Decentrare la contrattazione? Il confronto continua…

Il recente intervento sul “Diario del Lavoro” di Gaetano Sateriale della CGIL è interessante perché prova ad esplicitare una ipotesi di strategia alternativa a quella proposta dal Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia che, dal suo punto di vista, vede nell’azienda il luogo nuovo da costruire attraverso il cosiddetto “Patto di Fabbrica”.

Confindustria, checché se ne dica, non ha mai parlato di estendere ovunque la contrattazione aziendale ma, semmai, di valorizzarla laddove si manifesta o di renderla compatibile con un nuovo modello di contrattazione nazionale più leggero lasciando quindi maggiore libertà nelle singole imprese per muoversi su produttività e politiche retributive.

Recentemente il Governo Francese ha indicato una via che va in questa direzione e che ridisegna, di fatto, una nuova impostazione negoziale non più riconducibile a quella tradizionale. Un modello dove il sindacato, in sé, è meno presente e spinto inevitabilmente a ripensare ad un suo diverso posizionamento.

La contrattazione aziendale in Italia, come in Francia è assolutamente marginale e asimmetrica, soprattutto nelle PMI. Delle quote relative al nostro Paese (12,9% del totale, 17,9% nell’industria) citate forse in modo troppo ottimistico mell’articolo da Sateriale, occorrerebbe forse depurare tutto ciò che è strutturalmente “concessivo” o “restitutivo” e pesarne, a parte, la quota “promossa” motu proprio dal sindacato per valutare la dimensione e i contenuti di un possibile nuovo modello, in maniera più realistica.

Se a questo aggiungiamo che i recenti contratti nazionali sono stati rinnovati anche per una precisa volontà delle organizzazioni datoriali, il quadro che abbiamo di fronte presuppone una maggiore cautela nell’affrontare qualsivoglia cambiamento. E, soprattutto, che questo cambiamento non può prescindere dal contratto nazionale che pur messo in discussione da più parti mantiene una sua sostanziale validità.

Proporre un decentramento a livello territoriale può funzionare in settori omogenei e legati al territorio meno laddove la competizione, come ad esempio nel terziario, non è riconducibile ad una provincia omogenea. E ciò che è omogeneo per il lavoro potrebbe non esserlo per la competitività delle imprese.

Inoltre la politica salariale oggi è saldamente in mano alle imprese. Una delle difficoltà del sindacato nasce proprio dal non essersi mai “specializzato in rivendicazioni salariali” come ammette Sateriale. A mio modesto parere, soprattutto sul piano qualitativo.

Temi come il merito, l’impegno, la disponibilità, la crescita professionale sul piano individuale sono sempre stati tenuti a debita distanza dal sindacato e lasciati completamente in mano all’impresa che li ha, prima teorizzati e poi tradotti in autonoma gestione delle risorse con percorsi di crescita, politiche retributive precise, oggettive e non necessariamente discriminanti, e che oggi, con il tramonto del modello tayloristico di cui si nutriva la vecchia impostazione rivendicativa collettiva, spuntano le armi a chi non è in grado di affrontarne la portata pur con tutte le contraddizioni del caso.

Questa è un epoca di “totalismo aziendale” come l’ha definita il prof. Zamagni. Un mondo, quello delle imprese, che tende a chiudersi dentro una sua cultura e suoi valori specifici, che assume logiche proprie e scarta inevitabilmente tutto ciò che non è ritenuto compatibile. Un mondo sempre più a-sindacale e non necessariamente antisindacale.

Un mondo, cioè, dove il sindacato non riesce più ad interagire né influire concretamente. Un modello, quindi, impermeabile dall’esterno. Almeno fino a quando, come nella Silicon Valley non supera determinate soglie di accettabilità o provoca crisi di rigetto.

Confindustria, dal canto suo, insiste nel vedere nel “Patto di fabbrica” una possibile convergenza nuova tra lavoro e impresa. Una convergenza che, però, non lascia spazio al vecchio modello rivendicativo sindacale. Il punto sta qui. Luoghi e pesi tra contratto nazionale e altri livelli vengono  semmai dopo. Sono i contenuti e la cultura che li promuove e li sostiene che determineranno o meno il modello ecwuindi il luogo di confronto. Non viceversa.

Il contratto dei metalmeccanici ha stabilito alcuni importanti principi. Innanzitutto che la ricchezza va creata prima di decidere come distribuirla. Il secondo che welfare e formazione saranno sempre più pilastri fondamentali che marcheranno per lungo tempo i nuovi territori da percorrere.

Il terzo principio, purtroppo, mantiene un’area di persistente ambiguità. Ed è proprio quello relativo alla qualità e alla estensione del necessario decentramento negoziale. Il sindacato, dal suo punto di vista, lo considera parte delle intese e nella logica stessa del contratto nazionale appena firmato.

Marco Bentivogli ha sottolineato spesso che produttività, salario aziendale, formazione e inquadramento professionale possono trovare risposte concrete solo ad un livello aziendale esteso e esigibile. Per le imprese, al contrario, continua a rappresentare una possibilità da esercitare solo laddove esistono le condizioni. Un’ambiguità di fondo, se dovesse essere confermata, non di poco conto.

Quello che è certo è che il nuovo modello non sarà più un prodotto preconfezionato su vecchie logiche. Né un diritto acquisito che riproduce su altri tavoli i difetti della contrattazione nazionale di vecchio conio. E questo è un percorso che il negoziato aperto a livello confederale con Confindustria non ha ancora sufficientemente chiarito.

Personalmente temo che sia la riproposizione di un modello contrattuale superato seppure spostato più vicino al territorio dove l’impresa agisce che un altro che, di fatto, opera una insistente “disintermediazione” nei confronti del sindacato non siano lungimiranti.

