Unità sindacale, ipotesi definitivamente consunta o sfida ancora possibile?

Il quotidiano l’Unità ha chiuso sostituito, on line, da un più tranquillizzante “Democratica”. Ostentarlo in fabbrica nella tasca sinistra della tuta come i comunisti facevano con il giornale fondato da Antonio Gramsci, oggi, farebbe sorridere.

Le stesse storiche feste di cui mantengono il nome arrancano pur tra ottimi gnocchi fritti e chiacchierate politiche ormai incalzate da quelle chiamate “del Lavoro” di MDP. Unità e Sinistra stanno diventando ormai ossìmori. In questo clima chiunque (ri)parli di unità sindacale rischia di passare per un ingenuo passatista.

Sia i congressi di categoria che quello confederale della CISL non hanno lasciato spazio al tema. Eppure la firma unitaria degli accordi interconfederali e dei recenti contratti di lavoro nel comparto industriale aveva fatto pensare (a chi crede ancora rilanciabile questa ipotesi) ad un cambio di strategia sul tema dopo le stagioni delle divisioni. Non è stato così.

I tre sindacati confederali, almeno fino ad ora, hanno deciso nei fatti, di continuare a “marciare divisi” per eventualmente “colpire uniti” su singole questioni. La carta dei diritti, i referendum proposti e l’eccessivo significato dato allo scontro sui voucher e sulle successive proposte del Governo per risolvere il problema avevano chiarito che la CGIL non si sarebbe fermata in attesa di un ripensamento di CISL e UIL. Ripensamento ovviamente lontano dalle intenzioni dei gruppi dirigenti degli altri sindacati.

La conferenza di organizzazione della CGIL confermerà probabilmente questa strategia. L’avvicendamento in FIOM con Re David e lo spostamento di Maurizio Landini in CGIL fanno presagire una linea di assoluta continuità, almeno nel breve. Inoltre le divisioni, interne alla sinistra politica, sono destinate ad accentuare e non ad attenuare le divaricazioni tra i sindacati.

Il rischio vero è che la debolezza di ciò che si muove alla sinistra del PD spinga la CGIL a immaginarsi come elemento di possibile coagulo. Una sorta di cinghia di trasmissione al contrario in stile vecchio Labour inglese dove è il sindacato il soggetto politico portando così a compimento l’idea dalla quale era partito lo stesso Landini, però in termini più vasti, di “coalizione sociale”.

I fatti però ci dicono che, dal referendum sulla scala mobile del giugno del 1985 ad oggi nessuno dei tre sindacati confederale ha beneficiato, sul piano organizzativo, delle divisioni. Anzi.

Negli anni caratterizzati dalla deriva identitaria il sindacato confederale ha perso iscritti, peso e autorevolezza. Soprattutto tra gli attivi e tra i giovani. Nelle aziende, pur con significative differenze settoriali, il declino è continuato inesorabile.

In contro tendenza a questa deriva una parte della Politica sembra voler ritornare sui suoi passi. Dal PD si cominciano a sentire piccoli ma importanti segnali di autocritica sul rapporto con le organizzazioni di rappresentanza. Segnali analoghi di interesse alla collaborazione vengono dal Presidente Gentiloni e dal Ministro Calenda solo per citare i più importanti. Anche i più scettici hanno capito che i corpi intermedi svolgono una funzione decisiva nella società italiana. E restano un antidoto potente alla deriva populista.

Chi ha capito, però, nelle federazioni di categoria, che il Lavoro sta cambiando in profondità e che una difesa delle proprie idee e della propria strategia passa attraverso la capacità di individuare nuovi interlocutori, stabilire alleanze inedite, uscire dal proprio isolamento sembra non avere interesse a giocare le sue carte in questa fase. In nessuno dei tre sindacati.

Landini è un caso a parte perché doveva ricostruire una sua immagine interna alla CGIL fortemente sfuocata in questi anni. Per questo dovrà probabilmente disegnare e proporre scenari apocalittici sulle prospettive del sindacalismo confederale per rimettersi al centro della scena e ricompattare la CGIL intorno al suo nome.

In quella organizzazione (e non solo in quella) non perdonano facilmente egocentrismi, protagonismi esasperati e atteggiamenti ripetuti da “metalmeccanico”… La stessa votazione appena avvenuta nel parlamentino della CGIL sulla sua nomina segnala la presenza di malumori.

Tra i diversi temi su cui si gioca la partita c’è di mezzo anche il modello contrattuale di riferimento nel negoziato con Confindustria. Non è un caso che tutti i soggetti in campo si sono affrettati a dichiarare di non considerare come punto di riferimento valido per tutti la filosofia contenuta nel rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Anche gli stessi firmatari di quel contratto tengono un profilo basso. La logica spingerebbe verso l’esatto contrario.

Quel contratto, in cambio di una disponibilità unitaria su di una distribuzione innovativa del salario positivo anche per le imprese (oltreché per i lavoratori) potrebbe portare ad un rilancio del sindacato nei luoghi di lavoro e nei territori rimettendolo al centro di un rinnovamento in chiave anche collaborativa dagli esiti imprevedibili.

Il rischio è che nella fase di gestione, che deve ancora partire, il fronte delle imprese lavori per sterilizzarne parti significative. Per questo occorrerà attendere la conferenza di organizzazione della CGIL per capire se il primo sindacato italiano affronterà alcuni nodi in modo problematico pensando alla prospettiva o preferirà continuare in un lento ripiegamento su se stesso.

