Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?

Mentre da noi la discussione prevalente ruota intorno alla futura quota destinata ad essere occupata dai discount, della lenta avanza dell’online, dalla crescita degli specializzati  e dalla capacità di risposta della grande distribuzione tradizionale, altrove si stanno ponendo problemi più sistemici. Il punto è capire dove stiamo andando. Certo l’Italia ha le sue specificità soprattutto se parliamo di consumi alimentari però ci sono segnali inequivocabili che il futuro del commercio in generale e della grande distribuzione in particolare saranno caratterizzati in buona parte dal low cost inteso a 360° (lavoro, gestione punto vendita, back office, prezzi, ecc.).

Invecchiamento e difficoltà  della popolazione locale, immigrazioni da Paesi poveri, concorrenza delle piattaforme cinesi spingono i grandi player internazionali a serrare le fila e a ripensare al loro futuro. Questo non significa che non esisterà spazio per nicchie di popolazione, più o meno grandi, dove resterà una capacità di spesa importante ma è bastato il campanello dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche per far comprendere che la “ricreazione è finita” e che nulla tornerà come prima. Ma è chiaro che, soprattutto il commercio tradizionale generalista, dovrà farci i conti.

Gli USA, sotto questi aspetti,  sono ritornati ad essere una delle grandi aree di sperimentazione.  Vuoi perché lì i modelli di consumismo sono arrivati all’estremo possibile, vuoi perché resta un Paese di grandi differenze territoriali e culturali, quindi di contraddizioni sociali evidenti. Senza sottovalutare che, anche  nell’altro grande contendente, la Cina, destinato sempre più ad essere il principale competitor mondiale, nascono idee, sperimentazioni, innovazioni  tecnologiche applicate al commercio, alle piattaforme (TikTok, Temu, Alibaba per citare le più note) e strategie di esportazione che  contribuiscono a cambiare gli scenari nel lungo periodo.

I 30 maggiori produttori cinesi di videogiochi rappresentano il 18% delle vendite globali del settore al di fuori della Cina. Le app di e-commerce collegate alla Cina hanno avuto un successo simile. Si ritiene che Shein, che vende vestiti economici, principalmente agli americani, abbia venduto capi di abbigliamento per un valore di decine di miliardi di dollari l’anno scorso. Temu, che ha sede a Boston ma è di proprietà del gigante cinese  Pdd Holding (che controlla anche Pinduoduo, piattaforma cinese per la vendita online di prodotti a basso prezzo, che ha raggiunto un utile netto circa 4 miliardi di euro e il fatturato è salito a quasi 12 miliardi di euro).

La risposta di Amazon, non si è fatta attendere.  È così, dopo “Amazon Saver” sui prodotti alimentari essenziali a basso costo, è arrivato “Haul”. Per ora in beta test negli USA. Per i boomer come il sottoscritto, “Haul” nel gergo social significa, più o meno, fare bottino (a prezzi stracciati) di vestiti o altro in rete. Il gigante di Seattle  gli ha dedicato una sezione di shopping della sua app e del suo sito con una selezione di proposte al prezzo inferiore a 20 dollari, “con la maggior parte inferiore a 10 dollari” e alcuni a partire addirittura da 1 dollaro. Gli sconti maturano man mano che gli ordini crescono. Mentre l’assortimento di questi articoli a basso prezzo abbraccia categorie, tra cui moda, casa, stile di vita, elettronica e altro, per questi ordini Amazon si è dovuta allontanare per forza dal suo modello di consegna rapida, indicando, per “prodotti con prezzi ultra bassi” da una a due settimane.

L’esperimento è ovviamente una risposta a Temu e ad altri mercati cinesi in rapida crescita. Amazon più che la concorrenza nei negozi fisici deve stare attenta ai nuovi arrivi in rete e quindi  decide di correre il rischio di vedersi  cannibalizzare le altre sue vendite, ritenendolo comunque preferibile alla perdita di quote per l’incalzare di questi concorrenti. Ricerche recenti mostrano che i consumatori statunitensi confermano  di fidarsi di più di Amazon rispetto a Temu, ma che stanno comunque facendo sempre più acquisti su Temu. Circa il 17,5% degli intervistati globali a un sondaggio della società di software di marketing Omnisend ha dichiarato di pensare che il sito cinese potrebbe addirittura superare Amazon come piattaforma di e-commerce leader. Leggi tutto “Alla fine dei giochi, vincerà il low cost?”