La polarizzazione del mercato del lavoro, se non gestita, non promette nulla di buono nel medio lungo periodo. Le notizie che provengono dalla Silicon Valley e dal sottobosco della logistica nazionale sono lì a dimostrare che i modelli totalizzanti o basati es lesivamente sui rapporti di forza non hanno vita lunga e rischiano di produrre contraddizioni e reazioni a catena.

Lavoretti e lavoro, un dualismo sempre più inevitabile

Forse perché ha riguardato sia i professori che i nostri figli ma a nessuno era mai venuto in mente di regolare contrattualmente le “ripetizioni”.

Un fenomeno che negli anni 60 e 70 ha consentito ad una intera categoria professionale di acquistare immobili e di godere di un reddito ben superiore allo stipendio pubblico. Era gig economy ante litteram. C’era però il “nero”.

Siamo dovuti arrivare alla disfida dei voucher per capire quanto sia purtroppo facile tornare indietro. I giuslavoristi, nel frattempo, continuano a interrogarsi su come riportare il fenomeno ad una natura codificabile.

Non è certamente lavoro dipendente quindi nessuno ha convenienza a comprenderlo nei contratti nazionali. Neanche ai sindacati. Basti pensare all’effetto dumping che produrrebbe nel mondo dei servizi. In altri Paesi hanno trovato alcuni parziali compromessi forse resi possibili dal livello di business raggiunto e dalle conseguenti economie di scala realizzabili.

Società che intermediano questa offerta e assicurano minime forme di welfare credo abbisognino di masse critiche che da noi non ci sono ancora. E queste società, pur presenti in Italia, stentano a svilupparsi, credo, proprio per la ancora modesta dimensione del fenomeno. Sinceramente non so se sia questa la soluzione da percorrere.

La destrutturazione del lavoro dipendente e autonomo sta procedendo a tappe forzate nella realtà, senza indicare una vera e propria direzione di marcia. Stiamo andando oltre i modelli che abbiamo conosciuto nel 900. Ad esempio cosa ha di diverso il lavoro autonomo di seconda e di terza generazione, in termini di reddito, da un veterinario, un avvocato o un giovane professionista che arrivano a guadagnare 1200 euro lorde al mese spesso oltre i quarant’anni?

E anche nel lavoro dipendente l’intermittenza delle attività e la loro consistenza reddituale stanno determinando uno scenario sempre più evidente dove non sarà la tipologia del rapporto ad essere rilevante ma forse la capacità di costruirsi un reddito da più fonti. E così, parallelamente a opportunità di lavoro gratificanti e riconosciute socialmente in tutti i Paesi si consoliderà una vasta area di lavori accessori sia dipendenti che autonomi che ne risentiranno però allo stesso modo in termini di durata, retribuzione e contenuti.

È la storia del dito e della luna. Oggi l’attenzione è concentrata quasi esclusivamente su come rendere “più simili” al modello di inquadramento e di welfare conosciuti i nuovi lavori. Pochi  riflettono sul fatto che questa destrutturazione porterà con sé, inevitabilmente, la necessità di modificare e rimodellare il lavoro tradizionale ibridandolo e rimettendolo in discussione.

I segnali ci sono tutti. Sarà la velocità del cambiamento a determinare la gravità o meno delle conseguenze. E questo è un fenomeno che dovrebbe essere governato.

L’innovazione tecnologica e organizzativa non mettono in discussione solo i luoghi e i tempi di lavoro. Necessitano inevitabilmente forti investimenti in cultura, formazione e personalizzazione. I modelli contrattuali tradizionali prevedono tutt’altro favorendo, più o meno inconsapevolmente, una forma di disintermediazione che in passato era marginale ma che sta, via via, aumentando di peso specifico.

Fino a quando il dibattito tra addetti ai lavori si limiterà a discutere di luoghi della contrattazione e di manutenzione dell’esistente continuerà a non cogliere i temi veri e manterrà una sostanziale subalternità al cambiamento in atto.

Basterebbe notare quante volte in azienda un lavoratore all’interno di percorsi innovativi ha la necessità di leggere il contratto di lavoro. E, altrettanto, quante volte un responsabile delle Risorse Umane deve farlo per gestirne lo sviluppo professionale.

Il ridisegno del lavoro deve partire da ciò che ha un senso collettivo generale (diritti, doveri, minimi contrattuali, welfare) e ciò che ha senso in azienda o nel rapporto esclusivo tra le parti. E se il clima necessario a definire questo percorso deve essere di natura collaborativa o basarsi esclusivamente sui rapporti di forza.

La linea di confine tra i cosiddetti lavoretti che si moltiplicheranno dentro e fuori dal perimetro aziendale e lavoro tradizionale, passa da qui. Così come la loro codificazione e il loro riconoscimento.

Il futuro del retail è già qui…

“Due giovani pesci nuotano uno vicino all’altro. Improvvisamente incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua? I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e poi uno si ferma e chiede all’altro: “che cavolo è l’acqua?”

Personalmente non ho trovato nulla di più appropriato di questa metafora, proposta dallo scrittore americano David Foster Wallace, per riflettere su ciò che diamo per scontato, addirittura necessario per sopravvivere, ma che scontato non è: il futuro del lavoro nella Grande Distribuzione.

È indubbio che l’aria è cambiata. Presidiare il mercato limitandosi a nuovi insediamenti, ad aumentare le superfici, spingere con le promozioni e continuando semplicemente a ridurre i costi non funziona più. Oggi è sempre più strategico il cliente.

A parole lo è sempre stato ma adesso diventa la vera chiave di volta. La semplicità e la rapidità di acquisto, gli orari e le giornate di apertura, la competizione con le vendite on line fanno sempre più il paio con la qualità dei prodotti offerti, la loro convenienza, la motivazione all’acquisto, i desideri espressi o in divenire.

