprattutto da oggi, quindi occorre prendere atto della complessità della situazione che sicuramente la Brexit aggrava. Personalmente continuo a pensare che la partita possa essere chiusa prima dell’estate e che sarebbe interesse di tutti concluderla prima che il costo per i lavoratori e per alcune imprese sia troppo alto o sproporzionato. Così come che la proposta di Federmeccanica consente spazi negoziali di manovra sufficienti pur restando nell’impianto presentato. Il punto vero è rappresentato dalle dimensione delle dinamiche retributive da definire per l’intera durata del prossimo contratto, come verranno determinate e cosa succede nelle imprese che, per varie ragioni, si dovessero sottrarre da negoziati aziendali. Stabilito questo che dà certezze alle aziende per il futuro, c’è da trovare una soluzione per il passato perché il passaggio da un sistema a doppio binario (nazionale e aziendale) ad uno a binario singolo (nazionale o aziendale) necessita comunque di essere metabolizzato. Su questo, insisto, manca una proposta sindacale esplicita e negoziabile. E quindi, delle due l’una, o l’obiettivo del sindacato è il semplice ritiro della proposta datoriale e il ritorno alla discussione su una delle due piattaforme presentate o la speranza di una conclusione positiva è affidata ad interventi esterni che, in qualche modo, conducano ad una mediazione che consenta ad entrambi di uscire alla meno peggio dal confronto in atto. Resto convinto che entrambe queste ipotesi siano dannose sia sul piano delle relazioni industriali sia sul piano della crescita di una nuova cultura tra capitale e lavoro. La fine del modello fordista ha conseguenze anche sul piano contrattuale perché credo sia evidente che stiamo andando verso un sistema fortemente differenziato tra settori che, nel tempo, porterà inevitabilmente a modelli nei quali ogni azienda opterà in base a necessità costruite su misura all’interno di regole generali definite dalla legge e dai contratti nazionali. Cgil, Cisl e Uil oggi, ed è comprensibile, cercheranno di aggirare il problema puntando ad accordi con le diverse associazioni datoriali che isolino la posizione di Confindustria e quindi di Federmeccanica. Ma i tempi sono cambiati. E la stessa Brexit non consente tatticismi. Questo è il tempo per leader che sanno alzare lo sguardo per costruire il futuro. Lo chiedono i lavoratori che aderiscono con convinzione alle iniziative del sindacato dei metalmeccanici e lo chiedono le imprese alle proprie rappresentanze. Ed è la qualità delle risposte che farà la differenza.

Vorremmo che non fosse una tromba a svegliarci! di Francesco De Lorenzis

Siamo andati a dormire abbastanza sereni e ci siamo svegliati in un incubo!
Il Regno Unito è fuori dall’Europa.
La tanto temuta Brexit si è realizzata e gli effetti economici che ne conseguiranno ancora nessuno sembra essere in grado di prevederli con precisione. Le borse intanto sono crollate!
La prima conseguenza tangibile c’è: mentre il leader Farage e l’ex Sindaco di Londra Johnson esultano per l’esito del referendum, il principale sconfitto, il premier Cameron, si è dimesso.
Dalle prime analisi dei voti sembra che a scegliere di uscire dall’Europa siano stati gli inglesi che sono più avanti con l’età! Quelli che ancora prendono il tè alle cinque per intenderci…
Sono stati proprio gli ultrasessantenni a determinare la vittoria del #Leave, coloro che meno di altri sembrano aver subito quelle che sono le “ingiustizie” delle politiche di austerity per cui si è contraddistinta l’Unione Europea.
Perché se è vero come è vero che le politiche europee, su quasi tutte le materie, negli ultimi anni non si sono contraddistinte per lungimiranza e volontà di guardare al futuro, è pur vero che coloro che ne hanno subito gli effetti più pesanti sono i giovani, quelli che nonostante tutto continuano a credere nel grande progetto degli “Stati Uniti d’Europa”
E speriamo che il prossimo 9 novembre non sia uno squillo di tromba (Trump-et) a risvegliarci bruscamente perché allora davvero il futuro sarà pieno d’incertezze per tutti.