Lo sciopero generale del 29 novembre. Le conseguenze inevitabili sul sindacalismo confederale

C’è qualcosa  di profondamente diverso e preoccupante nella stagione sindacale  che arriva. La divisione del sindacalismo di matrice confederale porta inevitabilmente con sé due effetti.  Da un lato rischia di spingere  CGIL e UIL nel campo presidiato dai sindacati di base, tutt’altro che marginali in alcuni settori e, dall’altro ripropone la necessità di certificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali che rischia di coinvolgere anche le singole categorie e quindi le dinamiche dei futuri rinnovi dei CCNL. 

Maurizio Landini ha evocato addirittura la necessità di una  “rivolta sociale”. Rivolte che, come la Francia a volte ci mostra, nascono generalmente dal basso, dalle contraddizioni sociali  senza essere annunciate, evocate o previste dall’alto come in questo caso. Il 29 novembre ci sarà una verifica non tanto del malessere presente nel mondo del lavoro che è evidente ma della capacità di interpretarlo da chi ha proposto la mobilitazione a partire  dalla partecipazione dei diretti interessati, i lavoratori dipendenti,  allo sciopero generale di otto ore indetto da CGIL e UIL (la CISL non ha aderito).

Contemporaneamente si è messa in movimento anche la galassia del sindacalismo di base, Cub, Sgb, AdL Cobas, Confederazione Cobas, Clap, Sial Cobas, presenti nei servizi, nel pubblico impiego, nei trasporti  e nella logistica, che ha anch’essa  indetto lo sciopero generale per l’intera giornata del 29 novembre contro la manovra e la politica socio-economica del Governo. Ovviamente quest’area prova ad alzare la posta puntando a  far emergere le contraddizioni presenti nel sindacalismo confederale non volendo delegare loro la protesta sociale e la decisione sulla prosecuzione delle iniziative dopo lo sciopero.

Come ho già scritto, più che la roboante dichiarazione in sé, preoccupa la deriva imboccata dalle due sigle del sindacalismo confederale. Che ci stiamo dirigendo più o meno consapevolmente verso il rischio di una pericolosa lacerazione del tessuto sociale mi sembra evidente. Aumento dell’area della  povertà, preoccupazioni per il futuro che lambiscono anche il ceto medio, crisi del welfare state, sono sotto gli occhi di tutti. Mi lascia però perplesso la convinzione di Landini che sia necessario evocare la rivolta sociale e che  lui e Bombardieri possano presentarsi come i possibili interpreti.

Affermare ad esempio che i salari sono fermi da qualche decennio e la precarietà nel mondo del lavoro è una costante, risponde al vero ma è difficile addebitarla a questo Governo e non ad una serie di ragioni e responsabilità che risalgono nel tempo. O che esistano scorciatoie per risolverla e soluzioni semplici a portata di mano. E queste responsabilità non esonerano né i governi precedenti né gli stessi Sindacati confederali che in questi decenni non erano su Marte. Difficile quindi chiamarsi fuori.
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Grande Distribuzione. I Contratti Nazionali fanno parti uguali tra diseguali..

Le insegne dovrebbero essere valutate per la loro capacità di fare business e di integrarsi nei territori dove sono insediati.  Per i loro risultati, per come interagiscono con il cliente e per la loro distintività in un contesto competitivo esasperato. Per come valorizzano i propri collaboratori.  Non dovrebbero fare notizia perché sottopagano i loro dipendenti o aggirano norme e contratti come purtroppo a volte  avviene.

È dovuto intervenire addirittura  il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiarire la china pericolosa verso cui ci stiamo incamminando sul piano sociale: “L’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontario, e da precarietà. Si tratta di un elemento di preoccupante lacerazione della coesione sociale”.