Per le aziende del settore diventa sempre più centrale la capacità di sviluppare una relazione duratura con il proprio cliente sempre più “infedele”. Questo riorientamento però non è facile. Ci sono format superati quindi in crisi, modelli organizzativi molto tradizionali, una contrattualistica sindacale sostanzialmente fordista e addetti che spesso individuano nel cliente un “nemico”, poco convinti, pur da ingenti programmi formativi, a cambiare punto di osservazione, accettandone la nuova centralità.

Poi ci sono le aziende dove i delegati sindacali e i rispettivi sindacati esterni di riferimento hanno in mente modelli organizzativi e rigidità d’altri tempi autoescludendosi così da qualsiasi ruolo concreto e propositivo. Oppure, come nella cooperazione, dove da protagonisti negativi, si impegnano a frenarne la competitività in rapporto alle altre realtà concorrenti del settore.

Recentemente è uscita una pubblicazione americana “Technology at work 3.0” che fa il punto sui rischi per l’occupazione futura in questo comparto economico. Punti vendita senza casse, centro di smistamento prodotti e consegna a domicilio robotizzati e terziarizzati, integrazione on line off line, trasformazioni dei layout, fanno pensare ad un settore che subirà un forte ridimensionamento occupazionale. Un po’ come le banche.

Lo studio azzarda un dato sicuramente eccessivo quando accenna ad un futuro del settore con più o meno l’80% dei posti a rischio. Forse più della quantità dei posti di lavoro è la possibile velocità del cambiamento che potrà creare problemi. Soprattutto se tutto questo dovesse avvenire in pochi anni quindi coinvolgendo i lavoratori più anziani, quelli meno disponibili al cambiamento. E soprattutto questo provoca il venir meno di posti di lavoro a disposizione di lavoratori con livelli di studio e provenienza geografica, differenti.

È vero però, come sostiene Andrea Garnero economista OCSE, che “se negli anni scorsi abbiamo imparato a conoscere i perdenti della globalizzazione, nei prossimi anni conosceremo i perdenti della tecnologia”. Personalmente credo che su questo occorrerebbe riflettere.

Come si può affrontare, accompagnandola, questa probabile situazione? Innanzitutto smettendola con le battaglie di retroguardia. Tipo quelle contro le aperture festive. Ininfluenti sul piano pratico relegano tutto il sindacato di categoria in una posizione subalterna e poco credibile come interlocutore nel settore. Anche per gli stessi lavoratori. O quelli che aspirano ad esserlo pur, per necessità, con contratti ridotti. Tra l’altro come può ritrovarsi, il sindacato, a concordare quel tipo di lavoro nelle singole aziende ed essere contro a livello generale resta, per me, un mistero inspiegabile. Così come mettere contro lavoratori con l’obbligo della prestazione con altri esonerati perché assunti in un periodo precedente. Una ripartizione su più persone renderebbe meno pesante il carico festivo per tutti.

Le aperture domenicali, festive e h24 sono ormai strutturali e richieste dai consumatori. Non tanto e non solo perché on line si può comprare sempre ma perché laddove le aperture vengono gestite con buonsenso si raggiungono accordi su una gestione meno rigida con benefici per l’occupazione.

E questo consentirebbe di riprendere un confronto a livello istituzionale, oggi fermo, per trovare soluzioni nell’interesse delle imprese di ogni dimensione e degli stessi lavoratori. Uscire da una logica di contrapposizione sul “nulla” aiuterebbe a riprendere il filo della contrattazione di comparto.

La situazione attuale che vede lavoratori coperti da un contratto nazionale e altri in balia degli eventi con tranche anticipate unilateralmente, non può durare a lungo. Federdistribuzione non è riuscita a chiudere il proprio contratto nazionale perché non ha alcun senso aggiungere un altro ai tre già utilizzati dalle imprese. I sindacati, unitariamente, lo hanno ormai capito benissimo.

Però, molte delle esigenze manifestate, sono assolutamente legittime e andrebbero riprese pur all’interno della contrattazione nazionale in essere che consente deroghe, aggiustamenti, specificità, costi e modalità di corresponsione.

Lo stesso Ministero del Lavoro dovrebbe lavorare in questa direzione più che fingere di non vedere una situazione senza sbocco. Così come approfittarsi della debolezza del sindacato di settore per non procedere ad alcun rinnovo è un azzardo che potrebbe rivelarsi controproducente per le imprese del settore. Soprattutto in una fase di riorganizzazione profonda con le prospettive di cui abbiamo accennato sopra.

Fino a quando è legittimo chiedere al sindacato di “Cantare e portare la croce” come lo è spesso per “gli uomini che sanno celare il dolore dietro un indulgente e rassegnato sorriso”?

Forse è arrivato il momento di parlarsi tutti e sul serio e guardare avanti. Insieme. Non limitandosi a ribadire il proprio punto di vista come, purtroppo, è avvenuto fino ad oggi.

Lavoratori ex Almaviva. Una chance per voltare pagina…

Giusta la scelta di procedere a fari spenti però c’è sicuramente chi sta sottovalutando la vicenda Almaviva. La sua particolarità è evidente.

Da lì, oltre al ricollocamento o meno dei lavoratori coinvolti, passerà anche un giudizio sulla nascente ANPAL, sul suo ruolo e sulla sua efficacia nella gestione e nell’indirizzo delle politiche attive nel nostro Paese.

In una vicenda così complessa e difficile vista la composizione degli addetti e l’area individuata per lo scouting, è interesse di tutti gli attori in gioco sostenerli e concorrere a individuare tutte le soluzioni possibili.

Personalmente sono rimasto sorpreso della serietà e dell’impegno dei lavoratori coinvolti ad andare fino in fondo. Non c’è voglia da parte loro di reddito garantito dalla NASPI. C’è voglia di lavoro. E questa è una importante novità.

