La Grande Distribuzione con lo specchietto retrovisore..

Il dibattito recente, seguito all’acquisizione di Whole Foods da parte di Amazon dimostra ancora una volta i ritardi culturali del dibattito tra i responsabili  delle nostre imprese della Grande Distribuzione. Almeno per quello che è comparso su Twitter.

Solo Andrea Guerra di Eataly e  Mario Gasbarrino CEO di Unes tentano di guardare oltre la siepe. Whole Foods era ed è un’ottima azienda che ha semplicemente sbagliato il suo ultimo piano di sviluppo. Ha problemi organizzativi e logistici e ha una cultura interna e di rapporto con il territorio interessante e particolare. E clienti evoluti.

Amazon ha problemi di marchio (Amazon fresh ricorda un dentrificio), non ha un know how specifico, ha una logistica efficiente (of course), una scarsa cultura del lavoro e una ossessione per il cliente.

Sono quindi evidenti sia la strategia di Amazon sul nuovo marchio e i rischi di una integrazione tra due realtà così diverse dove pare sia già in discussione il CEO e fondatore di WF John Mackey.

Da noi il dibattito prevalente si ferma alla convinzione che il negozio fisico resti centrale. Ha ragione Gasbarrino, qualcuno continua a scambiare il dito con la luna.

Promozioni, strategie incentrate quasi esclusivamente sui costi, marketing novecentesco, hanno prodotto insegne tutte uguali. Anonime. Capisco i CEO che devono mostrarsi comunque contenti per non irritare soci e proprietà ma il futuro è altrove.

La Grande Distribuzione Organizzata che ha saputo mettere in discussione le rendite della Produzione e dell’Industria, che ha messo in ginocchio il piccolo dettaglio e che in Italia ha promosso e difeso liberalizzazioni di orari e aperture e innovato il rapporto con i consumatori, oggi viene messa essa stessa in discussione.

Così come l’industria allora ne aveva sottovalutato il potenziale di forza così oggi avviene, quasi per la legge del contrappasso, un fenomeno altrettanto importante indotto dalla globalizzazione.

I confini stanno cadendo come sono  caduti i confini tra logistica e trasporti e come stanno  cadendo tra industria e terziario. C’è chi li anticipa, chi li osserva e chi li subisce.

Il mix piattaforme digitali e logistiche planetarie scardinerà  vecchi stereotipi costringendo al ripensamento e all’integrazione orizzontale un intero comparto.

Altro che Amazon che necessitava solo di negozi fisici! Certo che è anche così ma era ed è il marchio l’obiettivo con il conseguente know how interno.

È veramente come se Apple decidesse di comprare Tesla! Mi immagino, in quel contesto, la faccia che farebbero i vari VW, Ford, FCA, ecc.

Capisco il silenzio di Walmart, Carrefour, Rewe e altri player mondiali che adesso dovranno studiare le contromosse. Detto questo è ovvio non sarà una strada in discesa né per Amazon né per WF. Né solitaria.

Ma oggi ci confrontiamo con la “mossa del cavallo” non con una normale acquisizione, seppur importante.

Accodarsi “pigramente” ai COBAS non è più un destino ineluttabile..

Dario Di Vico, anche questa volta, ha centrato il problema e… l’avverbio.  A parte i disagi provocati dallo sciopero dei trasporti di ieri due dati dovrebbero far riflettere.

Dopo la batosta dell’Alitalia il sindacato confederale del settore trasporti continua “pigramente” a subire l’iniziativa dei COBAS. Nessuna battaglia politica, nessuna presa di distanza, nessun contrasto vero. I riflettori oggi sono tutti su questa agitazione. È normale. Però non è tutto qui. Purtroppo.

I COBAS hanno anche rilanciato sulla logistica. È lì, e non altrove, che c’è in corso una battaglia sindacale vera. L’obiettivo è la titolarità della rappresentanza dei nuovi “ultimi”.

Preso tra voucher, congressi e Jobs Act il sindacato confederale sembra distratto altrove. Pubblico impiego, trasporti e logistica rappresentano il luogo ideale per tentare di mettere in discussione i tradizionali equilibri di forza. COBAS e altre formazioni lo hanno capito benissimo.

Purtroppo i sindacati confederali continuano a osservare da spettatori la scena mettendo in campo attori di secondo piano. Inconsistenti sulla vicenda Alitalia, “pigri” mentre gli scioperanti prendono i cittadini per il collo, fuori gioco domani. Lo “schiaffo alla democrazia” viene anche da qui. Troppo facile per la CGIL cercare nemici solo altrove.

La stagione congressuale della Cisl, purtroppo, non ha detto quasi nulla su questo punto. Giuseppe Sabella fa bene a valorizzare ciò che i congressi di FEMCA e FIM hanno saputo mettere all’ordine del giorno. Sono segnali importanti. Il sindacato confederale deve però saper ritrovare una strategia unitaria che faccia chiarezza su determinati temi.

Fortunatamente AnnaMaria Furlan ne ha preso rapidamente le distanze: “Non è abusando di uno strumento così importante e delicato come lo sciopero nei servizi pubblici che si portano a casa risultati. Anzi e’ l’esatto contrario: si danneggia l’immagine del sindacato e si portano a casa solo difficoltà inutili per la gente e per gli stessi lavoratori”.

Il congresso confederale della CISL offre una grande opportunità ad Annamaria Furlan. Non lasciare isolato il pragmatismo sindacale di Marco Bentivogli, continuando l’operazione trasparenza e pulizia interna non fermandosi davanti alla forza economica e alla numerosità di alcune categorie e riposizionare, così, la CISL sul piano politico e sociale completandone il ridisegno organizzativo.

Sull’altra sponda la CGIL oggi porta in piazza la sua forza ma anche tutta la fragilità di una posizione sempre più condannata a interpretare un ruolo politico e di perno sociale di una sinistra vecchia e prevedibile circondata dalla diffidenza di generazioni sempre più lontane.

