Qualche tempo fa sono stato invitato ad un incontro di manager del settore del credito a spiegare gli effetti di una ristrutturazione/riorganizzazione importante che avevo avuto modo di seguire in prima persona. La loro attenzione e le loro domande non erano tanto concentrate sugli aspetti più classici di queste operazioni in sé che comprendono la preparazione, il coinvolgimento del management, la comunicazione interna e esterna e, infine, il negoziato sindacale.
Queste fasi, chi è del mestiere le conosce bene, appartengono alla liturgia tradizionale e alla sua messa a terra che, pur con qualche variazione sul tema, è sempre uguale a sé stessa. Possono variare i numeri, gli interlocutori, i toni, gli impatti e la durata del conflitto e, infine, la qualità dell’accordo. Non la sostanza.
L’attenzione dei partecipanti era tutta concentrata sul dopo. Sul clima interno post trauma della riorganizzazione. Sulla consapevolezza o meno delle nuove responsabilità, sulla metabolizzazione del cambiamento di taglia da parte di chi è chiamato a gestire il dopo. Per quanto possano essere complessi i passaggi durante un’operazione di acquisizione è il dopo che presenta il conto e dimostra la qualità degli uomini che si sono ingaggiati e quindi il successo complessivo dell’operazione stessa.
La frase che avevo utilizzato in quella presentazione l’ho poi rilanciata in uno dei miei commenti sul blog nelle fasi più acute dell’operazione Auchan da parte di Conad. Tratta dal film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo del 1966 nel quale il leader indipendentista algerino Ben M’Hidi dice al giovane Alì: “Cominciare una rivoluzione è difficile. Anche più difficile continuarla. E difficilissimo è vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che cominceranno le vere difficoltà”.
È vero. Le vere difficoltà cominciano dopo. Innanzitutto perché la nuova realtà che prende forma non è, né un prodotto scevro dai limiti precedenti né le persone sono pronte a immedesimarsi nel nuovo ruolo. Anzi. Le differenti culture organizzative aziendali accumulate nel tempo si sovrappongono le une alle altre. Non si superano mai fino in fondo riemergendo alle prime difficoltà e mettendo piombo alle ali di chi ha concepito l’operazione per voltare pagina.
Il cambiamento, tanto evocato nelle convention aziendali rischia di riguardare sempre…. gli altri. Pochi accettano di mettersi veramente in discussione. E questo pesa nelle realtà impegnate a cambiare pelle. Un percorso di riposizionamento così come un processo di crescita improvvisa, che pretenderebbero anche cambiamenti profondi nei ruoli attesi e nei comportamenti, non sempre vengono accettati e agiti.
Non si è solo un po’ più grandi, vedi il caso Conad, come il famoso pennello cinghiale dello spot. O più agili e reattivi come nel caso Carrefour. Si è diversi. E questo vale innanzitutto per i decisori aziendali, gli imprenditori coinvolti ma anche per il management e i collaboratori ad ogni livello. In secondo luogo occorre avere la capacità di collocare la nuova azienda nel contesto economico e sociale che può anch’esso essere molto diverso da quello nel quale il progetto di cambiamento è decollato.
Questi due primi elementi, i limiti culturali e organizzativi interni e il contesto esterno mutato sono alla base, secondo una indagine USA, del fallimento di una parte significativa delle operazioni di M&A e di riposizionamento del business. Carrefour Italia non ha semplicemente deciso di tagliare i rami secchi o ridurre i costi. Sta riposizionando il suo modello di business.
L’operazione in corso ridisegna la sua presenza sul nostro mercato. Un marchio, sinonimo di grande distribuzione in ogni Paese dove opera, punta a creare una organizzazione efficiente in grado di preparare, coordinare e supportare imprenditori locali che devono declinare, in uno o più punti vendita, filosofia, assortimento, rapporto con il consumatore. Per molti esperti del comparto garantire l’unicità del marchio in questo modo è molto complesso. Carrefour ci crede. Non solo in Italia.
In ogni caso la realtà che prende forma è profondamente diversa da quella precedente. Declinare per crescere diventa l’obiettivo. Quindi il problema non è solo se i franchisee rispetteranno tutti lo stesso spartito, cosa ovviamente fondamentale, ma anche se il management e l’intera struttura Carrefour è in grado di comprendere fino in fondo e attrezzarsi per questo cambiamento. Qui sta il lavoro più importante del CEO e dei suoi collaboratori.
In casa Conad la sfida è un’altra. Auchan ha lasciato il nostro Paese avendo constatato da tempo di non avere alcuna possibile chance di ripresa. Stiamo parlando di una realtà importante nel mondo che mantiene oggi una presenza in Russia e in Ucraina a guerra in corso, ne comprende le conseguenze e che vorrebbe provare addirittura ad acquisire in Francia un concorrente come Carrefour. La ritirata dal nostro Paese è stato innanzitutto un giudizio severo sulla impossibilità di rimettere in sesto l’azienda in Italia. E quindi la convinzione che sarebbe stato impossibile o molto difficile per chiunque. Una dichiarazione di resa a tutto campo decisa in seno alla proprietà che ha preceduto tutte le condizioni studiate a tavolino per procedere alla cessione.
Diradata la nebbia dell’euforia per l’importante acquisizione realizzata in chiave prospettica i problemi sono emersi nella loro concretezza trasformando l’operazione in un vero e proprio salvataggio per i numeri in gioco, che ha imposto tempi di ripartenza meno laschi di quelli previsti, con la necessità di riallocare punti vendita a terzi tentati di scegliere di fiore in fiore e con carichi diseguali che hanno messo in tensione l’impegno richiesto alle cooperative evidenziando nervi già scoperti in alcune realtà del Consorzio probabilmente per altre vicende interne.
E a questo vanno aggiunti problemi di contesto e il clima che queste accelerazioni impongono ad un tessuto imprenditoriale che ha i suoi tempi e le sue modalità di gestione. Il dopo è questo.
Una grande operazione ha sempre due livelli di metabolizzazione. Il primo è di natura finanziaria, organizzativa e commerciale. Il secondo attiene alla consapevolezza di ciò che si è diventati proprio grazie all’operazione stessa sia sul piano del business ma anche su quello politico e sociale. E questo non è solo compito della squadra di testa.
Essere i primi della classe come nel caso di Conad impone uno standing diverso. Non tutti lo capiscono e vi si adeguano. Anzi. C’è chi non riuscendosi si mette di traverso. Purtroppo c’è una differenza che rende unico il modello cooperativo su altri modelli imprenditoriali. È la forza di Rewe in Germania che conosco bene come lo è per altri gruppi importanti in altri Paesi.
Lo è però se ogni albero si sente parte della foresta. Se la consapevolezza del proprio ruolo si diffonde a tutti i livelli di responsabilità. Se rancori personali e invidie modeste non mettono in discussione l’enorme lavoro fatto per portare l’azienda in un’altra dimensione.
Bruce Chatwin ha scritto bellissimi libri sul fatto che i viaggi non solo servono per allargare la mente ma soprattutto servono per darle una nuova forma. E che cos’è una grande operazione di riposizionamento del proprio business se non un viaggio per mettersi in discussione e guardare il futuro con occhi diversi?
Essere diversi dal passato non è quindi solo un problema di numeri e di risultati. È molto di più.