Ho ricevuto diversi stimoli da alcuni di loro dopo il mio intervento nei giorni scorsi. Persone, credo, già ricollocate e altre che sperano in una rapida ricollocazione.

Lavoratori maturi che hanno condiviso quanto ho scritto, il senso di solitudine, la necessità che venga sostenuto il lavoro che stanno facendo per ricollocarsi, l’impegno e la convinzione che l’Anpal ci sta mettendo, le difficoltà che incontrano nei colloqui proprio a causa della loro provenienza.

Innanzitutto va detto che questo dimostra che il lavoro è impostato bene. I lavoratori, almeno per quello che ricavo dai loro stessi interventi si impegnano, si mettono in gioco e vogliono ricollocarsi sul serio. È gente determinata che non va delusa.

Lamentano un dato importante: l’essere stati sotto i riflettori non li aiuta nei colloqui. Non a caso ieri facevo riferimento agli anni 80 e alle difficoltà di ricollocamento dei lavoratori UNIDAL (ex Motta e Alemagna) e Alfa Romeo sul territorio milanese.

Forse un’opera di sostegno da parte delle associazioni datoriali potrebbe contribuire a tranquillizzare gli imprenditori locali spaventati dalla vicenda Almaviva e agli effetti che può avere avuto sui singoli.

Forse occorrerà studiare anche incentivi specifici. Soprattutto per chi vuole mettersi in proprio.

Però una cosa è certa. Stanno tutti lavorando con lo spirito giusto.

I lavoratori ex Almaviva tra passato e futuro.

Che il caso Almaviva si concluda positivamente dovrebbe essere obiettivo e interesse di tutti. Resta sul tavolo un equivoco di fondo percepibile dalle interviste sul campo e da non alimentare assolutamente.

L’idea cioè che possa trovarsi, per tutti, un lavoro analogo al precedente in termini di sicurezza, durata e tipologia. Sicurezza, durata e tipologia peraltro già venuti meno a causa del licenziamento.

Ribadire, come fa qualcuno sul territorio, che il mercato del lavoro locale non sarà in grado di assorbire le persone con contratti stabili non solo è inutile ma rischia di essere controproducente. Non aiuta la soluzione ma, addirittura, la complica perché spinge i lavoratori a rifiutare qualsiasi proposta.

Lo status del lavoratore ex Almaviva è quello di un disoccupato che rischia di perdere la NASPI tra pochi mesi quindi la sua possibilità di scelta è tra un lavoro accettabile o disoccupazione certa.

E l’accettabilità di un lavoro deve essere definita non in astratto (come spesso fanno gli accordi sindacali) ma in relazione al mercato del lavoro su cui si intende operare uno scouting efficace. Se esistono oggettive difficoltà di inserimento o si amplia il territorio di ricerca o si percorrono le soluzioni possibili.

Non si risponde alle difficoltà facendo intendere, tra le righe, che la NASPI, in determinati contesti, dovrebbe durare oltre il lecito. Aggiungo che non c’è cosa peggiore che “marcare” questi lavoratori, agli occhi delle imprese del territorio scelto, come reticenti all’impiego perché questo li renderebbe veramente non collocabili. Chiunque abbia vissuto il caso UNIDAL o il caso Alfa Romeo a Milano può immaginare a cosa mi riferisco.

Parlare di “calvario dei colloqui” o di precarietà delle soluzioni proposte come ha fatto il titolista di “Repubblica” è un errore. Illude i protagonisti di essere comunque in credito ma raffredda e allontana chi potrebbe offrire soluzioni.

Chi ha necessità di assumere si muove con cautela. Soprattutto di fronte a candidati che sono, volenti o nolenti, sotto i riflettori. Le possibili soluzioni si individuano, una per una e  a “fari spenti”. Se l’obiettivo di tutti è il lavoro, le parti stipulanti l’accordo di gestione degli esuberi devono impegnarsi per evitare strumentalizzazioni ma anche interpretazioni troppo rigide che rischiano di favorire indecisioni, rinvii di scelte, confronti inutili con colleghi magari più spendibili in un colloquio di lavoro.

Tutti atteggiamenti legittimi ma inutili in un mercato difficile. L’esperienza maturata fino ad oggi, i colloqui effettuati, i possibili ritardi accumulati dovrebbero essere oggetto di un “tagliando” dell’accordo che ridefinisca i termini della questione sgomberando il campo da una serie di equivoci e rigidità che, se non rimossi, non aiuteranno a risolvere definitivamente il problema. L’incontro tra domanda e offerta deve essere trasparente, coerente con il mercato e concreto.

Considerare i lavoratori ex Almaviva una categoria a sé stante e non singoli lavoratori da reimpiegare, generalizzare alcune condizioni familiari difficili o forzare guidizi sulle tipologie di impieghi proposti fino ad oggi, fa un cattivo servizio, non solo a quei lavoratori ma all’insieme di un progetto che presuppone un cambiamento culturale.

Certo non si può chiedere ad un’impresa che deve assumere di derogare dalle proprie impostazioni però si potrebbero predisporre strumenti (incentivi, distacchi, reversibilità) a suo vantaggio.

Così come, sul versante dei singoli lavoratori, trovando il modo di valorizzarne le decisioni in termini di apprendimento di nuove attività e di consolidamento del CV. Nel caso di apertura a scelte “imprenditoriali” dei singoli supportando questa disponibilità nella fase di start up con esperti del business individuato. Credo che, su questo, le associazioni dei dirigenti di azienda con le loro reti professionali potrebbero dare una mano concreta.

Ad oggi, i lavoratori ex Almaviva, hanno dato una importante risposta positiva di disponibilità che segnala una volontà di rimettersi in gioco. Non è un segnale da poco.

Certo, i problemi cominciano ora. Ma questo era noto a tutti i firmatari dell’accordo. L’importante è che nessuno si sfili alle prime scontate difficoltà o cavalchi tensioni e preoccupazioni per ritornare, più o meno inconsapevolmente, al punto di partenza.