Oggi in campo, insieme alla CGIL, si ritrova una sinistra “neo paternalista” che insiste nell’offrire ai giovani di oggi soluzioni troppo semplici a problemi complessi. Propone i soliti “draghi invisibili” da combattere e liquida con troppa disinvoltura ambiguità, responsabilità e complicità delle generazioni precedenti, e quindi anche del sindacato e dell’intera sinistra, sulle speranze e sul futuro di questa generazione.

È vero che Susanna Camusso deve innanzitutto tenere insieme il suo popolo in un momento di grande smarrimento della sinistra (non solo in Italia) ma farlo su di un obiettivo di fatto secondario limitandosi ad offrire una sponda al rancore antirenziano e un punto di coagulo dell’estremismo salottiero mettendo a repentaglio un disegno unitario ben più importante resta un azzardo pericoloso.

Farlo subito dopo che i COBAS hanno buttato benzina sul malessere del Paese lo è ancora di più. E non sarà facile per Camusso rimarcare l’abisso morale e politico che separa (fortunatamente) la CGIL da queste formazioni distruttive e minoritarie.

Nel movimento sindacale c’è in corso una evidente battaglia politica sull’egemonia  dagli esiti incerti. I contratti nazionali hanno segnato un possibile percorso che però non è affatto scontato.

Ci sono ritardi, interessi e storie personali, ambiguità, resistenze, furbizie che, ad esempio, il percorso congressuale della CISL non ha sciolto completamente e che sono presenti, purtroppo, in tutto il sindacalismo di matrice confederale e che rischiano di rallentare i cambiamenti necessari e urgenti.

La giornata di ieri pur con il suo carico negativo e passatista ha mostrato però segnali che vanno colti. Chi sta dalla parte dei cittadini non è affatto un crumiro sempre e comunque così come chi sta “pigramente” dalla parte dei colleghi che interrompono un servizio pubblico di venerdì non è sempre e comunque, un “collega che sbaglia”. E questo è un importante passo in avanti…

Contratto Federdistribuzione. Forse è arrivato il momento di cambiare musica…

Credo sia rimasto solo il Ministro del Lavoro Poletti e qualche suo fedelissimo dirigente ad attendere fiducioso la firma di quello che avrebbe dovuto essere il quarto Contratto nazionale della Grande Distribuzione firmato da Filcams CGIL, Fisascat CISL, e Uiltucs UIL con Federdistribuzione.

Anche l’ultimo tentativo di trovare una soluzione sembra sia fallito. Probabilmente Federdistribuzione tenterà adesso di “allungare il brodo” suggerendo alle aziende di erogare una nuova tranche e rendendosi disponibile (a parole) alla prosecuzione del confronto con lo scopo di “distrarre” il ministro del lavoro che, peraltro, non sembra essere particolarmente interessato. Anche le “sue” cooperative hanno la loro vertenza in alto mare. E questo, lavoratori coinvolti a parte, conviene a tutti.

La firma, data per imminente in diverse occasioni continua a non esserci. E difficilmente potrà esserci come sostengo fin dall’inizio di questa lunga telenovela. Federdistribuzione, anche se non lo ammetterà mai, si è trovata (o si è messa da sola), tra l’incudine e il martello.

Pur non avendo un know how negoziale particolarmente sofisticato, ha pensato possibile evocare una specificità di comparto su cui far convergere le imprese associate senza valutare gli interessi spesso divergenti degli amministratori delegati delle singole realtà aziendali.

Sempre disponibili quando c’è la possibilità di non aumentare il proprio costo del lavoro, meno quando ci sono da condividere soluzioni particolarmente innovative. Nessuno, in sostanza, si vuole esporre. Venuta meno l’importanza del collante associativo, come obiettivo in sé, è rimasta sul tavolo la distanza sugli aspetti economici.

È stata probabilmente una ingenuità quella di pensare di poter ottenere un contratto nazionale in dumping avallata solo dal vago impegno di qualche dirigente sindacale di categoria particolarmente favorevole alla moltiplicazione dei contratti.

Fallito il “blitzkrieg” datoriale ma constatata contemporaneamente la scarsa conflittualità sindacale, il secondo assalto è stato condotto mettendo in campo nuovi protagonisti anche perché, nel frattempo, Confcommercio aveva firmato il suo contratto.

Due problemi di non facile soluzione sono fermi sul tavolo: il costo complessivo e le condizioni di un eventuale rientro nel fondo EST gestito da Confcommercio e CGIL, CISL e UIL di categoria dedicato al welfare sanitario.

Anche su questi punti, pur insufficienti di per sé a giustificare un ulteriore contratto nazionale, l’intesa si è dimostrata comunque impraticabile. La firma poi del protocollo sulla rappresentanza tra Confcommercio e CGIL CISL e UIL con gli impegni reciproci contenuti, sottoscritti proprio per impedire situazioni di dumping contrattuale, ha definitivamente stravolto il contesto rendendo di fatto, impossibile a chiunque, ottenere un risultato economico sostanzialmente diverso dai contratti nazionali di riferimento.

D’altra parte pensare che Confcommercio possa accettare di sostenere sulle sue sole spalle un impianto contrattuale importante e costoso per le sue imprese mentre “lontano dagli occhi” sindacalisti di vecchia impostazione insieme ad altre associazioni datoriali sottoscrivono tranquillamente accordi in dumping è un po’ difficile da pretendere.

E adesso cosa può succedere? Ovviamente nulla. Le aziende della GDO sanno benissimo che fino a Natale possono tranquillamente tirare a campare senza particolari problemi. Il sindacato di categoria, d’altro canto, non è in grado di esprimere nulla di incisivo.

