PER UN SISTEMA DI COLLABORAZIONE INTRAPRENDENTE TRA PARTI CHE CREANO INSIEME VALORE APPORTANDO RISORSE DIFFERENTI E COMPLEMENTARI by Enzo Rullani

1. Affrontare insieme la crisi

L’esperienza della crisi, che dura ormai da anni, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.

Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e datori di lavori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.

Molti anelli della catena produttiva cominciano a saltare o ad essere paralizzati, privi di capacità di risposta.

Un’evoluzione del genere mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza, a cui oggi si pone un problema fondamentale: arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, sia nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.

Ma su quale terreno?

In un momento in cui il nuovo governo si dichiara disponibile a fare della logica collaborativa il suo codice di comunicazione e di azione, è importante che le parti sociali sappiano insieme offrire una piattaforma realistica, ma efficace, che indichi – alla politica e alle singole iniziative individuali – la strada da prendere.

2. La collaborazione intraprendente per uscire dalla crisi

Per quanto riguarda le iniziative anti-crisi, di effetto immediato, la logica della collaborazione implica certo una attenzione particolare agli anelli deboli del sistema produttivo e sociale, che rischiano di saltare e di essere emarginati dalla produzione di valore. La collaborazione solidaristica che ridistribuisce i costi delle crisi in base ad un principio di equità sociale – per cui ciascuno contribuisce in base alle sue possibilità – è il punto di partenza: ma basta?

Accanto a questo approccio, che fa leva sulla giustizia re-distributiva, bisogna fare anche altro.

Per due ragioni fondamentali.

Prima di tutto, ci sono dei limiti stringenti alle risorse pubbliche che possono essere destinate alla redistribuzione del reddito tra diversi bisogni e emergenze prioritarie (ammortizzatori sociali, fasce particolarmente penalizzate, misure tampone per il credito e i pagamenti della PA).

Il peso della fiscalità e dell’indebitamento pubblico riducono moltissimo lo spazio della redistribuzione possibile, oggi, e per gli anni a venire.

In secondo luogo, per fronteggiare gli effetti distruttivi della crisi, gli stanziamenti di denaro – specie se limitati – servono fino ad un certo punto: ci vuole di meglio e di più.

Contano soprattutto interventi che liberino la forza delle idee e dell’intelligenza collettiva, distribuita nelle molti fili del tessuto sociale.

Con una priorità: le imprese non devono morire, oltre la soglia del ricambio fisiologico, e la loro capacità di innovare e generare valore deve essere salvaguardata, nell’interesse di tutti.

Delle filiere a cui appartengono, dei lavoratori a cui danno occupazione, dei territori che le ospitano, delle banche che le finanziano, dei sistemi sociali che fertilizzano con le loro iniziative.

Per ottenere questo scopo, la redistribuzione del reddito e il potere di regolazione dello Stato contano fino ad un certo punto.

Forse sono presenti nelle crisi di maggiore dimensione e notorietà – e non sempre in modo efficace – ma certo non hanno un ruolo decisivo nelle tante piccole grandi crisi che riguardano l’impresa diffusa, lontana dei riflettori.

Qui gli strumenti per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi e le perdite, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.

E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove.

La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza.

Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui di fa parte a non soccombere, di fronte alla crisi.

Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono ad evitare danni più gravi.

Non a guardare oltre l’orizzonte della sopravvivenza immediata.

3. La collaborazione intraprendente nella costruzione del futuro possibile

Se si alza lo sguardo sul futuro, si scopre una terza forma di condivisione: la collaborazione intraprendente nella costruzione del futuro possibile.

Questa collaborazione nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.

Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui. In effetti, la produttività delle filiere che hanno base in Italia ha esaurito la sua crescita già nell’ultimo decennio del secolo scorso.

Da allora, anche prima della crisi 2008-13, ristagna. Segno di un disadattamento del nostro sistema rispetto alle forze che stanno portando avanti la transizione in corso, verso nuovi assetti competitivi e di reddito, nel mondo.

E’ per avere ancora chances su questo terreno – della costruzione del futuro comune – che serve la collaborazione intraprendente.

Ossia la collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali).

4. Shared value: la nuova logica del valore condiviso

La logica di questo investimento condiviso sul futuro – in cui ciascuno deve fare la sua parte e assumersi i suoi rischi – è quella della co-produzione di valore, ossia del contributo delle parti in causa allo shared value richiamato di recente da Michael Porte e Mark Kramer come chiave della nuova competitività del nostro secolo.

Il valore è frutto di un processo di co-produzione delle conoscenze, delle innovazioni, dei beni e dei servizi che – nel loro sommarsi sinergico – danno valore, appunto, al nostro lavoro e al nostro investimento sul futuro.

E’ qualcosa che riguarda l’impresa, ovviamente, la cui intraprendenza – in termini di assunzione di rischi e di investimento sul futuro – è il punto di partenza del capitalismo imprenditoriale che abbiamo conosciuto sin qui.

Ma – ecco la novità – oggi è qualcosa che riguarda anche tutti gli altri attori che sono compresenti nel processo di co-creazione del valore. Riguarda il manager, ad esempio, che sempre meno visto come un “dipendente”, delegato ad eseguire ordini ricevuti dall’alto, e sempre più collocato, invece, in un ruolo di intraprendenza che lo vede collaborare con l’imprenditore assumendo rischi, facendo investimenti (sulla propria capacità professionale), ampliando lo spazio di autonomia nelle decisioni e nei problemi che gli vengono delegati.

Ma, sia pure con le ovvie differenze, questo processo di diffusione del rischio di investimento, dell’autonomia e dell’intelligenza produttiva riguarda un po’ tutte le posizioni di lavoro “dipendente” che diventano critiche per le aziende, nel rispondere in modo flessibile e creativo a problemi che è sempre meno facile prevedere e gestire dall’alto.
Il lavoratore dipendente è oggi in concorrenza – per le sue mansioni e i suoi livelli di reddito – con i molti lavoratori emergenti che si stanno affacciando sul mercato delle filiere globali.

La sua capacità di difendere i propri differenziali di normazione e di reddito dipende in misura sempre maggiore dallo sviluppo di capacità professionali differenziali – rispetto a quelle del lavoro prestato dai competitors globali – e questo richiede un investimento professionale e un percorso di apprendimento differenziali, tali da compensare l’extra-costo di partenza.

L’intraprendenza del lavoro, in termini di investimento e di uso della professionalità conseguente (in termini di rischio, autonomia, intelligenza), dà luogo ad un bisogno di collaborazione (intraprendente) con l’impresa, nello sviluppo delle innovazioni e delle esperienze di apprendimento possibili nel corso della carriera lavorativa di ciascuno.