Se vogliamo che si affermi una cultura diversa non ce lo possiamo permettere.

Politiche attive, risorse ed efficienza sono fondamentali ma non bastano

I telefilm polizieschi tedeschi ci presentano quotidianamente una Germania non troppo dissimile dall’Italia. Tra il commissario Voss e Montalbano è solo la latitudine a renderli diversi. Non l’arguzia e la rapidità con cui risolvono i casi più complicati.

Una recente serie su RAI 2 (Ultima traccia: Berlino) ha proposto un episodio (Ostaggi) dove si racconta il dramma di un disoccupato alla ricerca di un lavoro. Tema, anche in Germania, di grande attualità.

In un ufficio di collocamento pubblico (Arbeitsamt) tra proposte di inutili corsi di formazione studiati più per soddisfare i formatori e speranze deluse dei partecipanti, atteggiamenti burocratici e piccole miserie degli impiegati addetti, si sviluppa un storia assolutamente credibile. Potrebbe essere proposta ovunque.

A parte la trama forzata per condensare, in venti minuti, una storia, l’epilogo drammatico tra sequestro degli addetti e morte del disoccupato stesso, il racconto mostra uno spaccato interessante perché propone una realtà ben diversa da quella suggerita, da chi vorrebbe presentare il sistema tedesco solo come un esempio di efficienza, organizzazione e di razionalità teutonica anche nel campo delle politiche attive.

Corsi di formazione inutilizzabili, atteggiamenti discutibili dei ricollocatori, scarso rispetto per le persone proprio nel momento più esposto sul piano psicologico, assurdi formalismi burocratici. Certo, si tratta solo di un telefilm. Però non è fantascienza.

Rappresenta la cruda realtà vista dal punto di osservazione di chi entra in quegli uffici per usufruire del servizio. Non di chi lo gestisce. 

Non è l’efficienza la sola caratteristica da ricercare o da imitare in queste strutture e per queste attività quanto l’efficacia. Il lavoratore, quando entra in una situazione di disagio perde ogni punto di riferimento e non bastano comunicazioni rassicuranti, impegni politici, risorse adeguate e impiegati efficienti. Occorrono persone che sappiano ascoltare e capire. E luoghi adatti a renderlo possibile.

Anche per questa impersonalità  l’assegno di ricollocazione pur decollato da poco, rischia un serio flop. Le ultime notizie di stampa dicono che il 90% di coloro che hanno i requisiti, e quindi hanno ricevuto una lettera, ha deciso di non proporsi.

Le due esperienze più importanti alle quali ho partecipato riguardano una operazione di ricollocamento in un’azienda industriale gestito con il sindacato di categoria (1400 persone coinvolte) e una gestita, sull’intero comparto del terziario di mercato dal sindacato dirigenti Manageritalia (circa 1200 dirigenti). In entrambi i casi la presenza attiva e propositiva del sindacato si è rivelata una scelta assolutamente fondamentale.

Nel primo caso l’impegno diretto dell’azienda che dichiarava gli esuberi, si è rivelata una scelta vincente. Nel secondo, trattandosi di dirigenti, condividere, con i colleghi di altre aziende, obiettivi e metodologie ha funzionato ben oltre le performance dell’outplacement classico.  Qui sta il punto vero. C’è sicuramente un problema di risorse pubbliche da mettere a disposizione e di organizzazione delle politiche attive ma resta da affrontare il livello di corresponsabilità nel percorso di soluzione delle aziende e del sindacato che spesso concordano il numero degli esuberi ma che poi si fermano lì. Non condividono neanche la fase iniziale del percorso di ricollocamento.  E proprio nel momento più delicato.

Una persona espulsa dal “suo” posto di lavoro, convinta di essere stata scaricata da tutti, non è in grado di reagire immediatamente. Pensa ad una nuova fregatura. Per questo l’azienda che dichiara esuberi dovrebbe assumersi delle responsabilità almeno nella gestione della prima fase di uscita dei propri collaboratori. Non solo sul piano economico.

Così come il sindacato che ha sottoscritto l’accordo. In un sistema efficace e moderno queste responsabilità andrebbero inizialmente gestite insieme. Istituzioni, azienda e sindacati.

Nella grande impresa, direttamente dalle parti firmatarie mentre nella piccola si potrebbe intervenire, almeno nelle fasi iniziali propedeutiche all’outplacement, anche attraverso un  supporto della bilateralità. Questo flop (forse) è salutare. Servirà  non solo all’ANPAL per prendere le misure di un problema nuovo.

In Germania come in Italia chi perde il lavoro deve essere aiutato immediatamente  a ritrovare una fiducia in sé stesso e una volontà di ricominciare che si manifesta solo se gestita condividendo collettivamente e a più voci il problema. Soprattutto guardando in faccia la persona.

Trasformare un sistema radicato di politiche passive dove l’individuo  è lasciato solo in balìa del suo problema ad una nuova impostazione non è semplice per nessuno. Va accompagnato e condiviso. Almeno in una prima fase.

Giovani e pensioni. Un ossimoro da affrontare.

In fondo ha ragione l’ex ministro Elsa Fornero: i giovani non votano. D’altra parte non sembrano interessati ad alzare nemmeno la voce, come categoria in sé, sui loro ipotetici interessi futuri.

La loro condizione è argomento di dibattito tra statistici, esperti della materia, politici alla ricerca di consenso per la prossima campagna elettorale. C’è più attenzione intorno alle pensioni, passate e presenti che alla loro condizione effettiva. Il Presidente dell’INPS ha provato a sollecitarli agitando la busta arancione, i sindacati, da tempo, con i fondi integrativi contrattuali di previdenza. I risultati sono stati modesti. Lo stesso vale per la sanità integrativa. I giovani sembrano rassegnati al presente.