Una prova di realismo da parte delle aziende più disponibili a non trascinare fuori tempo massimo la vertenza sarebbe quella di applicare il contratto in essere firmato da Confcommercio a fronte di precise contropartite da individuare.

Alcune aziende lo stanno già facendo dietro le quinte. Le più strutturate e con problemi veri dovrebbero muoversi cercando di individuare seriamente garanzie, bilanciamenti, tempi, modalità, contenuti. Credo sia interesse di tutti superare questa impasse.

Non sarà sufficiente l’erogazione unilaterale di una tantum a fine luglio da parte delle imprese né i continui equilibrismi di una parte del sindacato a concordare una via di uscita onorevole. Machiavelli ricorda sempre che non si può essere innocui al Popolo e di sollievo al Principe.

Sul versante politico il Ministro Poletti dovrà, prima o poi, rispondere della latitanza del suo Ministero. Su quello sindacale, probabilmente, si cercherà comunque di forzare la mano sul piano legale. Ma ne vale la pena?

Forse occorrerebbe prendere atto della situazione cercando, insieme (Confcommercio, Federdistribuzione, sindacati di categoria) una strada diversa da quelle percorse fino ad oggi che tenga conto del mutamento profondo dello scenario.

Ma anche musica e suonatori dovrebbero cambiare. L’interesse delle aziende e dei lavoratori del settore, i costi relativi e quindi l’entità degli aumenti e della sua distribuzione possono trovare una risposta percorrendo strade in linea con gli accordi firmati da Confcommercio con CGIL, CISL e UIL.

Ci sono diverse ipotesi percorribili e in linea con quanto richiesto (in termini di costi) dalle principali aziende del settore. Basta volerlo approfondire seriamente senza continuare a guardare il contesto dal proprio buco della serratura.

È chiaro che c’è un problema economico serio per le imprese della GDO. Nessuno lo nega. Occorre avere più coraggio e più consapevolezza in funzione di dove si vuole o si può arrivare. Più che cercare sponde inutili nel sindacato in una logica (questa si) da bottegai del secolo scorso le imprese dovrebbero guardare ai problemi che hanno di fronte a 360 gradi.

Le risposte esistono. Basta volerle trovare. Scegliere di non fare nulla, isolerà ancora di più le aziende della Grande Distribuzione che non lo meritano. E questa è una deriva che sarebbe meglio evitare. Da parte di tutti.

Riflessioni sulle leadership…

L’assemblea annuale di Confcommercio, al di là dell’attualità dei contenuti proposti dalla  relazione, ha riportato sotto i riflettori l’importanza della leadership nelle dinamiche politiche e sociali attuali.

La standing ovation finale riservata al Presidente Carlo Sangalli dal “suo popolo” ne ha segnalato plasticamente l’attualità e l’importanza . Lo stesso Carlo Calenda (indubbiamente un leader di nuovo conio e spessore) che aveva recentemente duettato con Vincenzo Boccia nella assemblea di Confindustria si è misurato, con diversa considerazione, sia con la platea attenta ed esigente di Confcommercio che con il “suo” Presidente cogliendone la differenza sostanziale tra i due mondi.

Ryszard Kapuściński, scrittore polacco autore dell’interessante “In viaggio con Erodoto”, racconta che T.S. Eliot nel saggio su Virgilio del 1944, mette in guardia contro un tipo particolare di provincialismo, quello del tempo.

“Nella nostra Epoca in cui la gente tende sempre di più a confondere la saggezza con il sapere e il sapere con l’informazione, e in cui cerca di risolvere problemi esistenziali in termini meccanicistici, nasce un nuovo tipo di provincialismo che forse merita un nome nuovo.

È un provincialismo relativo non allo spazio bensì al tempo, che considera la storia una pura e semplice cronaca degli accorgimenti umani i quali, una volta compiuta la loro funzione, sono finiti nella spazzatura. Un provincialismo secondo il quale il mondo sarebbe una proprietà esclusiva dei contemporanei dove la continuità con il passato non esiste. Dove l’esperienza non detiene quote di mercato.

Conclude Kapuściński: “Esistono quindi i provinciali dello spazio e i provinciali del tempo. Basta un mappamondo per dimostrare ai primi quanto siano ciechi e fuorviati dal loro provincialismo; basta una pagina di storia per dimostrare ai secondi che il presente è sempre esistito”.

Vecchie e nuove generazioni si sono sempre affrontate per poi passarsi, al momento giusto, il testimone. Nella politica, l’età non è mai stata, di per sé, un’elemento di garanzia. Anzi. L’età non conta, ad esempio, per Bernie Sanders, senatore del Vermont dal 2007 che con i suoi 76 anni nella corsa alla Casa Bianca è riuscito a trascinare l’entusiasmo dei giovani democratici americani.

Oppure per James Corbyn che ha conquistato il Labour Party dopo i 65 anni in alternativa agli eredi di un mostro sacro del revisionismo socialdemocratico come il giovane (a suo tempo) Tony Blair ed è riuscito a rimontare in modo impressionante su Theresa May.

Giovani e meno giovani se le sono sempre cantate e suonate. Quando il democristiano Mariano Rumor lancia “Terza Generazione”, ad esempio, era poco più che trentenne così come quando Forlani, De Mita o Craxi, sotto i quaranta, tentarono, a volte con successo, altre volte meno, di scalare i rispettivi partiti hanno sempre posto al centro anche la questione generazionale. Con tutta la strumentalità del caso.

Per non parlare del mondo delle imprese dove i passaggi generazionali sono a volte traumatici e spesso mettono a rischio migliaia di posti di lavoro. Marco Bentivogli della FIM CISL con una dura quanto azzeccata metafora sui cosiddetti “figli di papà” trasmette un sentimento purtroppo diffuso: “I padri, pancia a terra in officina mentre i figli pancia al sole a Formentera”. Non è sempre così, fortunatamente.