Per reggere alla sfida, insomma, il lavoratore che vuole diventare intraprendente ha bisogno dell’impresa, con cui collaborare; d’altra parte, anche l’impresa, se vuole innovare in modo non banale, ha bisogno di coinvolgere i propri lavoratori – o almeno quelli disponibili – in una scommessa condivisa sul futuro possibile.

5. Il ridisegno (collaborativo) della trama delle relazioni contrattuali e sociali in termini di intraprendenza condivisa

Discorso analogo vale per le altre forme di relazione che sono presenti e attive nel sistema sociale.

Vale innanzitutto per le filiere, in cui committenti, fornitori e distributori devono far fronte comune nell’esplorazione del nuovo e del possibile.

Ma vale anche nei rapporti tra banche e imprese finanziate, in cui occorre assumere rischi condivisi e usare comuni linguaggi di valutazione degli stessi.

E diventa infine la nuova base di relazione nei rapporti tra imprese e territori, in cui la logica vincente è quella del co-investimento, cosa che presuppone la disponibilità a condividere rischi, nella logica della collaborazione intraprendente.

Le reti tra imprese – nelle filiere, nei territori o anche in sistemi di condivisione trans-settoriali e trans-territoriali – sono un modo per esplicitare contrattualmente questa logica di condivisione dei costi, dei rischi e dei benefici nella costruzione del futuro comune.

Ci sono, in effetti, molti modi per far valere questa condivisione intraprendente del futuro possibile.

Uno di quelli che potrebbe essere utilmente sperimentato è quello che deriva dalla costruzione di un sistema di prezzi e di condizioni contrattuali che consenta una automatica – e non conflittuale – distribuzione degli eventuali benefici e delle eventuali perdite, in funzione degli investimenti e dei rischi assunti da ciascuna delle parti in causa.

Se, ad esempio, impresa e lavoratori dipendenti assumono un medesimo progetto di competizione per il futuro, da questo progetto condiviso discenderanno impegni ad investire e a comportarsi in modo conseguente, per tutte le parti in causa, nella logica – appunto – della collaborazione intraprendente.

Prezzi e condizioni contrattuali possono variare nel tempo in modo consensuale, e non conflittuale (ossia secondo la logica del “cerino”).

Nel momento in cui il progetto arriva ai risultati attesi, le retribuzioni e le condizioni di lavoro potranno migliorare, ridistribuendo il risultato tra le parti coinvolte. Fermo restano che, in caso di insuccesso, retribuzioni e condizioni contrattuali dovranno adeguarsi, in modo da ridistribuire le perdite e i sacrifici conseguenti.

Criteri simili possono essere elaborati e proposti nei prezzi e delle quantità contrattate nelle filiere tra committenti e fornitori che vogliano elaborare una visione condivisa del futuro, e del percorso di investimento da seguire per arrivarci.

Ma si possono immaginare anche tassi di interessi e condizioni contrattuali variabili anche tra banche e imprese finanziate, in funzione dell’esito dei progetti su cui si fa una scommessa comune.

Lo stesso si potrebbe immaginare in termini di fiscalità, o di rapporto tra le imprese e i beni comuni che esse usano nei territori.

6. La società intraprendente (a venire) e le associazioni imprenditoriali (di oggi)

Le associazioni imprenditoriali hanno, in questo passaggio, un ruolo di grande responsabilità.

Prima di tutto, perché devono essere parte attiva nell’organizzare alcuni dei circuiti di collaborazione intraprendente sopra richiamati, che non possono fare capo alla singola impresa, ma richiedono la collaborazione tra molte imprese.

In secondo luogo, perché – nel momento in cui si sviluppano percorsi diffusi di condivisione collaborativa tra parti sociali differenti – è la società nel suo insieme che diventa società intraprendente.

Consapevole dei vantaggi e delle regole su cui si basa la condivisione degli investimenti, dei rischi e dei benefici affidati al futuro comune.

La logica imprenditoriale di investimento sul futuro va diffusa nell’insieme del corpo sociale, e – in questo – la cultura di impresa – centrata sulla produzione competitiva e a rischio di valore – diviene un riferimento essenziale per tutti, anche per le parti sociali che finora hanno praticato percorsi differenti, più solidaristici o distributivi.

Le imprese e le associazioni imprenditoriali che hanno sedimentato, nella loro storia, decenni di esperienza nella produzione intraprendente di valore, possono avere una posizione baricentrica in tale evoluzione, a condizione che mettano le proprie idee e capacità al servizio della costruzione condivisa di un futuro comune.