Susanna Camusso ha contribuito in modo decisivo a far uscire la CGIL dall’isolamento in cui era finita. Per farlo ha scelto di compattare l’intera organizzazione spostandone l’asse più a sinistra anche perché, con una CGIL rissosa al proprio interno, non sarebbe andata da nessuna parte.

Il suo compito sta per concludersi ed è nel momento del passaggio di testimone che si capirà se lascia al suo successore un compito difficile o uno impossibile.

Ed è a quel punto che CISL e UIL potranno o meno individuare proposte e strategie tese ad accompagnare, contrastare o concordare un percorso e una strategia credibile.

Per ora non possiamo non registrare l’assenza di qualsiasi riflessione significativa sul tema dell’unità e del futuro del sindacalismo confederale.

Luxottica e il totalismo aziendale

Fa bene Dario Di Vico a rilanciare il modello Luxottica. L’Italia del lavoro nero, dei contratti nazionali non firmati, dei licenziamenti via sms, dei furbetti del cartellino e degli scioperi del venerdì ha anche bisogno di campioni positivi.

E Luxottica è un campione positivo. Il voto molto alto (8,6 su di una scala da 1 a 10) nell’indagine interna, i cui risultati sono stati resi pubblici in questi giorni, lo testimonia. E Leonardo del Vecchio fa bene ad esserne orgoglioso.

È un welfare particolare, diverso da tutti gli altri. Innanzitutto è sinonimo di Luxottica. È la prima cosa che viene in mente quando si pensa a quell’azienda. Prima ancora della sua produzione per la quale quell’impresa è conosciuta in tutto il mondo.

Ed è sinonimo di un territorio, il Veneto, che mantiene, nonostante tutto, un livello di coesione sociale, di etica del lavoro e del fare impresa che ha la sua forza nella comunità che ne consente l’insediamento e lo sviluppo.

Luxottica non poteva nascere, e diventare ciò che è oggi, se fosse nata altrove. Leonardo del Vecchio ribadisce spesso che più che l’aspetto meramente economico e strumentale è il legame emozionale con l’azienda e il senso di comunità che genera a fare la differenza.

Ecco, Luxottica è l’espressione più positiva e territoriale di quello che il prof. Zamagni definisce “Totalismo aziendale” la capacità cioè di un’azienda di includere una leadership forte, valori che hanno le loro radici nel territorio, un consenso pressoché totale e risposte concrete ai bisogni.

La preoccupazione di Zamagni è che questa coesione sociale e questa identificazione nel leader, se generalizzata e priva di contrappesi mette però in discussione il concetto stesso di democrazia. Che non può fermarsi davanti ai cancelli di un’impresa come se fossimo nel secolo scorso.

Nel caso di Luxottica il “totalismo aziendale” lo troviamo nella sua accezione positiva e condivisibile, nella sua rappresentazione territoriale e sociale, meno nel caso di molte multinazionali dove, lo stesso, si materializza attraverso uno scambio asimmetrico che chiede adesione valoriale e culturale a prescindere in cambio “solo” dell’orgoglio di appartenenza.

Zamagni ci spinge a riflettere sulla (da lui ritenuta) pericolosità di questi modelli. Soprattutto sulla esclusione di contrappesi veri. Siamo di fronte ad una delega in bianco, ben riposta nel caso di Leonardo del Vecchio, ma nelle sue mani esclusive.

I sindacati, in queste realtà, suggeriscono, propongono, associano anche iscritti ma in una logica, però, assolutamente disintermediata e subalterna. L’azienda parla al singolo lavoratore, lo ascolta, lo gestisce. Al sindacato non resta che fare il verso alla direzione risorse umane.

È un modello che sta crescendo anche altrove nel nostro Paese. L’azienda si apre al mercato, al consumatore, al contesto esterno ma costruisce un sistema di valori, risposte e comportamenti chiuso al proprio interno. Chi li condivide, cresce. Ne beneficia in diversi modi, chi non li condivide è meglio che lasci.

Il sindacato, preso ad inseguire i problemi nelle imprese che collassano o che vengono rivoltate da riorganizzazioni, crisi e ristrutturazioni, non dedica abbastanza tempo e riflessioni nelle realtà che sono ormai oltre le “colonne d’Ercole”. Spesso le giustifica acriticamente.

La filosofia e la natura concreta del “patto di fabbrica” proposta dal Presidente di Confindustria sta tutta qui. Quali contrappesi possono giustificare una adesione ad un modello che rischia di chiudersi in sé stesso?

Ai corpi intermedi spetta trovare risposte praticabili. Ovviamente ci sono dei bilanciamenti possibili. Un antidoto è il welfare contrattuale e la contrattazione aziendale o territoriale. Il modello sostanzialmente proposto dai metalmeccanici. Di difficile attuazione però in altri comparti.

Un secondo antidoto è l’individuazione di forme di partecipazione concreta. Diretta, in azienda, in forme o modelli da definire o attraverso forme di bilateralità efficaci in grado di rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle imprese. Fuori dall’azienda stessa.

In terzo luogo assumendo il mercato del lavoro (e non solo la singola azienda) come il luogo dove l’apprendimento e la formazione continua possono trovare le risposte necessarie al percorsi professionali delle imprese persone anticipando e supportando le inevitabili transizioni. Ben oltre, ad esempio, la logica attuale dei fondi interprofessionali.