La giovane età, in sé, non è mai stato un fattore di successo. Anzi, aver vissuto solo il presente non abilità ad alcuna corsia preferenziale per affrontare il futuro. L’esperienza, la capacità di non farsi abbagliare dal nuovismo e di saper dosare e affrontare i rischi di una decisione sono fondamentali per chi ha ruoli di leadership vera.

Un altro elemento determinante che non ha alcuna relazione con l’età è la capacità di parlare al cuore della propria gente più che alla testa, tipica dei leader consumati. In tempi di imbonitori e di venditori di fumo cinici e spregiudicati l’aver vissuto e condiviso storie personali ed esperienze di vita fa ancora la differenza. E questa non si improvvisa.

Oggi in politica, nelle associazioni e nelle imprese c’è, al contrario, carenza di leadership vere, forti e visionarie. C’è spesso una esagerata presenza sui media, tanta comunicazione unilaterale, scarsi risultati concreti. In questo modo, però, le leadership si logorano velocemente e indeboliscono le loro organizzazioni o i movimenti che le esibiscono.

La disintermediazione assume una sua ragion d’essere anche a causa di queste fragilità. Ed è stata ridimensionata  nel nostro contesto anche perché si è trovata di fronte movimenti radicati e leader riconosciuti.

Eppure le leadership longève restano punti di riferimento fondamentali in una società complessa. Napoleone definiva i leader “commercianti di speranza”. Io la trovo una definizione stupenda. I grandi imprenditori o i manager di imprese globali guidano, ingaggiano e trascinano migliaia di persone pur di differenti nazionalità e radici indicando strategie, unificando linguaggi e culture. Questo è possibile solo coinvolgendo i propri collaboratori attraverso momenti specifici, forme sofisticate di comunicazione e sapendo creare momenti di condivisione collettiva.

Nonostante questo le aziende sono però molto meno complesse delle associazioni di rappresentanza e dei partiti, che, a differenza delle imprese stesse, devono (necessariamente) fare i conti anche con il consenso democratico, quindi con opinioni diverse, correnti organizzate, localismi, gruppi di interesse che rendono le leadership ancora più determinanti per governarli.

Da qui nasce l’importanza delle squadre che si costruiscono intorno alle leadership che ne possono potenziare ruolo e carisma oppure offrirne una immagine a volte inconsistente o sbiadita. Per queste ragioni le grandi organizzazioni politiche e sociali tendono a creare rapporti di fiducia e di stima nel tempo nei confronti del proprio leader oltre la qualità delle squadre di vertice stesse. È questo che da la cifra del loro successo.

Le  leadership vere ciascuno se le tiene strette riproponendole nel tempo. Peter Duker ci ricorda che “I leader più in gamba non pronunciano mai la parola io. Non lo fanno non perché si sono esercitati a non dire io ma perché, semplicemente, non pensano in termini di io ma di noi, in un’ottica di squadra”. Ed è questo che crea fiducia, rispetto, identificazione e continuità nel tempo. Ed è quello a cui si è assistito e respirato nell’auditorium di via della Conciliazione intorno al Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

L’importanza del congresso della FIM CISL per la CISL..

Il congresso dei metalmeccanici della CISL conclude una fase e ne apre una nuova. Il contenuto del libro scritto da Marco Bentivogli “Abbiamo rovinato l’Italia?” e la firma del nuovo CCNL avevano segnalato un inizio di saldatura tra teoria e pratica.

L’idea di un sindacato autorevole, in grado di uscire dalla gabbia del 900, post ideologico ma ancorato a valori sani, affatto superati. Il congresso ha confermato e rilanciato questa impostazione. Intorno alla FIM CISL si sta radunando un mondo interessante, vivace, intellettualmente stimolante che propone un concetto di “comunità in cammino” dove il lavoro, nella sua accezione più moderna, diventa obiettivo, misura e senso.

Dove non c’è più spazio per la demagogia né per la vecchia retorica sessantottina. Dove la vita sociale e la democrazia non si fermano davanti ai cancelli dell’azienda ma ne diventano parte integrante in termini di diritti ma anche di doveri. Dove la realtà va cambiata vivendola e non trasformandola in un eterno drago invisibile da combattere.

Lo stesso slogan “Indipendenti ma non indifferenti” segnala la volontà di instaurare un rapporto adulto e pragmatico con la politica fatto di convergenze sulle risposte necessarie al futuro del Paese. Senza sconti ma senza pregiudizi ideologici.

Non c’è dubbio che la FIM CISL conferma e mette a disposizione dell’intero movimento sindacale, ma anche delle sue controparti, nuove strade da esplorare che pongono la responsabilità e la crescita della persona umana al centro della società e dell’impresa.

La novità è che, finalmente, questa puntigliosa rivendicazione non è accompagnata dalla solita saccenza sindacale di chi si sente depositario della ragione assoluta condita da insopportabili atteggiamenti predicatori destinati a lasciare il tempo che trovano.

Al contrario è una disponibilità da condividere, modellare e costruire, insieme, nell’interesse dell’impresa, del lavoro e di ciò che ci sta intorno. In questo senso un congresso sindacale utile, importante e diverso da tutti quelli celebrati in questa fase dalle altre categorie cisline.

E qui forse sta il punto vero sul quale focalizzare la riflessione nei prossimi giorni. Quanto emerso dal congresso della FIM CISL in termini di profondità e chiarezza non ha nulla da condividere con la tradizionale retorica congressuale uscita dalla stragrande maggioranza degli  altri congressi di categoria.

Se togliamo il congresso della FEMCA CISL e poco altro che hanno confermato una tradizione collaborativa e riformista già nota, nessun altro congresso ha proposto alcunché di rilevante o che verrà ricordato dai posteri.