Basterebbe questa frase per far “aprire occhi e orecchie” a chi, nella GDO, aggira la leale competizione applicando contratti, pur ritenuti localmente legittimi a causa della lacunosa legislazione vigente, ma in evidente dumping con chi rispetta le regole del gioco definite dalle principali organizzazioni di categoria. Su questo passa il confine netto tra “Imprenditori e Prenditori”. Sia che operino a monte della filiera, nell’agricoltura, nei servizi alle imprese o nella logistica o nel comparto stesso. A nord come a sud. Continuo a pensare che non c’è alcuna differenza tra chi compra prodotti agricoli pur sapendo che sono raccolti sfruttando gli immigrati  e chi non paga il dovuto ai propri collaboratori nascondendosi dietro  contratti definiti “pirata” per il loro contenuto chiaramente a danno del soggetto più debole.

Nel recente rinnovo dei due CCNL principali applicati in GDO (Confcommercio e Federdistribuzione) è mancato il coraggio di voltare pagina. Così come nessuno ha  capito per tempo che pandemia e inflazione avrebbero cambiato il consumatore modificandone priorità e atteggiamenti  così è stato, sul tema del lavoro  e della sua necessaria evoluzione. E così il tema della distintività della GDO che avrebbe dovuto caratterizzare il primo vero testo di Federdistribuzione si è arenato perché è mancata la capacità di  proporre uno scambio realistico e accettabile al sindacato consentendo così a quest’ultimo di sfuggire al confronto.  Leggi tutto “Grande Distribuzione. I Contratti Nazionali fanno parti uguali tra diseguali..”

Dumping tra imprese. Quando “sottocosto” ci finisce il lavoratore.

Spesso è difficile filtrare le informazioni che arrivano. Una mezza verità non è di per sé una notizia credibile. Le verifiche sono importanti. Personalmente non sopporto l’arroganza del potere. Soprattutto quando è ben mascherata. Nella GDO si manifesta quando non si paga il dovuto fingendo di farlo, quando si illude il soggetto più debole con promesse  future che non verranno mai mantenute e quando si predica bene ma si razzola malissimo. Recentemente mi è stata recapitata una busta di grande formato.  Quando l’ho aperta all’interno c’era la fotocopia di  quello che sembrava essere un testo di un contratto nazionale. Trecentonovantuno pagine dedicate al comparto del commercio e della distribuzione moderna e un bigliettino di accompagnamento con scritto: “leggilo e se te la senti, commentalo sul blog”.

Ho cercato in rete il testo corrispondente. È possibile trovarlo a questo indirizzo. Definire, prendendo a prestito il termine dal sindacalese,  quel testo  “giallo”, credo sia corretto. Il cosiddetto sindacalismo giallo (in Francia si chiama syndicalisme jaune; in inglese Company unionism) definisce  l’attività antisindacale  compiuta tramite la creazione o il controllo imprenditoriale di sindacati dei lavoratori. Oppure, più banalmente quando il sindacato diventa un interlocutore accomodante del datore di lavoro e non tutela gli interessi dei lavoratori ma quelli personali o aziendali.  Quel testo, è frutto di una evidente  sudditanza che danneggia  non solo i lavoratori ma, addirittura, crea una situazione di dumping tra imprese. Soprattutto se operanti nello stesso territorio.

Nessuno, credo,  avrebbe sollevato il problema, che pure si sta diffondendo,  se non si fosse verificato un incidente di percorso in Campania dove, nel passaggio tra Rossotono (ex Apulia Distribuzione) a Multicedi, Gennaro Rizzo, un rappresentante sindacale regionale della Uiltucs Campania e dipendente di Rossotono in un’intervista  ha spiegato: «Il contratto propostoci è quello che viene chiamato “Cisal-Pirati” (in realtà CISAL-Anpit, una tipologia di testo lontano da quelli sottoscritti da Confcommercio e Federdistribuzione n.d.r.). Se entrasse in vigore realmente questo tipo di contratto, ai lavoratori non verrebbero pagati né gli straordinari, né le quattordicesime, né tantomeno i festivi che invece oggi ci sono garantiti (da Rossotono n.d.r.)  oltre lo stipendio base. Mentre il mondo va avanti – aggiunge amareggiato Rizzo – noi rimaniamo all’età della pietra». I festivi oggi sono pagati il 30% in più, percentuale che sale al 60 nei giorni particolari come quelli del periodo natalizio. «Tutto questo, con il nuovo contratto, sparirebbe. Non solo: a un turno di 4 ore mattutine ne dovrebbe seguire un altro pomeridiano dopo alcune ore di pausa. Questo significa avere una vita stressata, senza possibilità di gestirti il resto del tempo da dedicare alle famiglie o ad altri interessi. In molti stanno pensando se sia meglio licenziarsi e trovare altre strade, come qualcun altro ha già fatto in passato» sottolinea ancora Gennaro Rizzo che lavora nel settore da decenni ed è preoccupato come gli altri per il suo futuro. Ovviamente Rizzo era sostenuto nella sua protesta da tutti e tre i sindacati confederali di categoria.