Su questi temi la riflessione nei corpi intermedi è ancora carente. Una cosa però è chiara. Se il sistema non evolve verso un modello effettivamente improntato alla (vera) corresponsabilità ci troveremo inevitabilmente di fronte ad un bivio.

Da un lato le aziende che, potendoselo permettere, sviluppano al proprio interno condizioni favorevoli e condivise direttamente con i lavoratori come Luxottica. Disintermediando il rapporto con le rispettive rappresentanze.

Dall’altro aziende che, in forza, del loro appeal di marchio o di mercato o semplicemente per l’asimmetria nei rapporti di forza forzeranno verso modelli che escludono qualsiasi coinvolgimento positivo.

In mezzo, dove ci sono la stragrande maggioranza delle nostre imprese, il nulla.

Lo sciopero? Meglio abolirlo…

Durante e dopo uno sciopero dei trasporti al massimo si apre un dibattito. Chiacchiere. I giuslavoristi dicono cosa si potrebbe fare, si intervistano i cittadini infuriati, si mostrano le file interminabili in attesa di mezzi sostitutivi.

Tutti concordano che quello sciopero sarebbe stato meglio non farlo. Ma che nulla e nessuno lo avrebbe potuto impedire se indetto nel rispetto della legge.

Soprattutto se il sindacato promotore, pur insignificante, sul piano organizzativo ha ottenuto adesioni significative.

Sono esattamente 27 anni che ci si occupa del problema. Prima di quella data ci si accontentava dell’autoregolamentazione. Che naturalmente non funzionava.

Checché se ne pensi se il problema resta come aggirare il dettato costituzionale temo sia solo tempo perso. Con le leggi attuali il diritto di aderire o promuovere uno sciopero resta un diritto individuale.

Se il sindacato che lo indice riesce, ad esempio, a paralizzare i trasporti di una città o addirittura di un Paese significa che riesce a convincere i lavoratori ben oltre il proprio perimetro organizzativo.

E se lo promuove nel rispetto della legge c’è poco da fare. Ha ragione Marco Bentivogli “certi scioperi sono il miglior attacco al diritto di sciopero”. È così.

Nel 2017 siamo ancora qui. A chi non piace lo sciopero (comunque) diventa motivo di attacco ai sindacati. A tutti i sindacati. I sindacalisti seri, quelli che ne conoscono l’importanza, le conseguenze e il costo per i lavoratori non sanno bene che dire.

Personalmente credo che lo sciopero abbia fatto il suo tempo. Soprattutto da quando se ne sono impadroniti categorie privilegiate o altre che operano in mercati protetti, pubblici o parapubblici.

Lo sciopero dei bikers di Foodora al contrario ha suscitato solidarietà. Quel giorno almeno. Per come è concepito oggi, per come è indetto e gestito, lo sciopero procura danni economici essenzialmente a chi vi partecipa.

La retorica sindacale non lo ammetterà mai ma è così. I sindacati confederali, anche per questo, li indicono con grande parsimonia. Fare un passo in una nuova direzione significa individuare nuove regole per la risoluzione dei conflitti.

Non basta voler abolire gli scioperi. Occorre trovare risposte alle ragioni che li generano. Innanzitutto affrontando il nodo del peso dei sindacati certificandone la reale rappresentatività.

In secondo luogo prima della proclamazione andrebbe indetto un referendum. In terzo luogo la nuova regolamentazione dovrebbe tenere conto della avvenuta proliferazione delle sigle ben maggiore di quelle che, negli anni 90 hanno ispirato la legislazione in vigore. Infine occorrerebbe individuare forme di arbitrato che consentano di non far marcire i problemi e quindi di fornire alibi o strumentalizzazioni alle formazioni minoritarie. Definendo bene anche le materie di pertinenza.

Certo fra qualche giorno e fino al prossimo sciopero tutto sarà dimenticato. Per molti esperti della materia è la migliore soluzione. Parlare d’altro. È un grave errore. Oggi i mezzi pubblici li usano proprio le persone più deboli.

Lasciare che pensino che un autista dell’ATAC sia un nemico e come lasciargli pensare che anche un immigrato lo sia. È molto pericoloso.

A lungo andare non ci guadagna nessuno. Neanche la democrazia di cui la nostra Costituzione con l’articolo 40 è uno dei baluardi più importanti.

Confindustria e sindacati, uno stallo prevedibile

L’accordo alla fine si farà. Non è questo il punto. Siamo ancora ai preliminari perché la materia è complessa e gli interessi in campo sono di difficile composizione.

Non è comunque un negoziato facile e Confindustria non può non continuare ad insistere per tentare di raggiungere un’intesa. Il Presidente Vincenzo Boccia ci ha messo la faccia fin da subito.

Il Patto di fabbrica è la riaffermazione di una primazia della Confederazione sul sistema delle relazioni industriali che non può (dal suo punto di vista) essere messo in discussione. Sono cambiati i tempi, sono cambiati i pesi specifici ma le relazioni sindacali italiane hanno storicamente sempre avuto in Confindustria il soggetto che dava le carte.

Oggi non è più così. Non lo è nelle loro federazioni di settore dove tutti si sono mossi in ordine sparso. Non lo è a livello confederale dove Confindustria ha sempre dettato le regole del gioco ma non ha mai avuto un contratto nazionale suo, non lo è più neanche a livello di leadership sull’intero sistema perché Confcommercio e le associazioni degli Artigiani che rappresentano insieme la stragrande maggioranza delle imprese del Paese si sono mosse autonomamente e hanno già raggiunto accordi significativi con le stesse controparti.