Nuove prospettive per il riformismo dei corpi intermedi

Sergio Bellavita neo dirigente USB ed ex dirigente FIOM CGIL lancia una sfida addirittura al Governo Renzi: “a settembre sciopero generale contro le politiche economiche e sociali imposte dalla UE a difesa della Costituzione e dei contratti nazionali”. Niente di meno. È la storia che si ripete. Prima i Tiboni, poi i Bernocchi, poi i Cremaschi. La galassia del cosiddetto sindacalismo di base si è sempre nutrita di una micronesia di situazioni cresciute intorno a personaggi profondamente diversi tra di loro e dall’estremismo da salotto televisivo chiaccherone ma spesso inconcludente. Pur con tutti i distinguo del caso le esperienze di persone o gruppi organizzati che si agitano a sinistra dei grandi sindacati confederali non è nuova né figlia della globalizzazione. È una storia iniziata fin dagli anni ’70. Chi esce sbatte sempre la porta e accusa chi resta del peggio del peggio. Perché registrarlo? Perché, secondo me, la mossa di Landini è da inserire in un disegno forse più interessante che può guardare lontano. Soprattutto può consentire anche alla Cgil di guardare lontano e di poter contare sulla FIOM, il che non è poco. È indubbio che il sindacato confederale sia in parte confinato e costretto a difendere, pur in mezzo a grandi difficoltà, le condizioni di vita e di lavoro delle generazioni che lo hanno costruito così com’è oggi, il loro modo di pensare e tutte le liturgie annesse che costituiscono la vita e l’agire delle grandi organizzazioni di rappresentanza. Questa difficoltà è, sia di azione, che di modello organizzativo. È evidente che una strategia praticabile presuppone obiettivi chiari e risultati certi oggi sempre più difficili da realizzare. Un mondo che mette in forte crisi forme orizzontali e tradizionali di solidarietà tra simili, siano essi nel Paese o nel resto del pianeta e favorisce forme nuove di convergenza di interessi tra capitale e lavoro un tempo inimmaginabili. Un mondo dove la rete di interessi da tutelare si scompone e si ricompone continuamente. E infine dove l’inclusione o l’esclusione dai diritti di cittadinanza, economici, di status sociale, non è più possibile ritenerli acquisiti anche quando, e se, raggiunti. Cosa saranno il lavoro (inteso come valore, modalità e contenuti), il welfare (vecchio e nuovo), l’istruzione (dopo la scuola e fino alla pensione), i diritti fondamentali di cittadinanza in un mondo globalizzato e in quale modo sarà possibile conquistarli e mantenerli per le differenti generazioni rappresenta la nuova frontiera per un sindacato che vuole essere autenticamente riformista. Le risposte possono essere molte e diverse tra di loro. Ma la vera partita del sindacato si giocherà proprio su questo. Ed è altrettanto chiaro che solo un sindacato che ritrova una prospettiva unitaria può ritornare ad essere autorevole sulla direzione di marcia da prendere. Questa prospettiva consentirebbe, tra l’altro, di mettere mano anche al modello organizzativo rimettendo al centro il territorio e le comunità locali che il processo di globalizzazione renderà sempre di più determinanti e vitali. Tra l’altro l’ultimo libro di Gaetano Sateriale della Cgil ne ribadisce il valore e l’importanza strategica. Marco Bentivogli si muove con altri dirigenti sindacali nella prospettiva di un forte sindacato industriale nella Cisl. Lo stesso Luca Visentini, neo eletto segretario generale del sindacato europeo, è impegnato a costruire un sindacato riformista e moderno in un’ottica sovranazionale. I modelli contrattuali, oggi in discussione, sono destinati ad andare proprio in questa direzione semplificando in termini quantitativi e di contenuto i contratti nazionali contribuendo a favorire l’affermarsi di una cultura maggiormente collaborativa tra mondo del lavoro, impresa e territorio. Dall’altra parte, anche dal mondo delle imprese qualcosa di importante si sta muovendo in questa direzione. Dalla Luxottica, alla Ferrero, alla Barilla, a molte PMI, stanno proponendo organizzazioni che riportano al centro la persona, il suo contributo al lavoro, la qualità, la quantità e la rimessa in discussione del luogo dove lo stesso si potrà svolgere. Nella stessa proposta di Federmeccanica ci sono importanti elementi che vanno in questa direzione. Insomma dopo aver toccato con mano i rischi e le difficoltà connesse ad un mondo che cambia troppo velocemente forse è possibile intravederne le opportunità non solo nelle imprese più attente ma anche per le organizzazioni di rappresentanza. Da qui la necessaria rivisitazione della governance dei sistemi bilaterali e di welfare condiviso. Impresa, territorio e comunità come cardini di un nuovo progetto riformista al quale i corpi intermedi potrebbero partecipare uscendo definitivamente dai vecchi confini e dagli steccati creati nel novecento. C’è un grande spazio per una nuova cultura della collaborazione. Una cultura che sappia rimettere al centro l’impresa come luogo di creazione del valore ma anche come luogo di condivisione. Un’impresa che, proprio per questo, rispetta l’ambiente, il territorio ed è parte della comunità nella quale è inserita. Un’impresa moderna, utile, eticamente determinante per la crescita delle persone che vi operano. Per fare questo, però, non basta qualche imprenditore illuminato. Occorre creare un contesto comune dove chi vuole giocare questa partita possa farlo con impegno e serietà. Ma occorrono anche corpi intermedi che sappiano guardare avanti anche oltre i loro pur legittimi interessi di parte. Quello che è chiaro ė che sempre più le convenienze e le aspettative della comunità dovranno coincidere con i nuovi equilibri che si individueranno tra i diversi soggetti che interagiscono e si confrontano nella comunità stessa. La capacità e il compito di individuare questi nuovi equilibri e definire le indispensabili priorità sociali spetta, ovviamente, alla politica. La proposta e l’iniziativa, al contrario, spettano a tutti coloro che vogliono ritornare ad essere protagonisti e giocare così un ruolo nuovo e costruttivo nell’interesse del futuro del Paese.

La formazione come diritto soggettivo…

Marco Bentivogli della FIM CISL ne rivendica giustamente l’intuizione nella sua categoria: mettere a disposizione di tutti i lavoratori, nessuno escluso, la formazione necessaria per rafforzare le competenze professionali e sviluppare le conoscenze in un sistema d’impresa proiettato verso Industry 4.0. Un elemento importante in un comparto che deve affrancarsi dal fordismo e dove, al di là delle parole, spesso i lavoratori sono stati considerati solo numeri. Federmeccanica, dall’altro versante non si è tirata certo indietro. A sua volta ha accettato e rilanciato la sfida. È un passaggio importante soprattutto perché “la persona” è uno degli argomenti centrali del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. E, quel contratto, ha sempre indicato contenuti e direzione di marcia per tutti i settori. Nel terziario, è dal contratto nazionale dei dirigenti del 1993, che Manageritalia insieme a Confcommercio, diedero vita al CFMT, il Centro di Formazione Manager del Terziario. Centro nel quale ciascun dirigente ha diritto a frequentare individualmente i corsi proposti. La quota contrattuale annuale è di 125 euro a carico del dirigente e altrettanto a carico dell’azienda. Non c’è nessun limite alla partecipazione. C’è un diritto soggettivo definito nel contratto nazionale collegato alla responsabilità e ad una gestione individuale. Il dirigente può concordare il percorso con la propria azienda, se d’accordo, oppure utilizzare le proprie ferie. Così come l’azienda che ne può usufruire costruendo direttamente progetti su misura. È ovvio che si tratti di un intervento di nicchia (circa 22.000 dirigenti del terziario) ma non credo esista una esperienza a favore del management di queste dimensioni, a questi costi e di questa qualità, in tutta Europa. Da questa intuizione si è consolidata una realtà bilaterale, costruttiva, utile. Oggi è facile comprenderne l’importanza. Nel 1993 furono necessari visione, intuito e consapevolezza. Soprattutto l’idea che non bisognasse lasciare il manager solo in rapporto con la formazione necessaria alla sua crescita professionale. Oggi questo problema riguarda tutti perché l’aggiornamento e la formazione continua restano fondamentali per muoversi nel mercato del lavoro. Nel 2002 pochi anni prima di lasciarci Bruno Trentin ad una lectio doctoralis in Cà Foscari affermò: “… il rapporto tra lavoro e conoscenza (è uno) straordinario intreccio che può portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà”. Interrogarsi su ciò che serve oggi a ciascun lavoratore, indipendentemente dalla sua qualifica, dal giorno dopo il conseguimento del titolo di studio e fino alla pensione diventa, sempre più, un tema centrale. E questo sia sul versante dei contenuti che delle metodologie. Professionalmente si vive più a lungo e si cambia più spesso lavoro per volontà o, sempre più spesso, per necessità. Il paradosso è che, le persone, oggi sono destinate a vivere più a lungo delle imprese. Non era mai successo in passato. Questo significa che investire su se stessi, sulla propria professionalità e sulla capacità di misurarsi con il mercato costruendo relazioni utili e positive non è più un obiettivo solo di chi vuole fare carriera ma diventa un passaggio obbligato per tutti. Frequentare community, avere un personal brand riconosciuto, aggiornarsi e gestire con attenzione il proprio percorso professionale si trasforma in una attività alla quale va dedicato tempo, impegno e concentrazione. Farlo in solitudine non è facile. Soprattutto per chi non lo ha mai fatto. La persona, oggi, si misura con un mercato del lavoro molto più complesso e selettivo rispetto al passato. Un mercato nel quale il percorso o la crescita in una singola azienda è solo una tappa. La carriera ha sempre più discontinuità e segue traiettorie sempre diverse. Competenze professionali e soft skill si devono aggiornare continuamente determinando nuove priorità. L’impresa ha un obiettivo formativo che condivide con il collaboratore ma, quest’ultimo deve investire anche sul suo futuro professionale sapendo andare anche oltre le esigenze dell’impresa nella quale è occupato. È questo non può più essere sottovalutato dai contratti collettivi e quindi nel nuovo scambio tra impresa e singolo lavoratore. Difendere e incrementare la competitività professionale: questa è la sfida per le imprese e per le singole persone. Per le imprese questa sfida passa dalla capacità di collegare ciò che i clienti apprezzano nei prodotti e nei servizi (cioè la competenza distintiva dell’impresa stessa) aggiornando continuamente  le differenti competenze professionali dei diversi attori aziendali. Per i singoli collaboratori la sfida è rappresentata dalla capacità di sottoporre ad un aggiornamento e un miglioramento continuo il proprio bagaglio di competenze e quindi della propria capacità di risolvere i problemi. Per fare questo non è sufficiente affidarsi alle istituzioni professionali tradizionali ma presuppone anche un cambiamento culturale. È la cura del proprio patrimonio professionale che rappresenta, sempre di più, una leva insostituibile. Ma questa leva si aziona solo se la persona adulta riflette sul proprio processo di apprendimento, ne comprende i processi che lo facilitano, lo finalizza ponendosi sempre nella condizione di valutarsi e di correggersi, se necessario. Secondo il saggista americano Alvin Koffler “Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo.” I dati parlano chiaro. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Essere preparati a questi passaggi epocali non è solo un problema che riguarda i giovani o gli altri. Riguarda tutti.