Il PD, la disintermediazione e chi resta indietro…

Alla prima seria battuta di arresto del PD la minoranza interna ritorna immediatamente al Nanni Moretti del “di una cosa di sinistra!”. Bastasse questo… È vero che fa un certa impressione dover prendere atto che un partito di centro sinistra si afferma tra chi ce la fa e non incide più di tanto su chi resta indietro. Tra chi va all’estero e fa parlare di sé e non tra chi torna in silenzio sconfitto, tra chi lancia una start up e non tra chi in quella start up si appresta a vivere una ulteriore esperienza da precario. Tra chi amplifica il suo business con il commercio elettronico e chi chiude la sua attività tra un fisco opprimente e le pretese dei “cravattari”. Tra chi si porta a casa bonus milionari senza alcun merito e chi perde i suoi risparmi depositati nella banca di fiducia. E il nuovo termometro sociale di questa situazione diventa la rete. Con i suoi insulti, i suoi rancori e la solitudine di chi alza il tono della polemica con l’unico scopo di farsi notare. Certo c’è un Italia che crede nel futuro, che scommette su di sé, sul cambio generazionale e su chi vince. Per questa Italia Renzi è un solido punto di riferimento. Rottamatore, riformatore, solo contro tutti. Ma c’è un Italia che sembra essersi rassegnata e non ci prova nemmeno a farcela. Si sente tagliata fuori per colpa di un sistema nemico dove si vive in solitudine con i propri problemi e si sente contro tutti gli altri. Politici, istituzioni, stranieri ma anche chi cerca di farcela. E, nel Paese dello zero virgola del PIL in più e dell’occupazione che cresce o forse no, in un’Europa matrigna che ci tratta come scolaretti indisciplinati dove la ripresa economica rischia di riguardare solo alcuni, non è stato difficile indicare in Renzi il bersaglio grosso e facile da colpire. D’altra parte lui non si è sottratto a questo gioco al massacro. Ha lasciato crescere il malcontento nel suo Partito senza affrontarlo, ha individuato nemici dappertutto prima ancora che si manifestassero in tutte quelle associazioni e formazioni che, pur in crisi, hanno sempre costituito i grandi contenitori di partecipazione popolare collaterale del suo partito e ha scommesso tutte le sue fortune sulla crisi della leadership di un centro destra contando sulla possibilità di attrarlo sottovalutando così, non tanto la nascita di un nuovo contenitore politico del malessere né di destra né di sinistra, quanto il malessere stesso che iniziava a crescere nella società e che lui ha pensato di poter affrontare da solo con un manipolo di fedelissimi. Le teorie sulla disintermediazione risentono di questo approccio sbrigativo. Il blitz però, a conti fatti, non è riuscito. I corpi intermedi sono ancora lì, un po’ provati ma intatti nella loro forza propositiva e organizzativa, il centrodestra mantiene una base elettorale sostanzialmente intatta e anche poco disponibile a seguire il PD vecchio o nuovo che sia, anzi più propensa a giocargli contro. L’aver voluto giocare da solo tutta la partita ne amplifica ancora di più le responsabilità personali. Qui siamo. E in autunno ci aspetta un referendum importante dove le ragioni del “SI” e del cambiamento vanno ben oltre lo stesso Matteo Renzi e la sua esperienza politica e personale. Per questo è sbagliata la personalizzazione che si è voluta creare (e sulla quale Renzi ha delle precise responsabilità) intorno a quella scadenza. Personalmente non vedo, in questo momento, alternative serie a Renzi e al suo Governo e condivido che il referendum rappresenti uno spartiacque troppo importante per la credibilità del nostro Paese e quindi mi aspetto, come semplice cittadino, che il nostro Presidente del Consiglio prenda atto della necessità di rivedere la sua impostazione come peraltro alcuni segnali sembrerebbero già indicare. Il punto non è dar ragione ai suoi oppositori ma saper costruire un ponte realistico con la società, tutta la società. Anche con chi vive con smarrimento e preoccupazione questa fase di transizione. La convergenza deve essere con chi vuole veramente cambiare questo Paese, quindi con chi si appresta con motivazioni diverse a impegnarsi per superare la prova referendaria. Occorre far crescere nel Paese un dibattito vero sulle ragioni del cambiamento e sulla necessità di andare oltre gli scontri tutti interni alla politica e lontani dalla comprensione di chi i problemi concreti li vive tutti i giorni. Occorre riprendere a confrontarsi con i corpi intermedi per rilanciare un vero patto per lo sviluppo, dare fiato alle associazioni, costruire punti di convergenza vera, rinnovare i contratti di lavoro scaduti e dare segnali a chi resta indietro anche sul piano fiscale. La legge di stabilità sarà un passaggio importante. Occorre ritornare a parlare al Paese con onestà e sincerità. E su questo giocare le proprie carte. Il Paese ha bisogno di fondisti non di scattisti che si ritirano alle prime difficoltà.