Da quello che ho letto, e a seguito delle proteste, per questi trasferimenti  sembra si sia trovata una soluzione  . Non ho visto comunicati dei tre sindacati confederali. Però il problema resta comunque aperto. Vista l’intenzione iniziale manifestata da chi ha acquisito i punti vendita e come hanno reagito  i sindacati, qual’è la situazione in Campania o in altre realtà limitrofe? Allargando il discorso spesso questi accorpamenti, passaggi al franchising, subappalti, cessioni vengono viste come semplici transazioni  di carattere commerciale. Pochi vanno a vedere cosa succede alle persone, alle loro retribuzioni alle loro prospettive. E se tutto questo introduce elementi distorsivi della concorrenza. Leggi tutto “Dumping tra imprese. Quando “sottocosto” ci finisce il lavoratore.”

Il lavoro nei servizi al consumo. Un contributo interessante della sociologa Giovanna Fullin

Ho avuto modo di partecipare ad un’iniziativa proposta dal Sindacato di base CUB (nato negli anni 90 da una scissione nella FIM CISL milanese) sul lavoro nei servizi dal titolo: “Flessibilità-alienazione e rapporti con i clienti”. Argomento impegnativo e ambiente, com’era prevedibile  estremamente critico sia nei confronti delle aziende del terziario, insegne GDO  in testa, ma anche dei sindacati confederali. L’occasione è scaturita dalla presentazione del libro di Giovanna Fullin “I CLIENTI SIAMO NOI. IL LAVORO NELLA SOCIETÀ DEI SERVIZI (Il Mulino, 2023)”.

Le ricerche sul lavoro nel terziario e nei servizi,  che ormai riguardano oltre  il 70% dell’occupazione totale, si concentrano in genere sui knowledge workers o sui lavoratori delle piattaforme. Difficile trovare sociologi del lavoro che hanno focalizzato il loro lavoro sui servizi al consumo pur trattandosi di oltre 5 milioni e mezzo di persone. Quasi il 30% dell’occupazione complessiva. Ci aveva provato negli anni 90 un altro sociologo, Renato Curcio, noto più per altre vicende, che aveva individuato, studiando i lavoratori dei centri commerciali e degli ipermercati, l’emergere di una nuova “classe operaia” in grado di sostituirsi al cosiddetto “operaio massa” fondamentale per la ripartenza di un movimento simile a quello del ‘68. Anche allora le interviste a supporto le avevano fornite i lavoratori della GDO, i delegati sindacali delle aziende  e i sindacalisti (soprattutto della Uiltucs milanese).

Al di là delle teorizzazioni di allora che poi si sono dimostrate completamente errate per la prima volta in quelle riflessioni sindacali entrava il “cliente”. Pur raccontato da Curcio  come isterico e alleato del datore di lavoro nel “vessare” i lavoratori, ma terzo soggetto di un triangolo che, in qualche modo, introduceva un elemento di diversità rispetto alle riflessioni sul lavoro derivate dalla cultura industriale e tayloristica che riduceva il rapporto di lavoro  alle dinamiche esclusive tra imprenditore e lavoratore.