Grande Distribuzione e contratto nazionale, come uscirne..

Credo sia ormai chiaro a tutti che la stagione della contrattazione nazionale nel terziario si è chiusa con il rinnovo del CCNL firmato da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali di categoria circa un anno fa. Due aspettative (importanti) restano però ancora senza risposta. La richiesta della GDO della Cooperazione di applicare un CCNL simile a quello firmato da Confcommercio respinta dai tre sindacati di categoria e la richiesta dei tre sindacati di categoria di avere un contratto simile a quello firmato da Confcommercio respinta da Confesercenti e Federdistribuzione. È una situazione, per certi versi, paradossale. Ci sono imprese dello stesso settore che applicano il nuovo contratto e altre che non lo applicano. Federdistribuzione, da parte sua, lamenta che il contratto firmato da Confcommercio non sarebbe applicabile dalle aziende che si riconoscono nelle loro organizzazione mentre lo è per molte aziende della GDO, leader di settore, che si riconoscono in Confcommercio e che lo applicano da circa un anno. E la Cooperazione che vorrebbe applicarlo anch’essa e da subito, non può. In tutto questo i rispettivi lavoratori ne pagano le conseguenze. Se usciamo per un attimo dalle differenti logiche organizzative, legittime quanto inconcludenti e guardiamo avanti forse possiamo trovare uno nuovo spazio di confronto e di azione che consenta di superare lo stallo, nel quale ci si è voluti infilare, sottovalutando il contesto. A mio modesto parere la disponibilità a chiudere questa fase dovrebbe essere interesse di tutti gli attori coinvolti. Per fare questo occorrerebbe innanzitutto rimettere al centro le esigenze delle imprese e dei lavoratori. Non c’è altra via. Un contratto nazionale non si firma più da tempo esclusivamente sulla base dei reciproci rapporti di forza messi in campo. Quindi non saranno né gli scioperi né le cause legali né l’imposizione di una dura condizione non negoziabile al sindacato che sbloccheranno questa situazione. Né continuare a ritenere che lo stallo sarebbe causato da indebite pressioni di chi ha già firmato il suo contratto. Basterebbe mettere in fila le richieste delle due organizzazioni datoriali prodotte in tutti questi mesi puntualmente respinte dagli stessi sindacati di categoria per capire quanto è fuorviante nascondersi dietro questa scusa. Queste forzature tese a ottenere rinnovi contrattuali alternativi sono nate in una fase economica e sociale completamente diversa. Così come è ingenuo credere che avere quattro contratti nazionali per poco più di trecentomila addetti, di questi tempi, possa rappresentare un scelta razionale. E infine pensare che chi, come Confcommercio, ha firmato per primo un difficile rinnovo possa subire una iniziativa di dumping da confederazioni minoritarie o federazioni di secondo livello senza alcuna possibilità di modificare gli equilibri raggiunti con gli accordi a suo tempo sottoscritti. Oggi siamo qui. Su altri tavoli sta decollando un importante confronto tra le diverse parti sociali sulla contrattazione, i suoi contenuti e i suoi livelli. Quindi anche sul peso dello stesso contratto nazionale di categoria. Questo negoziato è condotto dalle Confederazioni datoriali e sindacali. Solo all’interno di questo percorso si definiranno regole, compatibilità e livelli della contrattazione. Molte cose sono destinate a cambiare. C’è il tema del welfare, del contenuto e delle modalità dei livelli aziendali, territoriali e delle differenze significative presenti nei comparti del terziario di mercato da prevedere e da gestire. Quindi se i diversi interlocutori comprendessero il cambio di scenario, alzassero lo sguardo e guardassero avanti le possibilità di rientrare in gioco ci sono tutte. Per fare questo occorrerebbe avviare un confronto serio, senza pregiudizi superando incomprensioni ormai datate e abbassando la ormai inutile tensione ancora presente. Concentrarsi su come uscire da questa situazione è più importante, oggi, di qualsiasi recriminazione sul passato. Quello che però deve essere altrettanto chiaro è che un Contratto Nazionale non può essere vissuto come una vecchia osteria di Trastevere dove ciascuno portava il pranzo da casa limitandosi a consumare solo il vino. È qualcosa di molto più serio e profondamente diverso. C’è un vecchio proverbio africano che dice “Chi vuole sul serio ottenere qualcosa cerca una strada, gli altri una scusa”. A mio modesto parere oggi siamo esattamente a questo punto.

Manager, giovani e PMI. Perché si può e si deve fare di più.