Annamaria Furlan ha, davanti a sé, un compito ingrato al suo congresso. Scegliere contenuti e qualità continuando fino in fondo la trasformazione della CISL che ha iniziato all’insegna della trasparenza e in questo modo riposizionare definitivamente l’intera CISL proiettandola nel futuro o restare ferma subendo le logiche interne di conservazione orami evidenti in molte categorie.

Lo scontro, più o meno esplicito, emerso anche dall’unico punto abbastanza criptico (visto dall’esterno) della relazione di Marco Bentivogli sulle vicende interne tra le categorie industriali e nei rapporti con la Confederazione non ha chiarito in modo univoco la direzione di marcia forse con lo scopo di consentire al congresso confederale il compito di trovare le sintesi necessarie.

Non sarà un passaggio di poco peso. La CISL è in evidenti difficoltà di ruolo e di proposta. Da un lato la CGIL ha già individuato una direzione di marcia che la pone al centro dell’iniziativa ma che rischia, se condivisa, di portare l’intero convoglio confederale, su di un binario morto.

Dall’altro lato il “dopo Bonanni” si sta rivelando molto più complesso del previsto. Il ritorno sulla scena di una CISL protagonista e propositiva resta però fondamentale.

Annamaria Furlan, in questi mesi si è mossa abbastanza bene affrontando alcuni nodi in modo risoluto. Per questo il congresso confederale sarà, da questo punto di vista un passaggio molto importante. Staremo a vedere.

Il paradosso dei metalmeccanici

Mentre la Politica si interroga sul migliore sistema elettorale possibile i corpi intermedi si ripropongono, da diversi punti di vista, all’attenzione del Paese.

Confindustria ha detto la sua nella sua ultima assemblea rimettendo al centro del dibattito l’idea di un “Patto di scopo” come contributo importante alla soluzione dei problemi del Paese a cui seguiranno le proposte di altre organizzazioni datoriali a cominciare da Confcommercio che domani affronterà la sua assemblea annuale.

Sul fronte sindacale, va in scena, oggi, il congresso dei metalmeccanici della CISL. Anche su questo versante ci sono segnali di una rinnovata volontà di riposizionamento strategico dopo la firma dei grandi contratti che hanno dimostrato una vitalità interessante, soprattutto nel comparto industriale.

Il congresso della FEMCA CISL ha confermato la volontà di questa organizzazione di continuare a rappresentare un importante punto di riferimento nel panorama sindacale. È un comparto che, unitariamente, ha sempre avuto una vocazione riformista e ha saputo sempre trovare pragmaticamente tutto ciò che si è reso necessario per governare l’innovazione, i cambiamenti organizzativi e culturali che hanno attraversato il settore.

I suoi dirigenti in tutte e tre le organizzazioni sono sempre stati personaggi sobri, in grande sintonia con i propri rappresentati, poco disponibili a strappi e avventure. Da sempre contrappeso politico e sindacale alla esuberanza dei metalmeccanici. Fondamentale il loro ruolo nelle rispettive organizzazioni confederali.

È però indubbio che, al di là dei propri recinti organizzativi, qualcosa si sta muovendo. In tutte e tre le confederazioni. Difficile prevedere se e dove approderanno le scelte che, dopo la firma dei contratti, hanno ripreso a segnalare crepe tra la CGIL e le altre organizzazioni.

Un dato però è certo. Il congresso che si apre oggi è da seguire con interesse. Non per l’esito che è ovviamente scontato e che si concluderà con l’elezione di Marco Bentivogli come leader indiscusso della categoria ma per capire se il sindacato che verrà delineato dallo stesso Bentivogli saprà guardare oltre la categoria ponendosi come punto di riferimento per un rinnovamento sindacale di cui ne ha bisogno il Paese.

E non lo dico pensando alla sola strategia della CISL che è oggi evidentemente abbastanza difficile da decifrare come alternativa ad una CGIL che, al contrario, sembra essere in ben altra situazione ma pensando alla novità rappresentata da un sindacato che tanto ha dato (nel bene e nel male) nella costruzione del modello precedente e che oggi è in grado di contribuire in modo altrettanto importante a delineare le nuove sfide, i contenuti e le forme organizzative necessarie a realizzarli.

Dalla FIM CISL oggi ci si aspetta molto. Il loro rinnovo contrattuale, la tenuta delle intese unitarie, i tempi legati all’innovazione e ai nuovi livelli contrattuali hanno trovato un nuovo punto di riferimento sia nel sindacato sia nella rispettiva controparte datoriale. E non era facile prevederlo.

La volontà di cambiare quando si manifesta proprio laddove il cambiamento è ancora più necessario ha molte più possibilità di tradursi in fatti concreti rispetto a dove le parole servono solo a mascherare un istinto gattopardesco e di conservazione della propria poltrona. Per questo a noi spettatori non resta che il compito di augurare a Marco Bentivogli e ai suoi metalmeccanici un grande in bocca al lupo per la loro assemblea.

Abbiamo bisogno tutti che sia un momento vero, profondo e sentito di cambiamento perché è destinato a produrre conseguenze un po’ su tutto il sistema. L’asticella va alzata per ciascuno di noi. Oggi più che mai. Per questo il congresso della FIM CISL è diverso dagli altri.

Nel panorama generale a loro è assegnato il ruolo della “goccia che fa traboccare il vaso”, un atto a volte incomprensibile e inaspettato ma nel quale, è sempre nascosto ogni vero cambiamento.

ILVA tra tatticismi e strategie..

Sulla vicenda ILVA, trovo francamente inopportuno mettere sul tavolo degli accusati il sindacato come fa Goffredo Buccini sul Corriere di oggi (http://Bit.ly/2rr5WW9).

In questa fase del negoziato i diversi soggetti in campo si stanno solo mettendo in posizione. Nessuno (credo) vuole fare saltare il banco ma ciascun protagonista può essere un interlocutore credibile solo se assume una posizione di partenza chiara da cui muoversi in una logica negoziale complessa.