Questa presenza viene ripresa anche dalla sociologa  Fullin che costruisce un nesso interessante  tra mestieri diversi (dal lavoro nel turismo, alla ristorazione, dalle hostess fino alla grande distribuzione) dove il rapporto con il cliente è centrale e ne approfondisce alcuni aspetti nel libro. Innanzitutto il delicato confine tra organizzazione aziendale e cliente.  L’organizzazione tende, per sua natura, a standardizzare i comportamenti richiesti  ma deve contemporaneamente saper costruire un rapporto personalizzato perché il cliente porta con sé una forte dose di imprevedibilità nei suoi comportamenti. Tra l’altro, nel negozio del  futuro, questa capacità di relazione e di assistenza sarà ancora più centrale. Leggi tutto “Il lavoro nei servizi al consumo. Un contributo interessante della sociologa Giovanna Fullin”

La GDO tedesca va in controtendenza sul servizio al cliente. I casi Edeka e Rewe..

La Germania è sempre più terra di sperimentazioni per la GDO che anticipano scenari possibili anche  da noi. Traiettorie e modelli organizzativi su cui, credo, possa essere utile riflettere. La prima che propongo è una scelta per necessità. Riduce addirittura il servizio nel punto vendita. La seconda, lo aumenta,  rilanciando il servizio di consegna rapido. Due apparenti contraddizioni? Ma procediamo con ordine.

La “Lebensmittelzeitung” riporta che Edeka, una delle più importanti catene tedesche, sta sperimentando, in alcune realtà territoriali, il superamento del banco servito. Il motivo: molte filiali non dispongono più di personale sufficiente per rifornire e gestire i banchi del fresco. Secondo il rapporto i cambiamenti coinvolgeranno le regioni del Nord e Minden-Hannover, del Sud-Ovest e della Baviera settentrionale e meridionale. Dal banco del fresco assistito, ricercato dai consumatori, al quale i clienti chiedono qualità superiore e consigli al banco self service che punta a soddisfare esigenze di praticità e rapidità. L’organico, il suo dimensionamento e la sua formazione specialistica sono un problema vero ovunque. E quello di Edeka è un segnale su cui riflettere.

Altra notizia in controtendenza il rilancio del quick commerce dato per morto da molti osservatori nostrani. L’innovazione non segue percorsi lineari e, oggi, più di ieri, la rete, che è un amplificatore di tendenze che enfatizza le idee e proposte nella loro fase di start up sottovalutando il percorso  che necessariamente trasforma un’idea, spesso geniale, in un prodotto o in un servizio finito. Una fase lunga, tortuosa e spesso caratterizzata  da contraddizioni, errori e ripartenza sotto altre formule. Per questo assistiamo a lanci, fallimenti, chiusure e successive concentrazioni attraverso acquisizioni. Il problema è semplice nella sua complessità. Non basta individuare la  potenzialità innovativa di un servizio. Occorre renderlo sostenibile con nuovi e solidi modelli di business. Il cosiddetto “ultimo miglio”, in altre parole ciò che ci può essere dalla decisione di acquistare un prodotto (online o offline) all’indirizzo del cliente,  è uno di questi. Il rapporto tra retailer e food delivery è strategico per costruire un modello di business efficace. Uber Eats ha dichiarato in una presentazione agli investitori a febbraio che il settore retail  rappresentava già il 10% delle sue attività di consegna totali nel quarto trimestre del 2023 e vale quindi già dieci miliardi di dollari su base annua. Per il food delivery è un completamento dell’offerta, per il retailer una quota di e-food aggiuntiva al proprio business tradizionale Oltre alla consegna a domicilio tradizionale.

La novità questa volta  viene da REWE. I clienti Lieferando in molte città tedesche possono ora ordinare generi alimentari da Rewe direttamente a casa loro. L’assortimento, ordinabile tramite Lieferando, comprende oltre 3.000 prodotti, tra cui i marchi propri di Rewe come ja!, Rewe Beste Wahl e Rewe Bio. Lieferando è una piattaforma di consegna di cibo online tedesca che consente ai clienti di ordinare cibo e riceverlo a domicilio. Fa parte della galassia Just Eat che gestisce varie piattaforme di ordinazione e consegna di cibo in venti paesi e collabora anche con IFood in Brasile e Colombia. Lieferando opera in Germania e Austria ed è leader per l’ordinazione di cibo, generi alimentari e prodotti di uso quotidiano. Leggi tutto “La GDO tedesca va in controtendenza sul servizio al cliente. I casi Edeka e Rewe..”