Adesso sono le start up che fanno la differenza. Per molti giovani sono il desiderio nel cassetto. All’impiego sicuro agognato dalle generazioni precedenti si è sostituito il sogno, ritenuto a portata di mano, di diventare imprenditori. Ai miti sportivi tipici dell’adolescenza, si sostituiscono imprenditori giovani e di successo che, nel mondo, ce l’hanno fatta. In un Paese come il nostro che vanta oltre quattro milioni di imprenditori esiste una “predisposizione genetica” al far da sé. È una scelta importante. A mio parere porterà con sé anche un “sottoprodotto” pregiato che oggi non viene valutato a sufficienza perché è la riuscita o il fallimento della micro impresa l’unico elemento sotto i riflettori. C’è chi ce la fa e chi soccombe. Chi ce la fa è “figo” per tutti, chi soccombe, al contrario, è “sfigato”. Nessuno considera l’importanza che ha, per un giovane, il percorso dall’idea alla sua realizzazione di un progetto sulla sua formazione imprenditoriale, ma anche manageriale, futura. Il nostro Paese ha bisogno di nuovi manager con mentalità imprenditoriale. Esaurite le grandi scuole del passato che sfornavano futuri dirigenti ormai in pensione o quasi, oggi si diventa manager costruendosi da soli una carriera senza veri punti di riferimento. Non c’è più tempo per crescere acquisendo i fondamentali nei modi e nei tempi necessari. Le multinazionali hanno il baricentro decisionale altrove, le imprese nazionali che investono sulle risorse umane non sono più numerose come in passato, le business school in crisi di identità e le Corporate University delle grandi aziende sono spesso ripiegate esclusivamente sulle esigenze interne. Pochi manager “veri” con a disposizione le leve decisionali e tanti esecutori seppure di un certo livello. Le aziende, poi, hanno appiattito gli organigrammi ed eliminato tutte le posizioni ritenute, a torto o a ragione, ridondanti. In queste condizioni apprendere i fondamentali del ruolo è decisamente arduo. Per crescere una buona base di studi rappresenta, di fatto, solo una precondizione. Occorre mantenersi aggiornati, girare il mondo, incontrare capi disponibili, partecipare a progetti veri, affinare soft skill e essere coinvolti, incentivati, misurati e valutati con continuità. Avere ambizioni, credere in se stessi, mettere in campo un idea e sostenerla, collaborare con altri per la sua realizzazione, interagire con finanziatori, fornitori e clienti, reggere la tensione e lo stress del quotidiano e riaversi magari dopo un insuccesso parziale o totale sono cose che non si insegnano né si imparano sui libri. Solo attraverso una lunga gavetta e, comunque e sempre, a spese proprie. Quindi partecipare al lancio di una start up è un grande esercizio di management di cui chi vi partecipa potrà trarne un grande beneficio indipendentemente dal successo o meno dell’iniziativa alla quale contribuisce. È indubbio che il manager di domani sarà molto diverso da quello di ieri. Più imprenditore, certamente, anche perché condividerà rischi e opportunità con l’impresa che lo sceglie e nella quale sceglierà di “indossarne la maglia” fino a quando la partnership sarà interessante e conveniente per entrambi. Gestirà progetti, parteciperà a team multiculturali nella propria impresa, se multinazionale, o nella filiera dove la sua impresa si collocherà, gestirà, ingaggerà e formerà a sua volta risorse in modo da realizzare gli obiettivi assegnati. La tecnologia gli consentirà di costruire reti relazionali, farsi conoscere, apprezzare e quindi costruire, passo dopo passo, la propria carriera. Per questo condivido la tesi di chi sostiene che anche le PMI potrebbero e dovrebbero fare di più sia nei rapporti con il mondo della scuola, sia assolvendo un compito di grande responsabilità sociale mettendo a disposizione opportunità di inserimento e di crescita per giovani meritevoli. Molti già lo fanno ma non basta. Ad esempio nell’esperimento che abbiamo fatto come Centro di formazione manageriale chiamato “Managerinmpresa” abbiamo constatato che le piccole imprese dopo una naturale diffidenza iniziale hanno apprezzato la possibilità di ingaggiare un manager esterno di cui pensavano di poterne fare a meno. Certo ci sono problemi di costo, di tipologie contrattuali da reinventare, di adattamento anche da parte di manager che magari non sono abituati a lavorare in una micro impresa dove occorre saper fare di tutto ma l’esperimento ci dice che si può fare. Così come occorre aiutare i piccoli imprenditori a crescere, loro stessi, nelle competenze manageriali anche perché il futuro richiederà sempre di più capacità non sempre facili da acquisire in solitudine. Quindi anche per i giovani aspiranti manager occorrerebbe un grande progetto condiviso per il futuro. Nel terziario di mercato ci sono ottime opportunità di crescita. Forse occorrerebbe affiancare a quello che le grandi imprese già fanno in casa propria, qualcosa che possa sostenere le piccole e medie imprese nel rapporto con la scuola e nella creazione di opportunità di inserimento per giovani che meritano una occasione. Come farlo, con quale risorse e dove è una scelta nella quale le associazioni manageriali e datoriali possono ritrovare un punto di incontro costruttivo e positivo. Di sicuro il Paese ne ha bisogno. Non sprecare entusiasmo, energie e ambizioni di chi crede nel proprio futuro è una sfida che non può lasciare indifferenti né le imprese né i manager. Tantomeno le loro associazioni di categoria…