Contratto metalmeccanici, un passo avanti e due indietro? Speriamo di no…

Lo scontro sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici non sembra in grado di produrre una possibile ricomposizione positiva e quindi una sua conclusione prima dell’estate. Il nodo non è di poco conto. Federmeccanica continua a ribadire con forza le sue buone ragioni alla base della proposta di “rinnovamento contrattuale” mentre dall’altro lato della barricata i sindacati insistono affidando agli scioperi proclamati la (im)possibile “capitolazione” in chiave tradizionale dell’interlocutore. È una situazione che rischia di riproporre la cultura tipica dei rinnovi contrattuali del passato pur in presenza di situazioni economiche e sociali profondamente diverse. L’incomunicabilità non serve a nessuno però, in questo contesto, credo non favorisca sopratutto il sindacato. E questo dovrebbe costituire, a mio parere, un importante elemento di riflessione. Le imprese sono impegnate in un grande processo di riorientamento organizzativo e culturale. Un processo complesso, difficile ma decisivo per il loro futuro. In una recente ricerca di Oxford Economics, un importante istituto di analisi economica per SAP che ha coinvolto oltre 21 Paesi i risultati sono evidenti e non si prestano ad equivoci. Se ci limitiamo solo ai temi riguardanti le risorse umane una delle sfide principali che devono affrontare le aziende (in tutto il mondo) riguarda l’insufficiente preparazione del management delle imprese nell’affrontare la digital transformation. Così come non stupisce che le risposte dei più giovani (a tutti i livelli professionali) siano profondamente diverse rispetto a quelle degli altri cluster coinvolti dalla ricerca. Essendo più motivati e reattivi ai temi dell’innovazione restano i più critici rispetto alla lentezza degli interventi di cambiamento e di engagement proposte dalle loro imprese. Questo comporta, inevitabilmente, la necessità di forti investimenti sulle competenze digitali, sul clima e sulla motivazione dei collaboratori, ai diversi livelli, da parte delle imprese. Quindi un forte investimento sulle risorse umane. Le proposte di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica, per le aziende meccaniche del nostro Paese, non potevano che concentrarsi su questo e non possono che prevedere l’azienda come il luogo fondamentale dove queste politiche possono e devono essere messe in campo. Da qui la necessità di puntare sulla formazione, sul welfare e su forme di incentivazione e di coinvolgimento anche economico che non possono, proprio per le ragioni espresse sopra, essere puramente simboliche anche a causa dei costi del contratto nazionale in un contesto di bassa inflazione. Da qui l’idea di assegnargli una funzione profondamente diversa rispetto al passato. Federmeccanica non credo possa derogare più di tanto da questa impostazione. Ne va del mandato affidatole dalle imprese e quindi della qualità del rapporto associativo. Per questo motivo penso che, per il sindacato, giocare in modo tradizionale questa partita sia molto pericoloso perché spinge inevitabilmente le singole imprese a continuare a credere che sia meglio tenerlo “fuori dai cancelli”. Quindi verrebbe meno una possibilità importante di coinvolgimento e di collaborazione che poteva e doveva trovare nel passaggio contrattuale uno snodo centrale. La necessità, cioè, di costruire un quadro complessivo di riferimento collaborativo di tipo nuovo. La sfida, a mio parere, andrebbe colta fino in fondo. Altrimenti si rischiano di perdere opportunità importanti. D’altro canto anche Federmeccanica non credo abbia interesse a spingere i sindacati a riportare indietro le lancette dell’orologio. Non ha senso né logica. Nel contratto nazionale non c’è “solo” l’eventuale minimo salariale di garanzia. Ci sono i diritti e i doveri, il welfare di categoria, la formazione, l’inquadramento di riferimento, gli affidamenti necessari per le deroghe e gli spazi da assegnare al livello aziendale quindi c’è da comporre un quadro affatto scontato. Sul salario i problemi sul tavolo sono, sempre a mio parere, sostanzialmente due. Innanzitutto un problema di principio sulla funzione salariale da affidare al CCNL in un eventuale ipotesi che preveda comunque anche un decentramento vero della contrattazione. In secondo luogo quali passi possono essere fatti da entrambi per trovare un ragionevole compromesso che non snaturi l’impostazione complessiva. Per superare lo stallo occorrerebbe affrontare con decisione due ambiguità. Una per parte. Da parte sindacale non risulta chiaro se può essere accettata o meno l’idea che la ricchezza si distribuisce solo dopo averla creata. Sul versante datoriale non è assolutamente chiaro cosa succede nelle aziende che non intendono avvalersi della futura contrattazione a livello aziendale. In questo caso il minimo di garanzia non sarebbe sufficiente ma occorrerebbe prevedere inevitabilmente un meccanismo di compensazione. Lavorando su questi due punti credo che un compromesso sia individuabile. Come ho già avuto modo di sottolineare non sono tempi questi in cui è possibile alimentare una idea di scontro sociale né pensare di sconfiggere il sindacato trasformandolo in un avversario dell’innovazione e della crescita delle imprese. Non credo sia affatto così e non credo convenga a nessuno.