Lo stesso vale per Alitalia dove i sindacati confederali, pur usciti a pezzi dal referendum, rappresentano gli unici interlocutori possibili. Veramente qualcuno può pensare che l’esasperazione degli esclusi, se non governata e gestita, sia un segno di lungimiranza delle relazioni sindacali?

Qualsiasi negoziato vero prevede passaggi obbligati. Goffredo Buccini propone un approccio valutativo asimmetrico in quanto il sindacato sarebbe oggi poco credibile perché responsabile (pur non non in via esclusiva) di non aver capito per tempo né il declino né il mostro ambientale che si andava creando in quel di Taranto. Addirittura di averlo condiviso.

E, in forza di questo, dovrebbe limitarsi, in via preliminare, ad accettare qualsivoglia interlocutore per il solo fatto che si sia seduto al tavolo.

Poco importa se, in una vicenda negoziale, su alcuni aspetti molto simile, quella di Fincantieri, il Governo Francese stia surrogando addirittura il ruolo dei sindacati, cercando di capire se gli impegni sono onorabili, le intenzioni verificabili concretamente e se, questo accordo, è propedeutico ad un futuro trasferimento di know how in Cina o è in grado di garantire comunque un futuro alla cantieristica in terra di Francia.

Da noi questo aspetto di garanzia e di verifica della correttezza della strategia è interamente sulle spalle dei sindacati. Governo e istituzioni sembrano non voler esercitare questo importante ruolo da protagonista.

Almeno questo non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. Il messaggio sembra essere: “C’è stata un asta, c’è un vincitore, il piano sembra credibile (comunque senza alternative) quindi cercate un accordo e fateci sapere quanto ci costerà. E, se qualche cosa dovesse andare storto, sappiate che la responsabilità sarà interamente vostra”.

Personalmente credo che ognuno dovrebbe fare la propria parte. Il passato, purtroppo, non conta nulla, oggi. Né ha senso lo scaricabarile sulle responsabilità. Se l’ILVA può avere un futuro vero (e l’interesse delle cordate in campo sembrerebbe dimostrarlo) Il Governo non deve solo verificare se la strategia risponde all’interesse del Paese ma dovrebbe essere il garante autorevole degli impegni sottoscritti.

Piano industriale, produzioni e siti, risanamento ambientale credibile e modello di governance non sono argomenti secondari del confronto e quindi presuppongono un tempo adeguato sia in sede tecnica che politica. Poi c’è il tema drammatico degli esuberi e della loro gestione. Ed è su questo che sarebbe sbagliato ragionare esclusivamente in termini di ammortizzatori sociali in una logica assistenziale.

Dichiarare che nessun lavoratore verrà lasciato per strada come ha fatto il Governo non è sufficiente. Addirittura può essere controproducente in questa fase. Il problema c’è, chiunque è in grado di comprenderlo.

Lo sforzo che dovrà essere messo in piedi per realizzare questo obiettivo in aree disagiate come quelle in questione è enorme. Va pensato, progettato e costruito insieme. E deve prevedere, nell’accordo che si raggiungerà, tempi, modalità, interventi, responsabilità precise ed esigibili. Delle istituzioni, delle comunità locali, dell’azienda e degli stessi sindacati.

Ed è l’unico modo per evitare pesanti conseguenze sociali nei territori coinvolti. Ed è per queste ragioni che il confronto deve avvenire nei tempi e nei modi necessari.

Ed è proprio per la complessità della situazione, per i pesanti risvolti che questa vicenda può produrre (se non gestita) che occorre sostenere tutti i soggetti impegnati nel negoziato. per come ci si è arrivati, per il contesto politico, territoriale e sociale, per gli interlocutori in campo la vicenda ILVA può veramente essere un terreno vero di sperimentazione innovativa sulla governance, sulle relazioni industriali e sulla gestione delle conseguenze attraverso un piano sociale di grande qualità.

L’importante è non iniziare delegittimando i soggetti in campo. Sarebbe un errore inutile e imperdonabile.

ILVA! Il futuro, gli esuberi e le soluzioni da condividere

È vero che negli ultimi vent’anni le ristrutturazioni aziendali hanno sempre comportato tagli ed esuberi. È sempre stato così e verrebbe da concludere che aziende come Alitalia o ILVA non possano sfuggire, più di tanto, a queste logiche.

Peraltro i media, oggi, insistono sulla ineluttabilità delle conseguenze occupazionali. L’alto numero degli esuberi viene presentato come inevitabile da entrambe le cordate interessate all’acquisto dell’ILVA e questo non può non provocare la reazione preoccupata delle comunità locali coinvolte e quindi dei sindacati.

Certo il negoziato con i rappresentanti dei lavoratori potrà ridurne il numero e gli ammortizzatori individuati potranno distribuirne gli effetti sociali nel tempo. Un punto però resta ineludibile.

Migliaia di persone dovranno rimettersi in gioco indipendentemente dalla loro età, dalla loro professionalità e dalla possibilità o meno di reimpiegarsi sul territorio. Un negoziato tradizionale, in genere, dopo aver trovato una sintesi sul numero degli esuberi si occupa quasi esclusivamente di chi resta. Spesso tralasciando la gestione di quanto concordato.

Credo che, questa volta, per la situazione occupazionale dei luoghi coinvolti, per la storia di quelle realtà produttive, per la particolare tipologia di lavoratori lo sforzo per individuare soluzioni praticabili dovrebbe essere molto più complesso.

Partiamo dai fatti. Il Ministro Calenda oggi avverte: “Non ci saranno rilanci”, quindi il perimetro delle possibili soluzioni è quello individuato con l’asta. Entrambe le cordate non sono posticce. Comprendono un giusto mix che dimostra un interesse reale al mercato potenziale. Quindi al prodotto.