Personalmente non credo si debba provare meraviglia. Il punto è che, non avendoli in campo, le altre generazioni vincono sempre e comunque a tavolino. Chi ne discute è, generalmente, anch’esso di un’altra generazione e dispone, quasi sempre, di redditi medio alti.

Quindi, coda di paglia a parte, le proposte sono, quasi sempre, parziali o blablatiche. Per i giovani, a sentire loro, i temi principali sembrano essere sostanzialmente due: il reddito e il lavoro. Sul reddito c’è poca fantasia (di inclusione o di cittadinanza) visto però, sempre superficialmente, come semplice scorciatoia soprattutto in carenza di lavoro. Il lavoro invece inteso soprattutto come qualità (tipologia, interesse concreto, clima), non solo come opportunità. Altrimenti non si spiegherebbero le offerte comunque inevase o coperte da lavoratori provenienti da altri Paesi.

Per molti (non per tutti, ovviamente) c’è un rapporto malinteso con la fatica, l’impegno, la capacità di investire su sé stessi pensando al futuro. È la gallina domani che sembra interessare meno. E l’uovo oggi rischia di non esserci comunque perché anche le aziende preferiscono investire sull’usato sicuro piuttosto che costruirsi in casa il futuro.

Ma è così anche per il lavoro autonomo. Alcuni esempi. Un giovane che oggi si iscrive a veterinaria sa, in partenza, che finirà disoccupato o, al massimo, potrà guadagnare mille euro fino a quarant’anni e oltre. Altro che pensione. In Italia ci sono 14 facoltà di veterinaria. In Germania 3. Nessuno spiega ai nostri giovani che forse, se studiassero il tedesco come i loro coetanei, rumeni o polacchi, qualche sbocco professionale potrebbero averlo. Non certo in Italia. Però anche nell’Ordine dei veterinari si discute della sostenibilità del sistema previdenziale più che del futuro della professione in Europa.

Le scuole di alta cucina, liuteria, ecc. sono frequentate da molti stranieri e da pochi italiani. Alcune di queste sono molto costose. Parlando con i genitori di ragazzi asiatici, la risposta che mi sono sentito dire sul perché di quella scelta mi ha fatto riflettere. “Anziché comprargli l’auto, investiamo sul loro futuro. L’auto se voranno, se la compreranno loro.” In azienda è lo stesso. Lavorando in multinazionali di diversi Paesi ho incontrato ragazzi di tutto il mondo. In tutti i test possibili i giovani italiani risultavano sempre ultimi. Il loro rapporto con il lavoro era ed è falsato dai messaggi e dalle aspettative della famiglia e della scuola. Sono  più fragili.

Però verso i trent’anni (dopo 4/5 anni di lavoro) ritornavano testa a testa con i coetanei quando finalmente si rendevano conto che erano inseriti in un percorso lungo e faticoso e che gli esiti non erano affatto scontati o determinati dal loro titolo di studio di partenza. Nella GDO i giovani promettenti, laureati o meno, possono fare brillanti carriere commerciali. Ho visto troppi ragazzi bravissimi a scuola, perdersi in azienda. Il talento, checché se ne dica, non esiste. Almeno così come lo intendiamo noi.

Esistono le attitudini che vanno allenate. Giorno per giorno. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso e di spingere, così, i giovani alla rassegnazione. Così come chiedere, sul versante delle imprese, solo sgravi contributivi o fiscali per i giovani quasi fossero una categoria protetta o da proteggere dalla concorrenza di altre generazioni.

Gli sgravi è giusto che ci siano per tutti. Il cuneo fiscale è insopportabile. E non solo per i giovani. Punto. Pretendiamo, invece, che le imprese dimostrino cosa sono in grado di fare concretamente per i giovani. Non cosa chiedono al Governo per fare.

Nel terziario di mercato decine di migliaia di giovani vengono formati per trovare lavoro. Il lavoro che c’è. Non quello immaginato. Tempo determinato, part time orizzontali e verticali, stagionale, week end, servizi alla persona, ecc. lavori che fanno CV e preparano alla vita e che consentono di capire comparti che offrono ancora prospettive. Anche di carriera.

Così come dobbiamo smetterla di raccontare ai giovani che non avranno una pensione adeguata. Aiutiamo le parti sociali a consolidare gli strumenti contrattuali di previdenza integrativa che affrontino e contribuiscano a contenere il problema. Costruiamo un nuovo rapporto con la scuola e con il mondo delle imprese, di alternanza e di stage (corretti). Raccontiamo i casi migliori, estendiamoli attraverso sperimentazioni mirate. Non cominciamo sempre da capo su tutto. La ruota è già stata inventata. Ci sono esempi virtuosi, condividiamoli.

L’ANPAL può fare molto se saprà diventare un elemento di stimolo di una cultura nuova, concedendo poco a silos autoreferenziali (presenti nel mondo della scuola e dell’impresa) e più a condivisione di percorsi e di gioco di squadra. E infine facciamo un esame di coscienza generazionale. Non serve raccontare ai giovani che devono continuare ad aspirare al mondo di chi li ha preceduti. Né, al contrario, che sono fatti loro se ciò non si dimostra possibile.

Cosa vuole mettere sul tavolo la nostra generazione in termini di risorse, equità intergenerazionale, condivisione di esperienze? Se nessuno di noi è disposto a rinunciare a qualcosa di concreto almeno non prediamoci in giro sostenendo che si può essere per il sistema retributivo per chi lo ha, annacquare  i termini dell’aspettativa di vita e contemporaneamente proporre sgravi per i giovani.

Machiavelli diceva che “non si può essere di sollievo al Principe ed innocui al popolo”. Bisogna scegliere. Nel dibattito sui giovani e sulle pensioni presenti e future credo che l’opportunismo abbia preso il sopravvento. Forse sarebbe meglio alzare decisamente lo sguardo.