Grande distribuzione senza casse? Per ora, il modello è ibrido…

Pick&Go (Prendi e vai) Cosa ci potrebbe essere  di più semplice quando si va a fare la spesa. Eppure ai primi segnali di ridimensionamento del progetto Amazon Go, le campane a morto degli  osservatori più tradizionalisti sono suonate a martello. Amazon, però, lo aveva  spiegato bene. Si è trattato di passo indietro funzionale alla riprogettazione  dell’intero ecosistema vera priorità del gigante di Seattle. I suoi manager si erano spinti troppo in avanti sopravvalutando gli impatti che avrebbero ottenuto sui consumatori, sottovalutando i bug e i limiti che lo sviluppo della tecnologia non aveva risolto, l’enorme lavoro di controllo. Non considerando poi che la tecnologia in sé resta un mezzo e non certo un fine. E ultimo ma non meno importante, avevano sottovalutato che la competizione avveniva con competitor in grado di reagire localmente che quel mestiere lo conoscono benissimo avendolo presidiato con competenza e bravura da decenni.

E così, invece di insistere sulla loro tecnologia “Just Walk Out”, hanno fermato le macchine, affidato il timone a mani esperte del settore e puntato con le nuove aperture, ad esempio,  dei suoi Fresh Convenience Stores a Londra, ad un sistema ibrido. Saranno  i clienti a decidere se vogliono essere osservati da un’intelligenza artificiale mentre fanno acquisti per evitare di dover andare alla cassa o se preferiscono pagare come al solito. Nel frattempo, nel resto del mondo, quell’intuizione ha fatto numerosi passi in avanti. Sono ormai centinaia i punti vendita di diverse insegne che sperimentano formule analoghe. È una traiettoria inevitabile. Una tendenza in atto destinata a crescere nel tempo pur con  funzionalità  e metodologie diverse. Anche in Italia procedono i test dai Tuday Conad a Verona e Trento al nuovo store Esselunga nel Mind Village di Milano.

Tutto lineare quindi? Niente affatto. Per ora questa  tecnologia rimane un esperimento molto interessante che potenzialmente rende più semplice lo shopping quotidiano, ma solo per coloro che sono disposti a rinunciare alle abitudini praticate per decenni e a lasciarsi coinvolgere. Per renderla affidabile completamente e adatta ai diversi formati sarà necessario ancora molto lavoro. Le tecnologie pionieristiche di questo tipo spesso non sono né immediatamente redditizie né funzionanti perfettamente   ma devono essere sperimentate dalle imprese e dagli utenti e adattate ai loro scopi. È ovvio che chi la propone ne elenca più i pregi che i vincoli ancora presenti. È altrettanto ovvio che numerosi interrogativi restano aperti. Vincoli indotti dalla dimensione del PDV, di rilevamento della merce, di sostituzioni tra prodotti simili ma con costi diversi, di addebito della spesa, di furti e truffe, ecc.

La stessa REWE che del modello ibrido ne ha fatto un punto importante della sua strategia, dichiara:  “Nell’ambito del progetto di test ‘REWE Pick&Go’ impariamo ogni giorno e siamo continuamente alla ricerca di buone soluzioni quando le funzioni non soddisfano i nostri standard o le aspettative dei clienti. Alcune soluzioni sono ovvie, ma con alcune discrepanze abbiamo bisogno di un po’ più di tempo per identificare le aree problematiche e implementare efficacemente le soluzioni. Siamo sempre grati ai nostri clienti per il feedback ricevuto in questo test e lavoriamo costantemente per sviluppare la soluzione migliore”. Dobbiamo quindi distinguere la strategia, dai singoli step, dal loro impatto sui modelli organizzativi e sui clienti  e dai tempi necessari alla loro implementazione su larga scala.  Leggi tutto “Grande distribuzione senza casse? Per ora, il modello è ibrido…”

Confcommercio e Conad. Le ragioni di un rinnovato percorso comune.