L’obiettivo, almeno per il sindacato e le comunità coinvolte, non è l’accordo. Questo è solo il mezzo. L’obiettivo è dare un futuro al lavoro e all’impresa. Ai sindacati e all’azienda stabilire se questa intesa deve essere nel solco delle ristrutturazioni gestite fino ad ieri o la prima di segno nuovo.

In questo caso occorrerebbero tre caratteristiche (irrinunciabili). Innanzitutto il livello di coinvolgimento e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori dalla fase dei sacrifici occupazionali (certi) al rilancio da costruire, insieme.

Nessun via libera senza condizioni. Il percorso deve essere condiviso. Sia nella strumentazione che nel governo delle fasi. Come e fino a che punto sarà compito delle parti stabilirlo. In secondo luogo le garanzie sul futuro dei siti dovrebbero essere almeno pari a quelle concordate dal Governo francese con Fincantieri.

E su questo punto il coinvolgimento e l’impegno del nostro Esecutivo sarà fondamentale. In terzo luogo la gestione degli esuberi. Non è solo un problema di numeri. Occorre che la cordata vincente, il Governo, i territori coinvolti costruiscano un percorso condiviso che ha come obiettivo non la CIGS in sé ma il ricollocamento di tutti gli esuberi.

Come? Innanzitutto coinvolgendo tutto l’indotto. In tutti gli accordi di fornitura o subfornitura dovrebbe essere introdotta l’attenzione necessaria al tema. L’azienda si deve impegnare ad incentivare chi, nel territorio, assume i propri esuberi o direttamente o indirettamente.

Occorre uno sforzo formativo eccezionale la cui regia andrebbe assegnata all’ANPAL ma che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che sono in grado di portare soluzioni concrete. Così come le associazioni imprenditoriali locali dovrebbero favorire questi percorsi di ricollocamento, condividendoli e proponendoli ai loro associati.

Lo stesso Governo dovrebbe “pretendere” una maggiore assunzione di responsabilità della cordata vincente sulla scorta, ad esempio, delle proposte che Tommaso Nannicini ha recentemente esposto. Per queste ragioni la vicenda ILVA, ma non solo, non andrebbe vista solo da un punto di osservazione tradizionale. Occorre interrompere un circolo vizioso e individuarne uno virtuoso. Pur nelle difficoltà di una svolta dolorosa e necessaria.

Credo che su questo temi come la “corresponsabilità” o, rubando l’idea al Presidente di Confindustria Boccia, di un “Patto di scopo” centrale e territoriale potrebbe costituire un nuovo inizio di un percorso che cerca di cambiare le tradizionali regole del gioco, innovandole e sperimentandole.

Voucher: come farsi del male da soli…

Fortunatamente le mises delle signore al G7 occupano abbondantemente gli spazi sui media attutendo le dichiarazioni da fine del mondo che sottolineano come, sui voucher, si stia consumando una tragedia nazionale.

Addirittura Il nostro Governo, impegnato a Taormina a contribuire ad individuare mediazioni su temi da cui dipendono i destini del mondo rischia di cadere sull’argomento. Ennio Flaiano ci confermerebbe che, da noi, la situazione resta grave ma continua a non essere seria.

I fatti
1) I vecchi voucher coprivano lo 0,23% del totale del costo del lavoro. Quindi un mezzo legale nella regolamentazione del lavoro occasionale.
2) Un singolo committente poteva pagare una persona per max 2000 euro, che diventano 3000 nel caso che qualcuno fosse in mobilità o in cassa integrazione.
3) Un lavoratore, mettendo insieme più committenze, poteva arrivare ad una remunerazione di 7000 euro.
4) Sul totale dei beneficiari, oltre 1 milione di questi non riceveva più di 500 euro all’anno. Più della metà di loro era composta da persone già occupate (37%), e che integravano il proprio reddito coi voucher, da pensionati o indennizzati in altro modo (26%).
5) Su un totale di un milione e trecentomila lavoratori pagati coi voucher, il 70% di questi era dato da persone per le quali i voucher rappresentavano un’integrazione al reddito.
6) Tutti gli studi hanno evidenziato che dietro alla crescita dei voucher non c’è stato un calo dei posti di lavori. Addirittura nel turismo e ne servizi, dove si era sviluppato maggiormente il fenomeno dei voucher, l’occupazione subordinata era cresciuta.
7) Ci sono stati abusi? Si. Però nessuno era contrario né a individuarli né a trovare la modalità per eliminarli.

Questi i fatti che porterebbero un Parlamento in un Paese normale ad individuare soluzioni adeguate, creare strumenti idonei e controlli efficaci. Da noi no. Occorre drammatizzare.

Presidi davanti alle Prefetture, parole d’ordine che ci fanno assomigliare ad un Paese sudamericano sull’orlo di un colpo di stato, Parlamento in subbuglio, Governo ad un passo dalla crisi. Non sull’evasione fiscale, non sull’iniquità della legge Fornero, non sulla piaga del lavoro nero. Sui nuovi voucher.

Che cosa è successo e di chi sono le responsabilità della situazione? La CGIL aveva raccolto tre milioni di firme per indire un referendum che richiedeva anche l’abolizione dei voucher. Era ed è un suo diritto farlo. Il Governo avrebbe dovuto fissare la data e lasciare che il Paese decidesse.

Considerazioni di carattere politico hanno spinto il Governo stesso a abolire l’oggetto della contesa e a promettere un nuovo strumento idoneo a rispondere al vuoto normativo che si sarebbe inevitabilmente creato.

Tutto questo in un Paese normale non avrebbe avuto alcuna conseguenza drammatica. La CGIL avrebbe confermato il suo dissenso, il Parlamento però sarebbe stato in grado di approvare una nuova legge in grado di rispondere alle esigenze di alcuni settori economici e, contemporaneamente, di evitare abusi e fraintendimenti di utilizzo. Con buona pace della CGIL che rappresenta una parte importante ma non l’intero Paese. Questo, dicevo, in un Paese normale.