Il Sindacato non ha fretta e quindi spinge sui contenuti proprio laddove Confindustria è più debole. Questa asimmetria negoziale ribaltata è una sorta di legge del contrappasso. Da un lato una Confindustria indubbiamente meno forte sul fronte imprenditoriale cerca un’intesa con una controparte che ne annusa le difficoltà e quindi alza la posta.

Il patto di fabbrica resta un’arma a doppio taglio. Può assorbire il sindacato in una logica aziendalista o rilanciarne il ruolo negoziale proprio laddove è più debole. Quindi gli impegni, le parole utilizzate e lo scambio politico non può essere inconsistente o pericoloso per i confederali. Soprattutto dopo la firma di tutti i contratti nazionali.

D’altra parte il Presidente di Confindustria sa che non può mettere in difficoltà le sue imprese associate scaricando loro addosso un modello contrattuale, che rischia di aggiungere costi e vincoli che oggi non hanno. E di ridare ruolo al sindacato anche laddove non lo esercita da molto tempo soprattutto nelle imprese fuori dai radar della politica che sono la stragrande maggioranza.

Il suo resta un progetto ambizioso. Rilanciare una primazia in una fase dove l’industria, i suoi valori e la sua cultura sono declinanti per rimetterla al centro delle politiche del Paese, rimettere Confindustria in gioco dopo le difficoltà interne non ancora superate, mettere un freno all’espansione di Confcommercio e degli Artigiani sul terziario innovativo, e dare un segnale di governo forte all’intero sistema industriale e ai suoi settori.

Per il sindacato è una partita altrettanto importante. Le difficoltà di Confindustria e la sua determinazione a raggiungere comunque un’intesa spingono i confederali ad alzare decisamente la posta. Sul tavolo c’è l’esigenza, legittima, di pesare, una volta per tutte, anche gli interlocutori datoriali.

Così come, più che l’adozione di un modello precostituito c’è l’esigenza di individuare una soluzione innovativa che sostenga lo sviluppo della contrattazione decentrata, che faccia chiarezza sulla filosofia di fondo del patto di fabbrica e che metta un freno sia alla numerosità dei contratti che ai rischi di dumping che ne derivano. Welfare e bilateralità possono ovviamente aiutare a definire il perimetro ma è su un punto preciso che la proposta verrà misurata.

Il patto di fabbrica presuppone un coinvolgimento dei lavoratori laddove il lavoro cambia e la produttività si crea e laddove i reciproci comportamenti sostengono o deprimono le sfide di business su cui sono impegnate le nostre imprese.

Se questo è chiaro non lo sono altrettanto le contropartite per il sindacato. Almeno fino ad oggi. Il rinvio a fine luglio serve per permettere ad entrambe le parti di completare una riflessione sulle esigenze altrui.

È una buona cosa. Vedremo se sarà sufficiente a chiudere la partita.

Inquadramento contrattuale. Sarebbe ora di metterci mano. (1)

Mettere mano all’inquadramento contrattuale, definito negli anni 70 del secolo scorso, non sarà cosa semplice. Il rischio che si renda la materia, aleatoria e discutibile, è molto alto pur convenendo tutti che si tratta ormai di un modello datato sicuramente da cambiare.

E da questo punto di vista le aziende preferirebbero non correre rischi inutili. Due aspetti importanti vanno considerati. Il primo relativo ai limiti già oggi presenti e che cercherò di trattare in questa prima parte. Il secondo relativo al futuro, ormai sempre più prossimo quando, grazie alla tecnologia e alle nuove leve lavorative, luoghi e tempo di lavoro, perderanno sempre più di significato. Argomento che cercherò di trattare in un secondo momento.

L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti hanno assegnato nel tempo, livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche.

Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina, in buona parte, lo status aziendale e il trattamento economico-normativo applicato.

I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali, ecc. A volte anche livelli aggiuntivi.

Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale continua dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, semmai collegata all’anzianità, mai la qualità della prestazione e/o il suo mantenimento o la sua manutenzione nel tempo.

Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivamente svolto. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, le capacità e le competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando esssenzialmente l’aspetto individuale.

Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati con il sindacato, il mercato di riferimento, i linguaggi nuovi e gli inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire la motivazione, il merito, il mercato e sviluppare il talento, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile.

E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo per aggirare numerosi ostacoli. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente.

In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e del tutto indipendente dalla qualità della prestazione.

Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la scarsa impiegabilità sul mercato del lavoro.

Collegato a questo diventa fondamentale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, sempre più, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo.

L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il problema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Anzi. L’idea stessa che si possa abbassare l’inquadramento formale del lavoratore ma non la sua retribuzione la dice lunga sull’approccio utilizzato.

Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo è stato possibile, spesso concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, hanno costituito solo la punta dell’iceberg. Troppo vecchi per restare in azienda, troppo giovani per andare in pensione.

Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. Quindi di riprendere il tema del demansionamento effettivo.

La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, di converso, sul singolo lavoratore.

Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare una sorta di reddito minimo da ciò che può modificarsi (in su o in giù) in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sulla loro maggiore responsabilizzazione nel lavoro, sull’andamento economico e, contemporaneamente, far crescere nelle persone una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi.

Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.

Per un vero patto di fabbrica.