La produttività tra passato e futuro

Il neo presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento ne ha fatto un punto centrale, Susanna Camusso lo ha immediatamente respinto bollandolo come “vecchio”. Al di là delle affermazioni di parte la necessità di incrementare la produttività nelle imprese e nel Paese viene così riportata al centro del dibattito. Innocenzo Cipolletta, al festival dell’economia di Trento, ha affermato che se in questi anni di crisi avessimo avuto un incremento della produttività avemmo avuto solo ricadute negative sull’occupazione. Croce e delizia degli addetti ai lavori il tema della produttività ritorna ciclicamente come elemento centrale del confronto tra le parti sociali. E ritorna non avendo risolto le evidenti criticità del tema legate innanzitutto alla platea delle imprese coinvolte dalle statistiche, alla sua individuazione in un contesto economico sempre più post fordista e, ultimo ma non ultimo, alla necessità, sempre più presente nelle imprese, di andare oltre semplici recuperi di efficienza, pur indispensabili, ripensando in modo radicale i modelli di busines, i rapporti tra impresa, fornitori e collaboratori ma anche tra imprese e sindacato. È indubbio che, per quanto riguarda il nostro Paese, la mancata crescita della produttività negli ultimi 10/15 anni ci pone in difficoltà sia rispetto ai Paesi che trainano l’economia mondiale sia rispetto a quelli che, nonostante la crisi, non hanno mai cessato di crescere. Nella visione comunemente accettata le ragioni sono sostanzialmente due: l’insufficiente dimensione delle imprese italiane e lo scarso contenuto tecnologico delle nostre produzioni principali. A ben vedere, però, la bassa produttività si concentra principalmente in due classi di imprese manifatturiere. Quelle sopra i 250 addetti e quelle sotto i 10 addetti. Le prime già in sofferenza sia in termini di fatturato che di prospettive, le seconde dove “sopravvivono” larghe fasce di produttori “inefficienti”. Se, al contrario, ci dovessimo concentrare sulle imprese da 10 a 250 addetti i risultati sarebbero ben diversi e sicuramente più positivi ma la maggiore numerosità delle imprese non è in questo cluster. Da qui il “grido di allarme” del Presidente Boccia sulla necessità, per gli imprenditori, di crescere. A mio parere credo che mentre si possa in tempi ragionevoli lavorare sui fondamentali delle grandi imprese supportandole nella crescita, non sarà altrettanto semplice passare dalle aspirazioni generali agli impegni concreti per quanto riguarda le micro imprese manifatturiere. Quindi insistere su questa strada rischia di essere fuorviante. Forse sarebbe meglio rendersi conto che nella nuova sfida economica globale il problema della dimensione aziendale va visto diversamente dal passato e va inserito in contesti che vedono le filiere, i cluster territoriali, le reti come i luoghi dove le singole imprese contribuiscono, specializzandosi e organizzandosi, alla creazione del valore. Al centro della riflessione ci dovrebbe essere la dimensione del sistema nel quale l’impresa è inserita e non necessariamente quello dell’impresa stessa quindi la produttività generata dall’insieme della filiera, del cluster o della rete. Fuori da questa impostazione è facile pronosticare l’intensificarsi del declino soprattutto in rapporto ai nostri concorrenti. Incrementare la produttività in modo nuovo significa operare su due livelli; da un lato occorre lavorare sui rapporti tra manifattura e servizi con l’obiettivo di sviluppare nuove forme di impresa e dall’altro investendo nelle reti e negli altri sistemi di aggregazione in modo da creare economie di scala significative. Questo tra l’altro consentirebbe di superare un nodo che oggi appare sempre di più improponibile nel confronto tra le parti sociali e cioè che il massimo della produttività si possa ottenere solo forzando la mano sul fattore lavoro. A mio parere non è competendo sul low cost di Paesi dove i lavoratori sono disposti ad accettare condizioni di lavoro pessime e in presenza di scarse tutele sindacali e giuridiche che possiamo recuperare un percorso virtuoso. Occorre rilanciare il tema della collaborazione, della condivisione dei rischi e delle opportunità tra imprese, manager e lavoratori. La nuova frontiera è in una rivisitazione moderna della partecipazione del lavoro allo sviluppo delle imprese. E questo potrebbe costituire la vera sfida anche per il sindacato confederale. Infine occorre che nei nuovi modelli di business delle imprese vengano introdotte elementi di qualità e di relazione connaturati con la logica dei servizi prima che della fabbricazione industriale in senso classico. Non basta utilizzare al meglio le nuove tecnologie ma occorre investire nello sviluppo delle capacità creative e costruire reti di collaborazione con altre imprese. Un percorso nuovo che sappia mettere al centro l’innovazione in tutte le sue componenti e che proponga l’azienda come il luogo dove si crea valore per l’imprenditore, per le persone che vi operano e per la comunità nella quale l’impresa agisce.

meno male che quell’ascensore si è fermato…

I dati e il parere di molti esperti ci confermano che l’ascensore sociale si è fermato. Si discute su come farlo ripartire e le ricette non mancano. Oggi Di Vico sul Corriere se la prende sostanzialmente con le piccole imprese e con la loro incapacità di crescere. È un punto di vista. Io credo che ce ne siano anche altri. Innanzitutto se si accetta la metafora dell’ascensore sarebbe corretto accettare l’idea che, lo stesso, non è costruito per muoversi solo verso l’alto. Non è banale. Una società che prevede solo la possibilità di salire socialmente ed economicamente come indicatore qualitativo non è in grado di affrontare i cambiamenti quando questi sono profondi e di sistema. Preferisce ascoltare chi individua colpevoli negli altri (nella politica, nelle imprese, nella globalizzazione) più che chi cerca soluzioni non sempre facili e a portata di mano. In secondo luogo l’ascensore ha funzionato in Italia quando la spesa pubblica lo ha sorretto pesantemente. Si sono moltiplicati i centri di spesa, gli appalti pubblici, le cattedre universitarie, le professioni, i ruoli nella pubblica amministrazione, le consulenze, ecc. Inoltre nelle medie e grandi imprese le figure manageriali si sono espanse ben oltre la necessità concreta dei rispettivi business. Non è che la crisi e le ristrutturazioni le hanno ridotte, erano troppe e molte di esse inutili, nella fase precedente. Gli stessi schemi legislativi e contrattuali in materia di lavoro sono stati costruiti prevedendo solo la possibilità di crescita verso l’alto, a volte prevedendo l’anzianità come elemento di certificazione o automatismi di passaggio tra un livello e l’altro. Addirittura che fosse sufficiente seguire alcuni compiti per un periodo anche limitato per rivendicare uno status superiore e definitivo. In un mondo provinciale che prende in considerazione solo la sua inevitabile crescita è normale non prevedere che questa non potrà mai essere infinita. Il punto però è che nessuno si è preparato al peggio. E quindi le famiglie, i media e le istituzioni e, in ultima analisi, l’opinione pubblica in generale attende solo risposte che sblocchino, sempre verso l’alto, il meccanismo. Purtroppo quell’epoca è finita come sottolinea bene il sociologo Schizzerotto sul Corriere. Per crescere oggi occorre ben altro che attendere la volontà di sviluppo delle PMI! Innanzitutto, se parliamo di mercato del lavoro, occorrerebbe considerare, sul piano della crescita individuale, il mondo intero e non più solo il proprio Paese o, addirittura, la propria città come unico sbocco possibile. Magari con l’obiettivo di ritornare quando si è conquistata o raggiunta una certa solidità professionale e personale. In secondo luogo occorrerebbe costruire modelli nuovi di collaborazione e condivisione dei rischi nelle filiere dalla produzione al consumo. Questo imporrebbe la creazione di nuove figure manageriali nelle imprese e nelle reti che oggi non ci sono. Figure con sistemi retributivi e incentivanti profondamente diversi da oggi. E sorretti da una legislazione adeguata. In terzo luogo puntare a criteri meritocratici più spinti e ovunque che consentano ai migliori, indipendentemente dal loro ceto sociale di partenza, di emergere. Quello che penso è che è inutile far ripartire questo ascensore. È vecchio e superato. È stato creato nella prima Repubblica e sostenuto dalla spesa pubblica. Doveva servire a supportare i sogni delle generazioni post belliche e così è stato. Adesso basta. Occorrerebbe progettarne un altro dove il merito, la determinazione, la voglia di rischiare in proprio e l’ambizione personale possano davvero trovare posto. Ma soprattutto costruito per le generazioni future quindi non più legato a un concetto di crescita sociale vecchio e superato. La linea di demarcazione nel futuro si costruirà intorno al digital divide, alla padronanza delle lingue, alla cultura, al senso, alla qualità della vita e alla disponibilità alla mobilità planetaria. Gli status sociali si costruiranno e si distruggeranno più volte nella vita degli individui e delle imprese. Sapersi muovere in quel contesto farà la differenza.