Quindi non da noi. I cespugli alla sinistra del PD, gli scissionisti e parte della sinistra interna al Partito di maggioranza non aspettavano altro. E così siamo arrivati al dramma.

Una legge è necessaria, probabilmente la si farà nel peggiore dei modi costringendo il Governo a porre la fiducia sull’argomento. Lo spettacolo però è andato in scena.

Tutti hanno così recitato la loro parte in commedia. Siamo ai titoli di coda. Ecco. Fino a quando un  Paese normale può reggere tutto questo?

 

Confindustria. Il rischio di sprecare un’altra occasione

Il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia doveva, nella loro assemblea annuale, riproporre il ruolo di guida della sua associazione dopo il referendum, ritornare in campo dopo mesi di assenza propositiva e rilanciare le aspettative che aveva creato al momento della sua nomina.

Contemporaneamente doveva anche dimostrare di aver ripreso una sostanziale autonomia di azione dal Governo dopo l’esperienza non certo particolarmente felice che ha portato Confindustria ad identificarsi con il Premier Renzi, più che a stimolarne l’iniziativa, travalicando così il compito di una grande organizzazione datoriale. 

La presenza e l’intervento del Ministro Calenda, l’avvicendamento di Renzi con Gentiloni, hanno consentito certamente al Presidente Boccia di smarcarsi dal Governo ma non sono riusciti a rimettere al centro della scena Confindustria che,  inevitabilmente, stenta a riposizionarsi non per sue responsabilità ma per la minore centralità della manifattura nazionale, delle sue logiche e delle sua capacità di competere nella globalizzazione. Soprattutto della sua difficoltà a identificarsi e farsi identificare con il Paese.

Quello che nel 900 ne ha rappresentato il suo punto di forza e di condizionamento nei confronti dell’intera comunità nazionale oggi non è più sufficiente a renderla centrale, autonoma e propositiva in nome e per conto di tutto il fronte imprenditoriale.

E questo limite è emerso in tutta la sua evidenza nella relazione oscurata inevitabilmente dal Ministro Calenda che, oltre ad essere, più di un invitato politico a questa kermesse ha dimostrato di saper proporre una visione che va ben oltre gli sgravi contributivi per i giovani o il patto di fabbrica che rischia comunque di non decollare perché continua a non avere un’anima convincente per i sindacati confederali.

Bene il “Patto di Scopo” se sarà raccolto dagli altri interlocutori a cui è stato proposto. Ottima la proposta di ridare centralità ai giovani su cui è certamente importante investire. Limitarsi però a proporre uno sgravio contributivo non è però più sufficiente.

Il fallimento degli sgravi previsti sulle assunzioni dal Governo Renzi è ancora lì che pesa come un macigno. Il punto è che l’industria non assume. È probabilmente non assumerà.

Per la crisi, per l’incertezza a lanciare progetti e investimenti, perché la ripresa economica, in quel settore, non prevede una ripresa dell’occupazione. Quindi chiedere sgravi una tantum non può bastare.

Occorre mettere in campo nuove idee che impegnino in prima persona le imprese con la scuola, attraverso l’alternanza e l’apprendistato e che ne favoriscano il coinvolgimento a livello territoriale.

La vera domanda che è rimasta senza risposte è: cosa sono disposte a fare le imprese, sul serio, per i giovani? Non limitandosi a chiedere la riduzione dei costi di ingresso. Non è più sufficiente. Mancano impegni veri. In prima persona.

Poi esiste un serio problema di cuneo fiscale che va affrontato ma, come ha sostenuto lo stesso Boccia, vale per tutti. Altrimenti per le imprese in tutti i settori, i costi e il fisco continueranno a mettere solo solo piombo nelle ali.

Infine il “Patto di fabbrica”. Continua ad essere un oggetto misterioso. Soprattutto dopo la firma dei contratti nazionali nel settore industriale. La scelta delle federazioni datoriali di scommettere sulla contrattazione aziendale rischia di rendere superfluo il timbro confindustriale.

O meglio ne alza il costo e i contenuti per l’accordo con le confederazioni che non credo, vogliano riservarsi un semplice ruolo di notai.

Il tema centrale è il livello di “corresponsabilità” su cui la presidenza Boccia vuole impegnare se stessa e le imprese associate e fino a che punto una intuizione strategica (importante) ha senso giocarla in coda ai rinnovi contrattuali e non in premessa ai futuri.

E, infine, fino a che punto questo patto proposto, di natura evidentemente neo corporativa, non collida con una esigenza opposta, propugnata ad esempio dalla CGIL, di individualizzazione delle tutele (o dei diritti) e di superamento (in parte) del luogo di lavoro come elemento esclusivo e di confine negoziale riportando inevitabilmente al centro un ruolo, nuovo e da ripensare, del territorio e delle rispettive associazioni.

È chiaro che non è facile entrare in partita nei supplementari, avere una visione di gioco unitaria, saperla proporre ad una squadra ricca di grandi nomi (forse un po’ decaduti) ma anche di gente concreta e vogliosa di fare che si è riconosciuta in Boccia per le sue qualità di imprenditore, per la dimensione della sua impresa e per la necessità di affrancarsi da un mondo e da una cultura che ha fatto il suo tempo. Adesso il neo presidente di Confindustria deve però portare qualche risultato concreto.

Essersi identificato con troppa enfasi con il Governo Renzi, lo scivolone sull’IVA e la perdita di primazia sulle materie del lavoro necessitano un colpo d’ala per cercare di rientrare in gioco e non seguire così il declino inarrestabile che sembra aver colpito anche tutte le altre Associazioni industriali nel resto d’Europa.