L’idea è comunque da sottoscrivere. Impresa e lavoro collaborano a tutto campo con un obiettivo preciso: aumentare la produttività, affrontare l’innovazione e i cambiamenti necessari, crescere professionalmente e costruire un welfare moderno e inclusivo.

Il patto di fabbrica può produrre tutti questi effetti positivi e quindi fa bene il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ad insistere. Per il sindacato potrebbe rappresentare un passo decisivo e definitivo.

Passare, in azienda, da una logica negoziale tradizionale laddove le condizioni, la forza o la capacità del sindacato esterno lo consente ad una logica collaborativa a tutto campo.

C’è però un paradosso. Le aziende si dichiarano pronte e disponibili ma il sindacato ha molti dubbi sulla concreta fattibilità dell’operazione così come proposta. Il sindacato, da parte sua, si dichiara pronto e disponibile ma le aziende hanno molti dubbi sulla concreta fattibilità con questo sindacato.

La contrattazione aziendale di questi ultimi decenni è stata caratterizzata, per dirla con il professor Baglioni, da un modello “partecipativo concessivo”. Urgenze, contenuti, problematiche sono stati posti sostanzialmente dalle aziende.

Salvo in alcune vertenze importanti dove il sindacato ha schierato gli uomini migliori e si è assunto responsabilità pesanti. Non sempre condivise a livello unitario.

Riorganizzazioni, tagli, commesse da gestire, ecc. Il sindacato ha però, quasi sempre, giocato di rimessa. Non è un caso che, le imprese stesse hanno, negli anni, depotenziato i loro ruoli negoziali tradizionali.

Oggi gli addetti alle relazioni sindacali, anche di alto livello, in azienda contano molto poco a differenza che in passato. Quindi, nelle intenzioni e fino a prova contraria, il “patto di fabbrica” confermerebbe questa asimmetria di potere.

Due aspetti importanti potrebbero bilanciare il sistema. L’estensione della contrattazione territoriale laddove quella aziendale non è praticabile e l’introduzione di modelli relazionali di concreta corresponsabilità. O per dirla come la direbbe un sindacalista, di “Partecipazione”.

Non è un caso che su questi due punti, Confindustria non è molto disponibile. Difficile darle torto. Oggi la contrattazione aziendale non supera il 5/6% delle imprese con una tendenza a decrescere. Si va dal 2/3% del terziario al 25/28% dei metalmeccanici. Nelle PMI è praticamente inesistente.

Ampliarla, in assenza di relazioni sindacali diffuse e costruttive sia al centro che in periferia potrebbe essere addirittura controproducente. Inoltre il territorio è un punto di riferimento solo per i lavoratori coinvolti e solo per alcuni comparti. Infine, cosa da non sottovalutare, Confindustria non ha alcun disponibilità ad estenderla o peggio a renderla obbligatoria al di fuori di chi gli conferisce un mandato. Il rischio associativo è evidente.

Sul tema della partecipazione e del coinvolgimento dei sindacati le aziende sono, nella quasi totalità, nettamente contrarie. Qualche passo avanti si potrebbe fare indicando delle sperimentazioni reversibili, individuando come in alcuni comparti (vedi chimici e alimentaristi) settori specifici, materie prioritarie, formazione congiunta, condivisione di informazioni, sistemi premianti, ecc. che indichino una concreta direzione di marcia.

Però su questo punto occorre essere chiari. Non bastano generiche affermazioni di alcuni sindacalisti e neanche di tutto il sindacato confederale per aprire scenari nuovi. La cautela, non solo di Confindustria, è assolutamente comprensibile.

Il sindacato, però, se dovesse decidere di rinunciare a questa prospettiva, corre dei rischi. Le aziende non si fermeranno, questo è chiaro. In assenza del “patto di fabbrica” le stesse recenti conquiste contrattuali rischiano di essere depotenziate.

E questo non sarebbe utile a nessuno. In molte imprese si sta affermando una doppia cultura. Ciò che è necessario e obbligatorio negoziare con il sindacato o discendente dalle leggi vigenti si applica. Ciò che è utile per costruire un coinvolgimento e un ingaggio dei collaboratori si gestisce con ben altra convinzione.

La parte più accorta del sindacato ha capito benissimo che nelle aziende c’è in corso da tempo una sua lenta e progressiva emarginazione. È indubbio, però, che la firma convinta di Federmeccanica con FIM, FIOM e UILM va in ben altra direzione.

E questo è un dato positivo a favore di quanti vorrebbero giocare la partita fino in fondo. Altri restano convinti che, prima o poi, le contraddizioni riemergeranno. E lo schema di confronto cambierà notevolmente.

In questo modo, però, si limitano a segare il ramo sul quale si poggia l’intero sistema. Non mi sembra una strategia accorta.

Congresso CISL. Il sindacato italiano tra castori e dighe…

I congressi restano un momento importante nella vita di una organizzazione sindacale. Certo, come per i cortei o i comizi rientrano anche in una liturgia tradizionale. Però riescono a far comprendere se dietro le parole, gli slogan, l’atteggiamento a volte esageratamente predicatorio nei confronti di tutti gli altri stakeholder c’è sostanza o meno. Se vivono concretamente la realtà o la interpretano in chiave di autoconservazione.

