Se avessero chiesto un test per misurare l’avversione all’innovazione (vera) della classe politica italiana (e non solo) pochi avrebbero pensato ai braccialetti di Amazon.
Eppure ha funzionato. In poche ore si è capito che piuttosto che predisporsi al cambiamento cercando di comprenderlo e, ovviamente di guidarlo, l’unica reazione messa in campo è il rifiuto. Accompagnato dalla solita dose di retorica e di demagogia. Dall’estrema destra alla estrema sinistra.
L’inventore del braccialetto, l’ingegnere americano Jonathan Cohn, 30 anni, da sei in Amazon, ha risposto con uno sberleffo analogo a quello degli anarchici della fine dell’800 (una risata vi seppellirà) citando un passaggio di una nota canzone dei Queen: “…fulmini e saette molto, molto spaventoso…”.
Un brevetto depositato, probabilmente propedeutico a futuri impieghi e soggetto a ulteriori sofisticazioni tecnologiche al quale, il semplice riferimento al termine “braccialetto” ha scatenato, in esclusiva nel nostro Paese, una reazione pavloviana avversa alla regina delle odiate multinazionali del momento: Amazon.
Forse, se l’avessero chiamato “Amazon watch” avrebbe avuto ben altro accoglimento. Purtroppo così non è stato. E questo impedisce la discesa in campo del buon senso, da tutte le parti, evocato giustamente da Dario Di Vico ( http://Bit.ly/2FInbIx ).
C’è un aspetto, tipico di un brevetto, del suo necessario contributo all’evoluzione tecnologica e un altro relativo al suo utilizzo. Quindi alle sue ricadute sulle persone, sull’organizzazione del lavoro, sulla qualità della prestazione e, ovviamente del necessario rispetto delle leggi sulla materia.
Sarà pure la campagna elettorale che scalda gli animi oltre misura però la reazione mi è parsa assolutamente sproporzionata.
Purtroppo però nella giornata di ieri abbiamo registrato altre “incursioni” anti moderne di quella parte di un Sistema che tenta di resistere ad ogni cambiamento.
Il Consiglio di Stato, applicando una sentenza della Corte Costituzionale ha chiesto al Politecnico di Milano e, presumibilmente ad altri Atenei, di chiudere i corsi tenuti interamente in lingua inglese perché violerebbero almeno tre principi costituzionali: il primato dell’italiano, la parità di accesso all’istruzione universitaria e la libertà di insegnamento.
Poco importa se oggi nelle discipline scientifiche e sociali la conoscenza della lingua inglese è determinante sia per fare ricerche che per pubblicare.
Ma non è finita.
Dopo sedici decisioni del TAR e sei del Consiglio di Stato sembrava che la vicenda della selezione internazionale dei direttori dei musei, promossa dal Ministro Franceschini per accelerare il processo di modernizzazione e cambiamento fosse finalmente chiusa. Non è così. Per un contrasto giurisprudenziale si rischia di tornare al punto di partenza.
Che dire? Certo sono aspetti diversi che però testimoniano la difficoltà del nostro Paese di cambiare.
Innanzitutto Amazon che sicuramente deve comprendere quanto il confronto con i sindacati può essere importante anche per il suo sviluppo in Italia. Gli accordi di insediamento e implementazione dei magazzini necessitano di una dose di flessibilità che il contratto nazionale consente e che può essere ulteriormente ampliata e rafforzata proprio con la negoziazione aziendale.
I segnali di dialogo provenienti dalle Confederazioni andrebbero colti. Ed è proprio la sede aziendale quella più idonea rassicurare i lavoratori sui progetti e sull’evoluzioni delle modalità di lavoro. È però interesse anche del sindacato di categoria abbassare i toni.
Lo sviluppo di Amazon in Italia è importante non solo perché porta lavoro ma anche perché è, esso stesso, un fattore di cambiamento e innovazione le cui conseguenze devono essere governate. Trasporti, logistica, retail, modalità di acquisto e di circolazione delle merci cambiano in profondità.
Ed è su tutto questo che una società moderna si confronta, detta le regole e poi le fa applicare. Non alimentando paure di altri tempi o girando le spalle quando i problemi si incancreniscono.
Sull’adozione della lingua inglese, come sottolinea giustamente Maurizio Ferrera sul Corriere, basterebbe comprendere che gli atenei hanno voluto solo integrare e ampliare la loro offerta formativa ( http://bit.ly/2FF8vtv ).
Sui Direttori dei musei scelti con un concorso internazionale dobbiamo solo decidere di scrollarci di dosso, una volta per tutte, quel carrozzone burocratico ormai inadatto in un contesto moderno e quel senso di impotenza che rischia di colpire tutti coloro che vogliono fare sul serio gli interessi del nostro Paese. Lo stupore e lo scoramento del Ministro Dario Franceschini di fronte alla decisione della corte ne sono la testimonianza più evidente.
“La situazione è grave ma non è seria” direbbe Ennio Flaiano. C’è sicuramente molto da fare per cambiare questo Paese. Personalmente credo che ce lo meriteremmo sicuramente migliore.
Però spetta anche a noi costruirlo. Un vecchio proverbio arabo recita:” se vuoi vedere pulita la via comincia dallo zerbino di casa tua”.
E questo è un impegno che non può essere delegato. Spetta a tutti, eletti ed elettori, ciascuno dal proprio punto di vista o dalla propria posizione politica. Però, credo, ne varrebbe la pena.