In altri tempi qualcuno avrebbe detto, nemmeno tanto sottovoce, che i “cosacchi” stavano per abbeverare di nuovo i loro cavalli nelle fontane di San Pietro. Mauro Lusetti, Presidente Conad, è stato nominato  Vice Presidente di Confcommercio in sostituzione del dimissionario Francesco Pugliese uscito un anno fa  da Conad. Lusetti ha, dalla sua, un “peccato originale” per il mondo dei commercianti di piazza Belli che in altri tempi sarebbe stato un handicap insormontabile: ha iniziato la sua carriera in Legacoop Modena nel 1974, e, dopo un lungo percorso in Conad, fino a diventare amministratore delegato di Nordiconad dal 2001 al 2014, c’è però  “ricascato”.  E, dal 2014 al 2023 è ritornato alla presidenza Legacoop prima di essere nominato a maggio 2023 presidente del Consorzio. Ovviamente un po’ si scherza. Anche se, in diversi ambienti, permane una sorta di conventio ad excludendum  (decisamente fuori dal tempo) nei confronti del mondo cooperativo.

A differenza di Pugliese il cui CV è caratterizzato da un’esclusiva provenienza manageriale  e che aveva, dalla sua, un’immagine esterna  estremamente decisa, nel caso di Lusetti, il percorso manageriale che è comunque significativo,  è ben sostenuto  da un profilo associativo e quindi più politico. Tanta acqua  è però passata sotto i ponti e la stessa Confcommercio, pur orgogliosa della sua collocazione politica e ideale dalla quale schiaccia l’occhiolino ai partiti di  centro destra, non è esposta come Coldiretti. Soprattutto l’esperienza politica  di Ettore Prandini non è minimamente paragonabile a quella di Carlo Sangalli. Quest’ultimo  conosce bene la differenza tra esprimere una malcelata simpatia di parte e tracimare in un campo privo di golene come quello della politica e dei suoi esponenti pro tempore come sta facendo il Presidente di Coldiretti.

Per questo la sua linea politica da sempre privilegia una azione felpata fatta di segnali sulle materie di interesse ma in posizione sempre defilata. Lo slogan “Terziario, si,  ma secondi a nessuno” più rivolto al resto dell’associazionismo di impresa  è ripetuto spesso dal suo Presidente. È una scelta di posizionamento precisa che non si muove su terreni vischiosi  ma sollecita risposte senza alzare la voce a favore di telecamera. Può piacere o meno ma questo  è Sangalli.

Per Confcommercio, la presenza, tra le sue fila di Conad, leader nella GDO e di altre realtà importanti rappresenta un tassello decisivo nella rivendicazione della  rappresentanza complessiva del terziario italiano. D’altra parte, Conad con il mondo politico  che l’ha generata non c’entra praticamente più nulla. Durante la vicenda Auchan c’era pur stato  chi, tra i contrari all’operazione, aveva  suggerito di riesumare  il fantasma di Palmiro Togliatti per contrapporlo al “perfido immobiliarista” Raffaele Mincione e far nascere nei cooperatori più ingenui qualche  senso di colpa, ma il tentativo è andato a vuoto. Conad oggi è una realtà imprenditoriale a 360° di primo piano. Orgogliosa della sua identità cooperativistica ma diversa  da altri modelli di impresa. Semmai è, a mio parere insopportabile, la competizione (non so se definirla infantile o senile)  tra cooperative. Ma per ora è così. Leggi tutto “Confcommercio e Conad. Le ragioni di un rinnovato percorso comune.”

Famiglia cooperativa trentina. Come fermare il declino

Succede in Trentino per l’importanza della storia e della specificità del modello ma riguarda un tema più generale: la ricerca del contenimento del costo del lavoro nella GDO come leva (tra le altre) per fermare il declino di un punto vendita o di un’azienda. Stiamo parlando di Famiglia cooperativa trentina. Le Famiglie Cooperative, fin dalla logica che ha ispirato il fondatore don Guetti hanno posto al centro la comunità, il cliente e il servizio. Hanno una loro ragion d’essere se perseguono questo obiettivo. Altrimenti esistono altre forme societarie meno vincolanti.

Mantenere il modello ha un costo economico che pesa sui costi dell’impresa (in parte sulla collettività e, altro tema, sulle dinamiche concorrenziali). Fatto salvo il rispetto  di ciò che prevede il CCNL di categoria ogni elemento economico aggiunto che pesa sui costi dovrebbe, a mio parere,  avere un bilanciamento con la produttività dal singolo punto vendita e dall’intero sistema. Altrimenti non regge né il modello né il sistema già gravato da altri handicap.