La CISL, tra l’altro, non sta attraversando affatto un momento facile. Schiacciata dalla CGIL, da un lato, ormai forte di una strategia chiara seppure di difficile attuazione e con una segretaria generale Annamaria Furlan che ha l’ingrato compito di completare i processi in corso di sburocratizzazione e di trasparenza e di riorientarne l’azione politica e sociale complessiva riaprendo un dibattito interno che si era spento anche per volontà esplicita dei suoi predecessori.

Su questo ci sono indubbi segnali incoraggianti di cambiamento. Lo si è ascoltato in alcuni congressi di categoria ma anche in alcuni congressi territoriali. Nella sua relazione introduttiva la Segretaria Generale, su alcune questioni di strategia non si è tirata indietro.

Due elementi importanti per il futuro delle relazioni sindacali. Innanzitutto il tema della partecipazione. Chiedere, come ha fatto, un intervento legislativo di sostegno alla materia è un fatto nuovo e importante.

Certo, la strada maestra è quella del confronto tra le parti, ma è indubbio che occorra accelerare su questo percorso se si pensa ad un futuro con un sindacato protagonista dello sviluppo delle imprese, del lavoro e del Paese.

La “corresponsabilità”, il “Patto di fabbrica”, l’idea stessa di collaborazione perderebbero significato se non in un quadro di forte condivisione dei rischi e delle opportunità che questo cambio di paradigma, anche culturale, impone.

Un altro passaggio importante è quello relativo alla tutela del lavoro in sé. Non  più legato al vecchio concetto di posto di lavoro. È una affermazione che cambia un tradizionale punto di osservazione sindacale.

Se le tutele si spostano dal luogo di lavoro alla persona occorre ragionare di politiche attive, di formazione, di welfare in modo nuovo. In questo senso la tipologia del rapporto, le vecchie tutele sia legislative che contrattuali perdono gran parte del loro significato.

E non è secondaria la differenza di linguaggio rispetto alla CGIL. Furlan parla di modernizzazione delle tutele del lavoro e non di trasferimento dei diritti dal luogo di lavoro al lavoratore come sostiene Susanna Camusso dimostrando, anche qui, una divaricazione di pensiero che non andrebbe lasciata cadere.

Vedremo in questa assise confederale fino a che punto potrà spingersi il Segretario Generale, quali leve avrà a disposizione per dare seguito alle decisioni, peraltro già assunte, sugli accorpamenti e sulla trasparenza e soprattutto con quali proposte si appresterà ad affrontare la difficile vertenza contrattuale del pubblico impiego dove la CISL dovrà dimostrare, più di altri, un rinnovata capacità di individuare obiettivi credibili, mediazioni ragionevoli e su questi coinvolgere i lavoratori del settore al servizio dei cittadini.

In questa opera di riorientamento e di innovazione organizzativa non sarà certamente sola. Potrà contare su quello che hanno prodotto tutti i congressi dalle aziende più piccole fino alle più importanti categorie. Ed è questo processo democratico che coinvolge decine di migliaia di persone in carne ed ossa che rende importante e unica la natura e l’esperienza sindacale italiana. Luciano Lama diceva: “I sindacati sono come i castori: li guardi e ti sembra che non stiano facendo niente. E, poi ti accorgi che hanno tirato su una diga”.

Ecco quello che sinceramente ci dobbiamo aspettare da un congresso sindacale è un dibattito franco, aperto e costruttivo.  Importante non solo per le persone che rappresentano ogni giorno ma anche per lo stesso sistema delle relazioni sindacali e per il futuro del nostro Paese.

Metalmeccanici, la via italiana alla collaborazione..

L’assemblea di Federmeccanica rappresenta un passaggio importante nella storia delle relazioni industriali del nostro Paese. Non solo per l’invito formale ai tre Segretari Generali dei metalmeccanici.

La presenza del Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, l’intervento del Presidente uscente Fabio Storchi e quello del nuovo Presidente Alberto Dal Poz, 44 anni, dimostrano che dietro il rinnovo contrattuale e gli impegni in quel contesto concordati c’è una strategia precisa.

Non solo e non tanto per la consapevolezza che in ottica industry 4.0 il ruolo della persona ritorna centrale per rimodellare l’impresa post fordista ma che questo ritorno di centralità non esclude affatto il sindacato. E che, con lo stesso sindacato protagonista (insieme a loro) della stagione della contrapposizione e dell’antagonismo, si può costruire, insieme, la nuova fase.

Il caloroso applauso riservato ai tre leader sindacali e l’attenzione dedicata ai loro interventi dimostrano che l’intenzione di volerci provare non è strumentale. L’enorme e convinto consenso al nuovo contratto espresso dall’insieme dei lavoratori rappresenta una aspettativa che, come ha sostenuto Landini nel suo intervento non deve andare delusa.

Così come Bentivogli e Palombella hanno giustamente indicato nella gestione del contratto stesso la prova del nove con cui misurare, concretamente, questo cambiamento.

Al nuovo Presidente di Federmeccanica non aspetta un compito facile in questo quadriennio. Queste aspettative devono tradursi in risposte concrete per i lavoratori ma anche per i propri associati che, in grande parte, si troveranno protagonisti di un confronto completamente diverso da quello a cui erano abituati.

E qui il ruolo della Federazione, sia a livello nazionale che territoriale sarà fondamentale. In altri comparti la centralità della persona e del lavoro avviene senza il sindacato (o, contro il sindacato).