Intervista a Serena Buzzi di CFMT Formazione

Serena Buzzi, 33 anni da pochi giorni e da cinque in Cfmt. Nel 2015 ti è stato chiesto di rinnovare un percorso consolidato, importante e apprezzato dai nostri dirigenti quale era l’Accademia delle capacità manageriali. Il progetto prevedeva di rivedere i moduli formativi (tematiche, titoli, materiali, stile e approccio), la parte grafica e la comunicazione. Una sfida difficile ed impegnativa perché rinnovare una proposta che, tutto sommato, continua a funzionare non è mai facile.

Vediamo come è andata.

Serena, come si chiama e a chi è rivolto il nuovo percorso?

L’abbiamo intitolato Gymnasium manageriale, ed è rivolto a Dirigenti con un’esperienza professionale elevata che vogliono crescere in managerialità e leadership potenziando le capacità strategiche del ruolo ricoperto: gestione dei team, prendere decisioni, pensiero prospettico, orientamento ai risultati, creatività, networking, e gestione dei conflitti. Dal prossimo anno inseriremo un ulteriore modulo sull’errore come fonte di innovazione e crescita.

Come è organizzata la partecipazione al percorso?

Il progetto consta di 7 moduli formativi (1 giornata ciascuno), fruibili singolarmente, ovvero i Dirigenti sono liberi di partecipare a uno o più moduli, potendo recuperare le giornate mancanti in occasione di edizioni successive.

Quali strumenti vengono messi a disposizione dei partecipanti?