Le Famiglie Cooperative (dal  1993 hanno un accordo di collaborazione con Coop Italia che definisce l’esclusiva di commercializzazione dei prodotti a marchio Coop per il Trentino) gestiscono 364 punti vendita di cui 229 rappresentano l’unico esercizio commerciale del paese. Di queste 109 sono definiti SIEG (Servizi di Interesse Economico Generale) (saranno circa 120 nel 2024). Per essere definiti in questo modo è necessario essere l’unico esercizio commerciale della propria località ed essere situati in un paese al massimo di 100 abitanti, posto ad un’altitudine di almeno 800 metri e distante non meno di 3 km da un altro punto vendita. I SIEG possono diventare  sempre più uno strumento per l’erogazione di servizi decentrati sul territorio in zone trascurate dal mercato. Di fatto,  multiservizi evoluti. Ad esempio, la prenotazione di visite specialistiche, la stampa di referti medici, l’accesso alla propria cartella clinica, il ritiro di farmaci, il pagamento di bollettini o del bollo auto, il prelievo di contanti e il ritiro documenti anagrafici o autorizzazioni comunali.

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In GDO (nel Sud) crescono giovani interessanti e nuovi progetti imprenditoriali. Il caso Rossotono.

Non si può non guardare con una certa curiosità al riposizionamento in corso da parte di  Apulia distribuzione. Gli ingredienti per una ricetta diversa dal solito ci sono tutti. Innanzitutto la decisione di mettersi in proprio. Dopo il lungo apprendistato come franchisee di Auchan e poi di Carrefour  i proprietari hanno deciso che è arrivato il momento di metterci la faccia e provare a giocare in un altro campionato. Non ci sono più quindi alle spalle i vecchi  franchisor responsabili di politiche commerciali rigide da aggirare con cautela, non c’è appesa fuori dall’entrata un insegna famosa ma  che al sud è percepita lontana e, di fatto,  mai radicata nel territorio.

Apulia Distribuzione è una realtà importante seppure con una dimensione multiregionale. Presenti  nel commercio all’ingrosso sin dai primi anni ’80, i fratelli Sgaramella nel 2001 fondano Apulia Distribuzione, che nel 2004 sigla un accordo di master franchising con Auchan. Nel 2020 i PDV diventano  Carrefour. L’insegna oggi opera in cinque regioni del sud: Puglia, Calabria, Basilicata, Campania e Sicilia con 378 store, ai quali si aggiunge il format cash & carry all’ingrosso Tuttorisparmio con 4 punti di vendita localizzati in Puglia.  Nel 2023 Apulia Distribuzione ha registrato un fatturato pari a 930 milioni di euro.

Che fosse questo l’obiettivo mai dichiarato lo si era intuito, quando, all’arrivo di Conad, Apulia si era defilata, rivolgendosi poi a Carrefour. Il loro DNA, non si sarebbe integrato alla cultura del Consorzio di oggi. Carrefour era l’ideale. Troppo concentrata su sé stessa e i suoi problemi per comprendere che la relazione con il nuovo franchisee, sarebbe durata comunque poco. Non credo si siano lasciati bene. Il dubbio che Apulia facesse buon viso a cattivo gioco, in Carrefour lo avevano percepito ma non potevano fare altrimenti. A Carrefour ha fatto male l’addio dopo quattro anni di partnership commerciale. Inutile negarlo. Una multinazionale in riorganizzazione che viene mutilata della presenza in alcune regioni non è un bel biglietto da visita per gli osservatori più pessimisti che quotano l’abbandono dal nostro Paese come estrema ratio presente nella testa dei manager chiamati a rimetterla in carreggiata. In fondo le multinazionali, oltre ai vincoli, offrono un ombrello che funziona quando piove ma può  essere d’impaccio quando tira vento alle spalle. VeGè era l’interlocutore ideale proprio per la sua flessibilità. E gli Sgaramella hanno visto, a mio parere, un compagno di strada ideale in Giovanni Arena presidente di VeGè. È un sud che pensa in grande. Verificheremo presto se il ritmo e gli obiettivi delle due realtà sono gli stessi.

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