Il professor Stefano Zamagni parla, in questo caso, di “totalismo aziendale”. Di una tecnica obiettiva e razionale e un insieme di strumenti e procedure per una gestione performante delle organizzazioni costruita intorno alla figura del leader, che coincide con il CEO, ad una richiesta di adesione a valori, cultura e atteggiamenti prodotti esclusivamente all’interno dell’impresa stessa.

Questi modelli, adottati sopratutto da gruppi multinazionali rischiano di determinare un rapporto di dipendenza fragile, esclusivo, di difficile compatibilità con tutti i fattori critici esterni, personali o collettivi, quindi fortemente totalizzanti.

Per questo è ancora più interessante la chiave di lettura dell’impresa che innova ma che coinvolge anche il sindacato proposta da Federmeccanica che ha le sue radici proprio nel contratto nazionale.

Perché è evidente che la prossima contrattazione aziendale dovrà condividere percorsi e risposte su due temi tipici del “potere” aziendale classico: la revisione dell’inquadramento e la traduzione concreta del diritto soggettivo alla formazione. Ed è su questi temi, che può riprendere colore e forma, il cosiddetto “Patto di fabbrica” del Presidente di Confindustria.

È chiaro che i riflettori di chi crede nel cambiamento e nell’innovazione, anche sociale, sono tutti lì. Mi sembra costituiscano un deciso passo in avanti rispetto alla tradizione dei chimici e degli alimentaristi dove, alla disponibilità dei sindacati di categoria, le rispettive associazioni datoriali devono gestire con maggiore cautela le contraddizioni al loro interno e quindi riservano a singoli gruppi o aziende il terreno della sperimentazione.

O nel terziario dove il sindacato si sta “suicidando” motu proprio per inadeguatezza complessiva confermando ancora una volta i propri limiti e rinunciando così ad opportunità di innovazione vera. Il messaggio, uscito ieri, è importante. Si fa sul serio e ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.

A cominciare dalla gestione del contratto nazionale. Credo che tutti coloro che auspicano una svolta positiva e collaborativa delle relazioni sindacali non possano che essere soddisfatti. Adesso tocca ai protagonisti riprendersi la scena.

Sindacalismo Confederale e Trio Metal…

L’augurio di Dario Di Vico affinché i tre segretari dei metalmeccanici possano contaminare l’intero sindacalismo confederale italiano è certamente un buon viatico. Viene da un profondo e navigato esperto di cose sindacali che non ha mai perso la speranza di vedere un sindacato nuovo all’altezza delle sfide contemporanee e future.

Giuseppe Sabella, fresco autore di un libro interessante sul recente contratto dei metalmeccanici e quindi conoscitore delle vicende della categoria, conferma l’ascesa “nell’Olimpo” del primo dei tre: Maurizio Landini segretario generale della FIOM CGIL.

La personalità di quest’ultimo, la sua sovraesposizione mediatica, il suo appartenere ad un stirpe in via di estinzione di sindacalisti aggressivi ma pragmatici lo rendono un candidato perfetto.

Secondo l’ex sindacalista Giorgio Cremaschi, però, “la FIOM e il suo gruppo dirigente hanno ricevuto un ritorno di immagine che ha finito per supplire alle difficoltà dell’agire concreto”. Qui sta il punto.

Landini ha dalla sua la firma dell’ultimo contratto nazionale. Un fatto importante ma affatto decisivo nei confronti di colleghi CGIL che magari non hanno l’immagine pubblica del segretario della FIOM ma i loro contratti li hanno sempre firmati senza grandi problemi né con le rispettive controparti né con CISL e UIL di categoria.

Né hanno cercato di imporre lezioni di galateo sindacale alle altre categorie. Landini è un sindacalista vero. Senza aggettivi. Su questo non c’è alcun dubbio. Non è un estremista, non è un moderato, non è un burocrate. Negozia, vince o perde, ma negozia.

Federmeccanica lo ha capito benissimo ed è anche per questo che si è arrivati alla firma del contratto nazionale. E i risultati (bulgari) della consultazione la dicono lunga sul clima interno dell’ultima vera “legione” rimasta.

Al di là degli equilibri interni tre ostacoli sono presenti sul suo cammino. Innanzitutto la vicenda FCA. Non tanto perché la FIOM si è messa fuori gioco da sola ben prima del suo arrivo al vertice della categoria e deve, in qualche modo, rientrare in partita, quanto perché gli impegni assunti dal vertice aziendale in termini di occupazione e di rilancio non sono lievi né certi e quindi abbisognano di un sindacato unitario, non rancoroso né con lo specchietto retrovisore.

In secondo luogo perché la gestione del contratto nazionale sarà ancora più ardua e sfidante del risultato raggiunto con la firma, per i suoi contenuti innovativi.

In terzo luogo la carta dei diritti e il conseguente rapporto con CISL e UIL. Il cambiamento culturale, lessicale perfino antropologico messo in atto da Marco Bentivogli e dalla FIM sposta ben più in alto l’asticella del confronto costringendo la CISL confederale a delle scelte importanti in direzione ben diversa sulle quali anche la UIL non potrà che convenire. E questo si riverberà necessariamente sulla CGIL e sui suoi propositi di marcia solitaria.

Tre sfide che determineranno il posizionamento definitivo del più grande sindacato confederale in una direzione collaborativa, partecipativa e europeista, oppure lo costringeranno ad una deriva minoritaria come quella che ha coinvolto la CGT francese che ha dovuto cedere il passo alla CFDT in termini di peso e rappresentanza complessiva.

