Dario Di Vico affronta oggi due temi importanti: le molestie sul luogo di lavoro e le permanenti discriminazioni salariali e di carriera ai danni delle donne (http://bit.ly/2YhdYDI). C’è un aspetto simbolico che è giusto sottolineare. È indubbio che il movimento #MEETOO è servito per aprire uno squarcio altrimenti impossibile nei luoghi di lavoro. Molto più che nel mondo dello spettacolo.
Chiunque si è occupato di gestione delle risorse umane in azienda sa quanto questo tema ha attraversato, restando quasi sempre sotto traccia, la vita personale e professionale di molte donne sul posto di lavoro. Il tema non è per nulla risolto. La possibilità di uscire a testa alta dalla trappola imposta dalla paura di scontrarsi con le regole non scritte di una gerarchia maschilista e quindi di potere assoluto però oggi si è indubbiamente modificata. Si può e si deve reagire.
Purtroppo la strada è ancora lunga. La denuncia, quando c’è, porta con sé un lungo cammino di sofferenza. Con i colleghi che non sempre comprendono il dramma vissuto e con il Potere quando è coinvolto e complice che resta vile e che mantiene forte la sua capacità di discredito nei confronti della vittima. La stessa necessità di lavorare e di restare in un ambiente diviso nei giudizi morali, l’incontro possibile, spesso quotidiano, tra vittima e carnefice, spingono ad accettare transazioni extragiudiziali che chiudono con il passato, assolvono troppo frettolosamente il colpevole ma non aiutano la vittima nel suo percorso di reinserimento professionale.
Chi può lascia subito dopo l’azienda. E quasi sempre è la vittima. Chi non può deve spesso convivere con la paura che, una volta spenti i riflettori, ci si ritrovi nella medesima situazione. E spesso i colleghi non sono affatto un supporto positivo soprattutto quando si è vincolati dalla riservatezza di un accordo transattivo sottoscritto davanti ad un giudice che impone un silenzio che ciascuno può interpretare a modo suo. C’è purtroppo ancora molta strada da fare. Ma la direzione è certamente quella giusta.
Ursula von der Leyen, neopresidente della Commissione europea, madre di 7 figli, è indubbiamente un punto di riferimento per le donne che lavorano. Un simbolo più che un obiettivo. Anche in questo caso, però, la strada per superare le discriminazioni è ancora molto lunga. Le regole nel mondo del lavoro sono, in larga parte, ancora sostanzialmente maschili.
Lo sono la carriera così come viene ancora intesa, il concetto di gerarchia, la figura del capo. L’idea quantitativa del lavoro, il suo carattere totalizzante, l’impegno richiesto. Le donne per affermarsi hanno dovuto spesso trasformarsi per reggere il confronto. La cultura fordista, per certi versi, pretendeva un funzionamento tutto sommato funzionale alla presenza e al controllo delle persone.
Tutto questo, fortunatamente, sta cambiando. Non solo per un avvicendamento generazionale. C’è anche un ripensamento organizzativo, culturale, logistico che attraversa l’impresa oggi. C’è una ricerca di senso, di qualità dell’impegno e del lavoro che trova nelle donne interpreti spesso migliori. Restano pregiudizi da rimuovere.
Oggi chi entra giovanissimo nel mondo del lavoro vive le stesse dinamiche. Per certi versi le stesse discriminazioni. I contratti di lavoro, dal canto loro, non aiutano a superare le discriminazioni di genere. Se non sul piano generale. La maternità è spesso vista come una perdita di professionalità da parte dell’impresa e come un diritto semplicemente da normare per il sindacato.
Non c’è mai la persona, con le sue aspettative, i suoi desideri, le sue priorità. E quanto considerare tutto questo in termini positivi potrebbe alzare l’asticella dell’ingaggio, del coinvolgimento e del contributo maturo e consapevole. Il punto sta qui.
Se la persona ritorna al centro dell’azienda il problema della carriera, del riconoscimento e del contributo individuale cambiano di segno. Ed è la strada per far cadere le discriminazioni di genere.
Su questo c’è ancora molto da lavorare ma è la sfida vera. Motivante e concreta per l’impresa di oggi.