Prima di iniziare il percorso al Dirigente viene fornito un agile e sintetico strumento fruibile via web: la Bussola di orientamento, ovvero un questionario di auto verifica sulle competenze manageriali. In questo modo il Dirigente può comprendere come aderire alla proposta formativa per ottenere il massimo valore aggiunto possibile.

A circa un mese da ogni giornata d’aula, e quindi dopo aver acquisito tecniche e strumenti pratici con cui lavorare fin da subito, per chi ne farà richiesta, sarà possibile fissare un incontro di coaching individuale con il docente di ciascun modulo (effettuabile anche tramite Skype) nel quale verificare i progressi ottenuti e concordare una strategia di consolidamento. Infine, a chiusura del percorso, i partecipanti al 90% delle attività proposte, avranno la possibilità di compilare un nuovo questionario comportamentale (assessment a distanza)in grado di fornire un confronto con il profilo emerso originariamente dalla bussola, di fatto una verifica oggettiva del livello di miglioramento raggiunto.

Qual è il bilancio dopo due anni di cambiamento?

Abbiamo attivato 6 edizioni dell’intero percorso, di cui 4 a Milano e 2 a Roma, per un totale di 42 giornate d’aula, più di 100 coaching individuali, coinvolgendo 134 dirigenti partecipanti. Due edizioni sono attualmente in corso e si concluderanno entro l’anno.

Come è stato il riscontro dei partecipanti?

Il percorso, nel suo complesso, ha ottenuto un ottimo successo. Sia i report di feedback che le survey conclusive, ci dicono che per quanto riguarda la parte contenutistica, organizzativa e strutturale, le aspettative dei partecipanti sono state soddisfatte. In particolare sono stati molto apprezzati: la buona panoramica su aspetti “non tradizionali” del management, il metodo interattivo, la varietà delle modalità di docenza, e il coaching individuale. Inoltre molti dirigenti ci hanno poi riferito di aver utilizzato in contesto aziendale, con il proprio team, concetti e strumenti appresi in aula, confermando l’utilità e la concretezza della nostra formazione. Tutti i feedback raccolti sono sempre condivisi con tutta la Faculty: il lavoro di aggiornamento sui moduli tematici è continuo sia per ritarare eventuali incoerenze, sia per approfondire nuovi stimoli sorti in aula.

Da quali settori provengono i partecipanti e quanto costa partecipare a questo impegnativo percorso?

I partecipanti provengono dalle imprese del terziario di diverse dimensioni. I settori principali sono: tecnologia, servizi alle imprese, turismo, consulenza, logistica e grande distribuzione. I nostri partecipanti sono i Dirigenti a cui viene applicato il Contratto Nazionale del Terziario, firmato da Manageritalia e Confcommercio, che prevede il versamento a Cfmt di una quota annuale di 125 euro a carico del dirigente e una quota analoga a carico dell’azienda. Questo consente al Dirigente di partecipare a tutte le iniziative che ritiene utile per il suo percorso professionale, e alle aziende di costruire con noi percorsi su misura.

Come hai lavorato al progetto?
Il lavoro di riprogettazione è stato portato avanti a stretto contatto con la Faculty del progetto: i docenti sono tutti professionisti con cui collaboriamo da anni e con cui si è creato un rapporto di fiducia e stimolo reciproco. Per poter continuare a rispondere al meglio alle esigenze dei nostri partecipanti è molto importante mantenere aperto un dialogo critico e propositivo. Inoltre con le colleghe della Scuola di management abbiamo un confronto quotidiano, che ci permette di avere sempre una visione amplia e completa delle proposte formative attivate e del riscontro dei nostri partecipanti.
Per chi volesse saperne di più?
E’ possibile scaricare la brochure completa del percorso, e navigare sul nostro sito ( http://www.cfmt.it  ) per cominciare a conoscerci.