Maurizio Landini in CGIL non troverà lo stesso clima che è riuscito ad costruire in FIOM. Se non altro perché salvo rarissimi casi (Carniti, Trentin e Camusso pur con diverse caratteristiche) i metalmeccanici non hanno mai avuto grande fortuna fuori dalla loro categoria. Così come in politica. È chiaro che Landini entrerà sicuramente con autorevolezza nel nuovo ruolo. Starà a lui e a chi lo sostiene riflettere sul futuro della CGIL del dopo Camusso.

A quest’ultima checché ne pensino i detrattori non si può rimproverare quasi nulla. Riconsegnerà al suo successore una CGIL al centro della scena, più forte di quando l’ha ereditata e ringiovanita nei suoi quadri dirigenti. Ma evidentemente più debole nelle imprese e con proposte che se non trovano compagni di viaggio nelle altre confederazioni rischiano di portare al suo isolamento.

A favore di Landini c’è che anche prima del contratto dei metalmeccanici la situazione in categoria era molto simile e lui l’ha affrontata e superata. Lì ha però trovato Marco Bentivogli e Rocco Palombella che del trio metal costituivano un duo già ben affiatato e sperimentato.

Vedremo se l’evoluzione nel nuovo incarico sarà propedeutica ad un cambiamento vero che contribuirà a dare un diverso orizzonte al sindacalismo confederale e se saprà muoversi con la necessaria pazienza e capacità di mediazione che, spesso, i metalmeccanici con le altre categorie non hanno mai avuto….

Grande Distribuzione. Anche IKEA alza la posta…

Un’altra dimostrazione importante di come si muovono le imprese multinazionali del settore della Grande Distribuzione è rappresentata da IKEA.

A fine maggio l’annuncio. Jesper Brodin succederà a Peter Agnefjall a partire da settembre come CEO di IKEA. 48 anni, in azienda dal 1995, avrà la responsabilità di 350 store, 45 shopping center in cui lavorano circa 140000 dipendenti distribuiti in poco meno che 30 Paesi.

Una importante scelta di crescita interna. La strategia di espansione tradizionale impostata da Agnefjall sul mercato cinese, indiano e il rafforzamento delle vendite on line proseguirà senza sostanziali cambiamenti.

Brodin, da parte sua, conosce molto bene l’azienda ed è un esperto di acquisti, logistica e nuovi mercati e darà un forte impulso alla diversificazione. In una recente intervista ha dichiarato di avere diversi nuovi progetti da lanciare. La parola d’ordine del colosso partito da Almhult in Svezia nel 1958 è: multicanalità.

La diversificazione per Ikea è un punto importante della strategia di crescita. I conti della multinazionale svedese dell’arredamento sono positivi e dichiarano un utile netto in rialzo del 20% a 4,2 miliardi di euro nell’esercizio 2015-2016. In 10 anni il fatturato è, di fatto, raddoppiato. In Italia continua a crescere: il bilancio 2016 registra infatti ricavi in crescita del 4,5% rispetto all’esercizio precedente.

Ikea Food fattura €1,7 miliardi di fatturato nel mondo. In italia +5,9% con 97 milioni di euro (pari al 5,7% del fatturato dell’azienda). Quindi è un colosso anche della ristorazione con progetti di crescita importanti. Anche in Italia.

A Piacenza ha creato un polo distributivo che serve l’Italia e tutti i Paesi che ruotano intorno al Mediterraneo. L’azienda ha capito benissimo che una logistica efficiente e all’avanguardia può diventare un vero e proprio valore aggiunto in sé se sa mettere al centro i bisogni e le esigenze del cliente.

Il deposito IKEA è uno snodo fondamentale per le merci. È un’altra prova che i confini tra settori perdono di importanza. La logistica diventa sempre più un fattore chiave del successo di un’azienda.

Tra l’altro, l’Italia, è stata scelta dal Quartier Generale per testare la formula del “pick-up & order point”. Negozi più piccoli con assortimento selezionato e, attraverso l’e-commerce, più attenzione ai tempi e alle necessità dei consumatori.

Va sottolineato che secondo un’analisi condotta da Ernst&Young nel 2013 la filiera complessiva di Ikea in Italia generava 21.000 posti di lavoro (tra diretti e indiretti), un valore aggiunto totale pari a 1 miliardo di euro e circa 300 milioni di contribuzione fiscale.

Quindi Ikea come Amazon punta decisamente ad uno sviluppo orizzontale. Logistica, e-commerce integrato, maggiore penetrazione nelle città con negozi più piccoli e, nel food, ristoranti di nuova generazione. E continua l’espansione nel far east..

Anche da noi un futuro di consegne H24 in posti prestabiliti gestiti direttamente dal cliente che supererà le formule contrattuali tradizionali e una forte integrazione con il territorio (IKEA è, tra l’altro, il più grande compratore di mobili italiani).

Infine, come caratteristica importante grande rispetto per le risorse umane, welfare aziendale spinto e lotta decisa alle discriminazioni non solo di genere come ha recentemente dichiarato la responsabile risorse umane del gruppo internazionale.

È un modello profondamente diverso sul piano della gestione dei collaboratori da quello proposto da Amazon ma la direzione di marcia, la centralità dell’insegna, la qualità del servizio al cliente, la piattaforma logistica e l’on line come strumento di successo rappresentano, sostanzialmente, gli stessi drivers su cui puntare nei prossimi anni.