Il terziario e i suoi contratti tra passato e futuro

Tutte le survey promosse presso gli imprenditori e le imprese del terziario di mercato rilevano che il servizio più importante riconosciuto a Confcommercio è la sottoscrizione del contratto nazionale e la sua gestione.

Il perimetro di chi lo applica è talmente ampio che è difficile quantificarlo con precisione assoluta. Comunque ben oltre i tre milioni dichiarati. A differenza degli altri contratti nazionali dove contenuti e norme trovano la loro origine nella contrattazione aziendale delle grandi imprese e quindi tendono a esportare vincoli e normative di difficile gestione, il contratto nazionale del terziario offre chiavi applicative differenti a seconda del comparto, del sotto-settore o dell’azienda stessa.

I tentativi, portati avanti nel tempo, dalle aziende della Grande Distribuzione di modellarlo a proprio uso e consumo sono sempre falliti, vuoi per la presenza di una contrattazione aziendale specifica di difficile esportazione, vuoi per la struttura sostanzialmente fordista (quindi più simile all’industria) dei suoi modelli organizzativi.

La convenienza nell’applicarlo risiedeva semplicemente nel restare nello stesso contratto delle PMI per tenere basso il costo complessivo già gravato dalla contrattazione aziendale delle singole imprese. Operazione riuscita fino alla crisi che ha colpito la Grande Distribuzione costringendola, prima a cercare di ridefinire la propria contrattazione aziendale, poi a cercare, inutilmente, di seguire Federdistribuzione per dotarsi di un contratto nazionale specifico a basso costo rischiando operazioni di dumping dagli esiti imprevedibili.

Intorno a questo contratto ne sono nati altri di modesta entità proposti sia da Confesercenti che da altre piccole associazioni di categoria. Oppure dallo stesso sistema cooperativo che, da anni, cerca però di rinunciarci, aggregandosi al contratto principale, senza successo per responsabilità sindacali.

Il recente accordo tra Confcommercio e CGIL, CISL e UIL mira proprio a costruire un perimetro riconosciuto, evitare dumping applicativi e verificare la rappresentatività reale di entrambe le parti in campo.

Il contratto nazionale del terziario (ex Commercio) è sempre stato ritenuto storicamente debole dalle organizzazioni sindacali (soprattutto di altri settori) perché poco innovativo su molti temi. Al contrario delle imprese che lo hanno ritenuto particolarmente efficace.

I media hanno sempre etichettato il lavoro del terziario come povero, quindi poco interessante sul piano della qualità della contrattazione e, nel tempo, a volte con buone ragioni, preso atto di un livello non particolarmente elevato dei sindacalisti del settore (e non solo..).

E questo ha coinvolto inevitabilmente i contenuti, tutti gli attori e l’intero sistema negoziale del terziario. Non è un caso che viene spesso sottaciuto il più importante impianto di welfare contrattuale, lo stesso sistema formativo e, perché no, la scelta partecipativa (tutta autoctona) insita nel sistema bilaterale.

La crisi del fordismo e della conseguente rappresentanza del mondo industriale sia sul versante sindacale che datoriale ha portato inevitabilmente in primo piano la necessità di riscrivere le loro regole del gioco. La sempre più evidente debolezza organizzativa e la inevitabile terziarizzazione del comparto ha ingolosito i vertici di Confindustria spingendoli a chiedere essi stessi, la sottoscrizione di un ulteriore contratto nel terziario innovativo. Operazione molto rischiosa per i sindacati.

Nel frattempo, Confcommercio con gli stessi Sindacati Confederali ha riscritto le regole del gioco proprio con l’obiettivo di recuperare i rischi di dumping, impedire la proliferazione dei contratti, misurare la rappresentatività reale dei negoziatori.

Fino a qualche anno fa il Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli ha sempre suggerito, citando Caio Giulio Cesare, che è meglio essere “primi in Gallia che secondi a Roma” evitando, con il suo consueto stile,  un confronto organizzativo con Confindustria nonostante i numeri lo consentissero ampiamente.

Oggi, per il lavoro fatto in questi anni, per aver costruito una Confederazione in grado di accogliere, non solo i mondi tradizionali del commercio e del turismo, ma anche i settori più innovativi del terziario, dei trasporti, della logistica, dei servizi alle imprese e alle persone e delle professioni, Confcommercio si può porre l’ambizione di “pesare” a Roma per quello che la sua salute organizzativa potrebbe consentire.

Dario Di Vico, con la solita arguzia, utilizza la metafora di “Cenerentola” (  http://Bit.ly/2fjsshQ   ) per rappresentare un comparto che stenta ad avere il peso che merita.

Forse ha ragione ma è giusto ricordare che la protagonista della bellissima fiaba popolare, sempre considerata la meno appariscente tra le sorelle, al momento giusto viene apprezzata per quello che è veramente e diventa principessa. Io, con l’analogia, preferisco spingermi oltre la mezzanotte della fiaba stessa.

La contraddizione è solo apparente….

Secondo Dario Di Vico ( http://bit.ly/2u9YNOu  ) esisterebbe una contraddizione nei comportamenti delle imprese italiane che da un lato manifestano, spesso pubblicamente, la volontà di investire sul proprio capitale umano attraverso il welfare aziendale e la formazione ma, dall’altro preferiscono continuare ad utilizzare tutta la flessibilità possibile sul fronte delle assunzioni. A mio parere è una contraddizione solo apparente.

Innanzitutto due problemi sullo sfondo. Usciamo da un periodo di grandi difficoltà e di ristrutturazioni dove le aziende hanno riallineato i loro organici a tempo indeterminato e il loro utilizzo.