Dobbiamo voler guardare avanti.

La convinzione che nel nostro passato c’erano uomini (e donne) di grande valore di cui sentiamo l’umana mancanza è sicuramente condivisibile. Lo è meno se insistiamo con parallelismi improponibili. Se oggi ritornassero tra di noi i migliori dirigenti sindacali e politici del dopo guerra o della prima repubblica, a mio parere, verrebbero messi inesorabilmente in panchina. Vediamo la sorte che sta toccando al nostro ex Presidente Giorgio Napolitano. Invocato da tutti nel momento del bisogno, dimenticato o addirittura osteggiato dai più quando la politica ha cambiato priorità e convinzioni. È una legge inesorabile. Per quanto si creda il contrario è il contesto sociale, politico ed economico che modella le diverse tipologie di leadership e non viceversa. Le esalta o le appiattisce rendendole funzionali a sé. Ho imparato da tempo che, come ci ricorda il priore di Bose, “ogni stagione ha i suoi frutti”. Il sociologo Luca Ricolfi ci aveva già provato ad attaccare la leadership di Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, proponendo una sorta di rievocazione nostalgica a favore dei sindacalisti della Cgil del passato, della loro leadership e della loro capacità di proposta e di mobilitazione. Anche Dario Di Vico ha manifestato una certa nostalgia auspicando una potenziale utilità contemporanea di Luciano Lama. Come se si potessero separare gli uomini dal contesto che li ha messi in luce. Non credo sia possibile. Inoltre, per quanto può valere, stimo Susanna Camusso con la quale ho negoziato e discusso accordi sindacali complessi in passato. Per come si è mossa la ritengo una leader riformista e capace che è riuscita a traghettare la Cgil dalla stagione degli accordi separati e dell’emarginazione a quella propedeutica a un nuovo percorso unitario. Ovviamente non condivido quasi nulla delle scelte politiche e sindacali di quella Confederazione ma questo non significa che io non sia in grado di comprenderne la qualità della leadership, la capacità di riposizionamento nel contesto dato, l’investimento sul rinnovamento delle risorse dell’organizzazione e l’apertura di un confronto positivo con Cisl e Uil dopo la nefasta stagione delle rispettive derive identitarie. Sicuramente lo ha fatto di più e meglio di altri se non altro perché lo ha dichiarato esplicitamente. Nel mondo non esistono più leader politici e sindacali di vecchia generazione, impiegabili oggi. È dunque il contesto che genera il profilo dei leader. Ad esempio Clinton e Sanders si confrontano da tempo ma oggi, il secondo ha nettamente oscurato il primo. Un tempo sarebbe stato semplicemente ridicolo pensarlo. Così come Corbyn rispetto a Blair. L’Europa in crisi di identità e alle prese con la globalizzazione non tollererebbe più un Kohl, un Adenauer, uno Spinelli o un Delors. Al massimo può rimpiangerli in qualche convegno. Oggi tocca ai leader “invisibili” e non eletti dai popoli come Yellen, Draghi, Lagarde. Sotto di loro i singoli capi di Stato e di Governo che ammortizzano le loro decisioni nei rispettivi Paesi con i Parlamenti ridotti sostanzialmente al ruolo di notai. Cosa dovrebbero fare i sindacati? Proporre scioperi generali a raffica come in Grecia o in Portogallo? O, al contrario, appoggiare acriticamente il Governo Renzi? Con il PD a pezzi, una parte della stessa CGIL sull’orlo di una crisi di nervi e l’opposizione politica in mano a Salvini e Grillo? E, non meno importante, con Cisl e Uil in una fase di evidente transizione sul piano organizzativo. Una auspicabile svolta unitaria e riformista non si improvvisa. Si costruisce. Certo il tempo a disposizione purtroppo non è molto ma la strada è segnata. Il Paese non può permettersi il declino dei corpi intermedi. Il giro di boa è rappresentato dal referendum di ottobre dove la vittoria del “SI” segnerà un chiaro spartiacque. E in vista di quella scadenza alcune “intemperanze disintermediatrici” del nostro Premier Renzi si affievoliranno lasciando spazio ad una maggiore consapevolezza sul ruolo dei corpi intermedi. Sia datoriali che sindacali. Se l’insieme delle parti sociali saprà cogliere l’importanza di questa nuova e indispensabile convergenza si creeranno le condizioni affinché ciascuno possa mettere in campo il proprio contributo. A meno che ci sia qualcuno che pensa che l’obiettivo di rendere più competitivo il nostro Paese, affrontarne i nodi gordiani che lo rallentano e portarlo definitivamente in Europa sia possibile farlo con un uomo solo al comando o con la semplice manutenzione delle regole che abbiamo oggi. Questo è il punto. Il confine tra riformisti e conservatori passerà da lì. C’è spazio per tutti. Soprattutto per chi vorrà giocare la partita.

La disfida delle adesioni. Una inutile contrapposizione.