Henry Ford tra gli scaffali della GDO? Si, ma ancora per poco…

Renato Curcio ha dedicato diversi libri al lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata. Addirittura lo aveva elevato a nuovo potenziale soggetto rivoluzionario. Ha studiato per anni il rapporto tra lavoratore e azienda e tra lavoratore e cliente da lui considerato un “consumista isterico” e quindi paragonabile al “padrone” nella sua opera di pressione e sfruttamento dei lavoratori. Leggere i suoi scritti era (ed è ancora) veramente istruttivo per chi si occupava (e si occupa) di gestione delle risorse umane nel commercio per comprendere l’atteggiamento di molti lavoratori di una certa generazione verso i clienti in coda alle casse o di chi carica gli scaffali, dei banconisti o, infine, degli addetti alle pulizie. Nessuna indagine di clima allora avrebbe potuto sostituire la descrizione minuziosa di un rancore sordo e difficile da superare che per anni ha complicato qualsiasi intervento sul miglioramento della relazione con il cliente che le grandi catene cercavano di proporre nei comportamenti quotidiani. Il sociologo di Monterotondo si era appoggiato alla Uiltucs Uil milanese che lo aiutò in quegli anni a completare le sue ricerche sul campo concentrandosi soprattutto sulle realtà multinazionali di grandi superfici. Indagini prodotte negli anni 90 e che presentano uno spaccato del lavoro allora assolutamente sottovalutato da molti addetti ai lavori. In realtà non c’è stato in seguito alcun soprassalto rivoluzionario dimostrando che Curcio fosse più alla ricerca di conferme rispetto ad un suo pensiero maturato negli anni del carcere più che mosso dal desiderio di comprendere a fondo un soggetto sociale molto particolare che addirittura ha contribuito in seguito, seppur in minima parte, alla nascita di fenomeni politici e sociali esattamente opposti a quelli auspicati dall’ex BR. Dario Di Vico, in un articolo molto interessante sul Corriere di ieri conferma, nel lavoro della GDO, l’elemento di marcato fordismo che rende, quei lavoratori, in qualche modo assimilabili agli operai tradizionali dell’industria. L’esempio della cassiera di un ipermercato è ancora, in parte, calzante.Valutata più per la velocità con cui passava la merce alla cassa che sul rapporto con il cliente ha rappresentato la vera massa di manovra delle lotte sindacali della categoria negli anni che vanno dal 1980 fino alla fine del secolo scorso. Lotte derivate dalla esperienza sindacale fordista del settore industriale peraltro senza alcuna visione da parte del sindacato di categoria tesa a far crescere una nuova cultura sindacale più adatta ad un negozio in cui il servizio, in termini di qualità e quantità, era e resta fondamentale. Quando le cosiddette “conquiste” non sono state più compatibili con il contesto economico delle imprese, il sindacato prima ha cercato di difenderle, riservandole in esclusiva ad una sola generazione, poi ha dovuto inevitabilmente accettarne il loro superamento per tutti. E questo ne ha minato la credibilità. Oggi le aziende della GDO sono cambiate molto. Sia in termini di clima che di opportunità di crescita professionale. Le imprese nazionali e multinazionali investono ingenti risorse in formazione e sviluppo mentre i sindacati, soprattutto quelli che non hanno ancora abbandonato l’idea che fosse possibile difendere l’esigenze di una sola generazione sono stati messi, di fatto, alla porta. Le vicende legate al rinnovo del CCNL di Federdistribuzione sono lì a dimostrarlo. I residui di fordismo, ancora presenti, sono ormai in discussione. Ridotta la possibilità di confrontarsi con i concorrenti sul versante dei prezzi, della qualità e dei costi, le imprese stanno puntando su nuovi modelli organizzativi e di vendita, qualità del servizio, rapporto con il cliente sia in negozio che a domicilio. Senza parlare dei diversi comportamenti di acquisto indotti dai negozi di vicinato, dai discount, dai GAS, da internet e più recentemente dalle intenzioni di Amazon che non mancheranno di produrre profondi effetti e cambiamenti. Aziende come Carrefour, Esselunga, Finiper, Conad, Coop, tanto per citarne alcune tra le più conosciute investono in formazione e crescita professionale importi che le imprese più note del mondo industriale non impegnano più da tempo. Concordano forme innovative di welfare aziendale o sostengono, insieme ai sindacati e alle confederazioni datoriali, un importante welfare contrattuale di categoria, assumono e offrono opportunità di crescita ai giovani, fanno accordi con università come e quanto le imprese di altri settori. Non investono, però abbastanza nel presentare gli sforzi di questo impegno a 360 gradi per cui restano prigionieri di una opinione diffusa che assegna la qualifica di “povero” e quindi mal pagato, il lavoro che mettono a disposizione. Poco importa che per molte di queste persone, per condizione o per status sociale, non esiterebbero alternative concretamente praticabili. Così come per giovani studenti, per donne che abbisognano di flessibilità o che vogliono contribuire al reddito familiare. E, di fronte a questi cambiamenti sempre più forti e rapidi del settore il sindacato di categoria rischia di restare al palo perché non è in grado di accompagnarne l’evoluzione incastrato tra le esigenze delle imprese della Cooperazione, quelle di Federdistribuzione e quelle rimaste in Confcommercio. Qui sta il punto. O ci si rassegna alla crisi del fordismo e quindi alla crisi del modello che si è contribuito a costruire o ci si impegna ad accompagnare il cambiamento in atto. Il cambiamento del lavoro, dei modelli organizzativi, del rapporto con il servizio e con il consumatore, del riconoscimento del merito, del contributo del singolo lavoratore al successo del suo punto di vendita e della sua impresa e quindi della cultura sindacale o si continua ad inseguire questo o quell’interlocutore contando sulla disponibilità a sottoscrivere un contratto a qualsiasi costo. L’impegno delle Confederazioni sindacali e datoriali sul nuovo modello contrattuale è l’unica risposta seria che consentirebbe a tutti di superare lo stallo attuale trovando le risposte adeguate nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Il limite culturale del fordismo di marca sindacale è proprio quello di pensare che esista ancora una condizione comune di sfruttamento e di solidarietà tra uguali che, prima o poi, è destinata a manifestarsi. Non conosco l’organizzazione di molte imprese industriali ma basterebbe girare in un punto vendita qualsiasi della GDO per capire la ormai grande differenza tra capi reparto, specialisti, merchandiser, promoter, giovani assunti con le formule più varie di contratto con quello che resta della vecchia guardia sindacale. Henry Ford c’è ancora tra gli scaffali, questo è vero. Però sta per andare in pensione, Fornero permettendo.