I rapporti sono più chiari. Spesso più duri. Non esistono più (o quasi) le aziende “mamma”. Esistono aziende dove lo scambio è costituito da crescita professionale, formazione e welfare, in cambio di professionalità, coinvolgimento e adesione ai valori aziendali. Ovviamente per chi è dentro il perimetro.

Quindi maggior impegno e saturazione delle attività richieste, polivalenza delle mansioni e accorpamento di ruoli manageriali. L’organico è spesso tirato al limite e le possibili aree di ottimizzazione pur difficili da individuare sono sempre all’ordine del giorno.

Aggiungo che in molte imprese l’organico resta quantitativamente (non qualitativamente) ridondante. Ma con costi certi e poche soluzioni praticabili a portata di mano. In secondo luogo le nuove modalità di assunzioni a tutele crescenti, contenute nel Jobs Act, presentano ancora margini di ambiguità che spingono le aziende ad una forte cautela nell’utilizzarle.

E infine, per le aziende di oggi, i trentasei mesi previsti per un contratto a tempo determinato sono un periodo di valutazione congrua non tanto e non solo dell’individuo ma soprattutto del contesto economico e del proprio mercato di riferimento molto più determinanti che in passato.

Trentasei mesi, checché se ne pensi, sono un’era geologica per un’azienda, nella quale può cambiare tutto. Quindi, con qualsiasi modalità utilizzata, le assunzioni si fanno con il contagocce. Si sostituisce chi lascia solo se non se ne può fare a meno e solo dopo attente riflessioni organizzative. Difficilmente con un giovane alle prime armi.

Meglio “l’usato sicuro” soprattutto perché il mercato del lavoro offre ottimi professionisti spesso ad un costo decisamente inferiore rispetto al passato. Detto questo che forse chiarisce alcune delle ragioni di fondo che cercano di spiegare la cautela generale nel procedere ad assunzioni comunque etichettate ritorno sulla apparente contraddizione sollevata da Dario Di Vico perché è proprio questo contesto di difficoltà che spinge le aziende ad investire concretamente sul proprio capitale umano.

Il futuro di un’impresa non lo si costruisce oggi sulle modalità di assunzione ma sulle persone. E questo vale sia per quelle già presenti in azienda da ingaggiare con modalità e strumenti nuovi sia quelli che, pur contratti diversi e di differenti generazioni, vengono comunque coinvolte.

La differenza, oggi, sta tutta qui. Ingaggiare, mobilitare, coinvolgere, proporre opportunità di crescita professionale non più attraverso vincoli fittizi come in passato ma attraverso formazione qualificata e partecipazione ad attività e progetti.

Questo con l’obiettivo di mettere in condizione le persone di dimostrare la loro volontà di apprendere e di crescere nell’azienda stessa o altrove capitalizzando l’esperienza professionale effettuata per il proprio futuro.

Se per il Governo la Politica  e i Sindacati l’importante è assumere a tempo indeterminato più giovani possibile, sempre e comunque, non è così per le singole aziende. L’equazione tempo indeterminato uguale investimento sull’individuo non vale più.

E non è certo incentivando una modalità o disincentivandone un’altra che si ottiene un risultato duraturo. È il mercato del lavoro che deve funzionare diversamente. Quindi le poche risorse dovrebbero essere finalizzate a rendere il lavoratore in grado di affrontarlo e non di temerlo. Se ne gioverebbero sia lui che l’impresa che lo assume perché il “patto” sarebbe molto più efficace per entrambi. Impresa e individuo investono con lungimiranza se il contenuto dello scambio è chiaro.

Il punto è che fino a quando l’obiettivo dell’intero sistema sarà l’assunzione a tempo indeterminato in un’azienda e non l’acquisizione di capacità e competenze valide a 360 gradi sul mercato quell’assunzione sarà effimera qualunque sia la modalità prescelta.

Ma soprattutto non ci sarà alcuna convenienza reciproca ad investire né sulla persona, da parte dell’azienda, né sulla propria crescita professionale, in quell’azienda, da parte della persona.

Prendersela con il cronista non è mai buona cosa…

La modalità con cui si è voluto trasformare una assemblea in una forma di lotta è da condannare senza se e senza ma. Prendersela con chi l’ha stigmatizzata quasi a giustificare il “fallo di reazione” dovuto al comportamento della controparte è un errore.

Seguire i COBAS o cavalcarne le aspettative è sempre un segno di debolezza. E, nei trasporti, questa debolezza del sindacato confederale è palese. Non solo negli aeroporti.

Detto questo Di Vico fa bene oggi (  http://bit.ly/2wnLdUh ) ad alzare lo sguardo sulle responsabilità di una controparte che sfrutta questa debolezza per girare a proprio vantaggio una evidente situazione di responsabilità negoziale.

L’ho già scritto. Occorre andare oltre lo schema provocazione/reazione. Lo sciopero, comunque mascherato e soprattutto nei trasporti, è un autogol per il sistema Paese. Inutile girarci intorno.

Non servono modifiche, preavvisi, regolamentazioni. Aveva ragione Pierre Carniti. L’unico sciopero che non provoca disagi è quello che non si fa (e non si preannuncia…). Mancano nuove procedure di ricomposizione del conflitto con relative penali che, però, devono essere comminabili ad entrambi i contendenti.

Sia a chi non le rispetta, sia a chi non affronta i problemi o ne ritarda artificiosamente la soluzione. E comunque ci deve essere una commissione mista, una sorta di arbitro che, alla fine, si assume l’onere di chiudere le partite in modo definitivo.

Se si vogliono modernizzare le relazioni sindacali non basta far affidamento sui “talenti” o sulle buone idee presenti nel sindacato o tra i giuslavoristi più attenti. Occorrono regole nuove e vincolanti.

Altrimenti si ritorna nel 900. Ma solo negli strumenti e non nelle soluzioni idonee ad un Paese moderno.