In molti comparti del settore privato lo sciopero  non è più uno strumento in grado di modificare, di per sé, una forte contrapposizione presente in un negoziato. Nel terziario di mercato, ancora di più. Negarlo non serve. Come non serve, da parte datoriale, trasformare un dato numerico relativo alle partecipazioni, spesso irrilevante sul complesso degli addetti, come prova della scarsa adesione dei lavoratori alle tesi sindacali. Non è così. Siamo nel 2016. Il mondo del lavoro ha subito profondi cambiamenti. Così come le aspettative e le priorità delle persone. La crisi poi ha fatto il resto. Sul piano qualitativo un rinnovo di contratto nazionale non mobilita né coinvolge più emotivamente come in passato mentre sul piano quantitativo occorre tenere conto che l’inflazione è quasi a zero e la relazione tra speranze individuali, e ciò che si prospetta in un rinnovo, è spesso difficile da trovare. Il risultato economico, in genere, è scarso o insufficiente per le aspettative del singolo lavoratore (ad esempio nella GDO parliamo di 85 euro lorde scaglionate in tre anni), le modifiche normative non sono quasi mai particolarmente innovative per il singolo e, infine, il tempo che intercorre tra le assemblee di ratifica delle richieste sindacali e la conclusione dei negoziati è ormai infinito. Tutto questo però non significa che i lavoratori non ne auspichino il rinnovo o condividano la rigidità della rappresentanza delle imprese. C’è una aspettativa e c’è un’attesa. Per le singole aziende, al contrario, il costo di un contratto nazionale non è affatto insignificante. Soprattutto oggi che rappresenta, di fatto, l’unica pesante erogazione collettiva che incide in una fase di crisi dei consumi. Si somma ad un costo del lavoro già pesante, provoca un incremento dei costi non trasferibile sui prezzi, coinvolge tutti i collaboratori indipendentemente dal contributo individuale, e non fa differenza tra aziende in diverso stato di salute o che hanno già un costo aggiuntivo legato alla contrattazione aziendale. Quindi, se i rapporti di forza lo consentono, i contratti nazionali non si firmano più. E questo non riguarda solo la GDO. I comunicati che seguono le giornate di agitazione sono oggettivamente banali. Insieme ad una conta ragionieristica sui presunti partecipanti manifestano una apparente disponibilità finalizzata a non mettersi contro i livelli istituzionali, i media o l’insieme dei consumatori. O se, di parte sindacale, assumono inutili toni trionfalistici che non spostano minimamente i rapporti di forza né le intenzioni della controparte. Occorre prendere atto che non sono più gli scioperi a consentire oggi di firmare un contratto nazionale così come non può essere l’assenza degli stessi a impedirne la chiusura. Non sarebbe corretto. Proprio per questo la scelta di Confcommercio e dei sindacati del terziario, ormai più di un anno fa, è stata quella di individuare un bilanciamento che consentisse di erogare un beneficio economico (pur sofferto) in cambio però di una maggiore flessibilità organizzativa. Questa è la strada. Non credo sia una buona strategia andare avanti senza individuare soluzioni accettabili ad entrambe le parti. Non è più rinviabile un impegno a ricercare, insieme, nuovi percorsi che consentano di affrontare, senza conflitti inutili, queste situazioni. Noi non siamo la Francia. C’è un tessuto sociale che regge fatto di responsabilità, correttezza e buon senso. Una parte della GDO, ad esempio, sa benissimo cosa vuol dire lasciare il campo alla radicalizzazione estremistica come è avvenuto in molti centri logistici e distributivi infestati da forme di rivendicazionismo  esasperato. Quindi c’è un grande spazio per individuare forme nuove di scambio, di autoregolamentazione, di arbitrato o di contropartite collegati al negoziato stesso. Sia a livello, aziendale o di comparto. Un sistema moderno di relazioni sindacali non può prescindere da nuove regole del gioco, ma anche di gestione del possibile conflitto, che dovranno accompagnare le aziende nei prossimi anni. È ora di affrontare queste sfide con determinazione ma anche con lungimiranza e mettere in soffitta ciò che deve essere conservato ormai tra i ricordi o tra gli incubi (dipende dai punti di vista) del ‘900.

La stagione della responsabilità

Dopo Confcommercio anche Confindustria ha messo sul tavolo le sue carte. Non c’è più tempo da perdere. Di fronte ai rischi di disgregazione presenti sia a livello europeo che nazionale la ricetta per affrontare con determinazione i problemi del Paese deve far convergere tutti i protagonisti principali sulla necessità di dare il via ad una grande stagione della responsabilità. Della politica, innanzitutto ma anche dei corpi intermedi che sono disponibili a portare il loro contributo per cambiare, insieme, il nostro Paese. Nel discorso del nuovo Presidente di Confindustria non ci sono stati né arroccamenti né recriminazioni. Un’Europa che deve ritrovare nel pensiero di Jaques Delors la sua missione così come in quello di Papa Francesco la sua vocazione ad aprirsi a chi fugge dalle guerre e dalla fame. Un’Europa unita, moderna e votata alla crescita economica dove il nostro Paese può giocare un ruolo importante. E, in questa nuova stagione, che insieme si vuole aprire, c’è spazio per tutti, anche per un rilancio propositivo del dialogo tra le parti sociali. È un segnale importante. Non c’è stata una sottolineatura di forte delusione, come nel discorso di commiato di Giorgio Squinzi, per lo stato dei rapporti con i sindacati confederali. C’è semmai una disponibilità offerta sulla necessità di una collaborazione a 360 gradi per continuare il processo di cambiamento del Paese. È una sfida importante che potrebbe aprire scenari nuovi. Tre punti su tutti. La centralità delle risorse umane per l’impresa di oggi è di domani, l’esigenza di un confronto vero sulla innovazione e sulla produttività delle imprese ma anche del Paese e infine la riconosciuta importanza che questi strumenti possano essere individuati tra le parti sociali evitando l’intervento del legislatore. È una apertura di credito significativa che consente a tutti i soggetti sociali disponibili di rientrare in gioco con proposte credibili e atteggiamenti responsabili superando pregiudizi e pessimismi di varia natura. Ma questa apertura di credito è stata accompagnata da un chiaro avviso ai naviganti. Di metodo ma anche di merito: il decentramento contrattuale è un obiettivo da realizzare in alternativa al contratto nazionale che però può e deve restare sia per le norme di carattere generale che per le imprese che non sono in grado per vari motivi di passare alla contrattazione aziendale. Quindi nessuna concessione ai fautori del doppio livello contrattuale. E questo è un elemento che, più di altri, dovrebbe far riflettere i negoziatori impegnati nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Confindustria si schiera su una posizione molto simile a quella espressa da Federmeccanica. E annuncia che attenderà l’esito di quel confronto prima di aprirne un’altro al proprio livello. Quindi il rischio del muro contro muro è inevitabile? Non credo. Personalmente sono convinto che lo scontro sul salario che sembra essere al centro del rinnovo sia ricomponibile con una mediazione tutto sommato accettabile. Trovo molto più complessa una mediazione su altri punti centrali come, ad esempio, sui contenuti, sul peso e sulla natura dei nuovi livelli contrattuali. E quindi sul ruolo stesso e sui confini di azione del sindacato. Il presidente Boccia ha parlato chiaramente di “collaborazione per la competitività”. Questa è la sfida. Non c’è più spazio per modelli sindacali che ritengono possibile includere tutto e il contrario di tutto. Adesso è il momento delle scelte. Questa è la sfida per il sindacato. D’altro canto l’errore che non dovrebbe fare Federmeccanica e quello di sottovalutare le dinamiche di cambiamento che sono in atto nelle organizzazioni sindacali privilegiando un atteggiamento tattico a discapito di un disegno strategico che, di fatto, favorirebbe un inutile e tardivo ritorno al passato. Le condizioni per aprire una nuova stagione di collaborazione ci sono tutte. Adesso la parola passa a chi deve tradurre l’importanza di certe affermazioni e le aperture di credito in azioni e scelte concrete. Vedremo chi ne sarà capace.