P. S. A sottolineare ancora di più i cambiamenti in atto nelle imprese della GDO allego le recentissime 8 regole di Mario Gasbarrino AD di Unes per costruire un’azienda felice e vincente. Solo qualche anno fa, a leggere queste note, si sarebbe parlato di paternalismo o di un semplice esercizio di stile. Oggi, al contrario, fanno riflettere….
Giustizia e trasparenza: regole chiare-comunicazioni trasparenti-promesse mantenute
Attenzione al benessere: interessarsi sinceramente ai collaboratori-garantire luoghi di lavoro sicuri e piacevoli (sedie ergonomiche, ecc)
Sviluppo personale: formazione continua-attenzione ai talenti unici di ogni individuo-incentivare le idee e l’innovazione
Leadership e Management basati su valori e etica: proprietari e management che agiscono e vengono percepiti come modelli condivisi-fiducia condivisa nell’organizzazione e in chi li rappresenta
Responsabilità sociale: attenzione all’impatto che ha l’azienda sull’esterno (territorio, ambiente, fornitori, clienti, ecc.)
Reputazione: come l’azienda viene percepita-la fama che l’azienda ha, come se ne parla, quanto è conosciuta
Condivisione: degli spazi-oltre che delle informazioni-creare uno spirito di squadra fortissimo-trovare un senso comunitario
Uso del tempo: permettere alle persone di bilanciare professionale e personale