Il curriculum e le iperbole del Ministro. Calcetto a chi?

Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.

È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.

Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.

Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.

Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.

Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.

Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.

Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.

E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.

E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.

Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.

È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.

Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.

L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.

Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.

Quale ruolo per le organizzazioni di rappresentanza in ottica industry 4.0?

Mi sono spesso domandato quale potrà essere, in ottica industry 4.0, lo spazio di azione in azienda, per i sindacati. Nel terziario, già oggi è minimo.

In parte per l’approccio e la cultura dei sindacalisti di settore, in parte perché, la stragrande maggioranza delle aziende non ha, né una storia di relazioni sindacali né di condivisione collettiva delle problematiche aziendali come in altri settori.

Le relazioni sindacali nel terziario, quando ci sono, sono generalmente esterne all’azienda attraverso gli enti bilaterali e le associazioni di rappresentanza. Gli stessi lavoratori si rivolgono ai sindacati solo a fronte di problemi specifici seri durante il rapporto di lavoro o alla sua conclusione.

Se escludiamo la Grande Distribuzione, che è la più legata a modelli organizzativi di derivazione fordista, nella stragrande maggioranza delle aziende del terziario il contratto nazionale viene rispettato nei minimi retributivi e in quelle norme generali applicabili al contesto specifico. Per il resto è lasciato alla gestione aziendale costituita dalla cultura interna, dall’organizzazione e dai modelli di gestione e sviluppo delle risorse.

Il singolo individuo vi si rapporta attraverso il proprio responsabile o, nelle aziende più strutturate, anche attraverso la direzione risorse umane. Nelle più evolute (quindi più vicine al contesto industry 4.0) il clima interno è generalmente monitorato attraverso vari strumenti (indagini di clima, KPI, ecc.) , la comunicazione è costante (capo/collaboratore, eventi, comunicazione, ecc.), i sistemi di valutazione e sviluppo professionale efficienti (formazione, assessment, valorizzazione del contributo individuale al business, ecc.) e infine, i riconoscimenti economici sono ben collegati ai risultati e all’andamento aziendale. Forme di welfare interno o contrattuale e benefit specifici completano il quadro.

Il rapporto è quindi personalizzato, le contropartite sono chiare così come sono chiare le possibili conseguenze negative. È un rapporto di partnership, che non prevede fedeltà né che duri per sempre. Da entrambe le parti. Ed è un modello che, ormai, tende a coinvolgere tutti. Non solo i manager dell’azienda.

Nel senso che, anche chi ne dovesse essere escluso, per ruolo o per seniority, sa quali sono le regole del gioco e le opportunità che possono e devono essere colte. E sa anche che, prima o poi, se non entra nel meccanismo, il suo contributo potrebbe essere messo in discussione. La contrattazione aziendale è praticamente inesistente perché tutto ciò che va oltre il CCNL è gestito unilateralmente dall’azienda. Né potrebbe essere diversamente.

Detto tutto questo che, a mio parere, spiega la differenza tra un modello contrattuale (quello manifatturiero) che è sempre stato costruito intorno ad un approccio collettivo e che ha “subìto” la gestione personalizzata rispetto a quello, tipico nel terziario, che viene costruito intorno alla personalizzazione del rapporto salvo utilizzare una base collettiva (il CCNL relativo) esclusivamente come punto di riferimento generale. Il punto è che tutto funziona fino a quando i confini applicativi e di categoria restano chiari, evidenti. Meno quando non hanno più ragione di esistere. Ed è questo il futuro che ci aspetta.

Il lavoro, che lo si voglia o meno, tenderà a polarizzarsi. Da una parte quello povero che sarà trasversale nei servizi alle imprese, nella GDO, nell’agroalimentare, nella logistica, nell’industria ma anche nelle start up (se, una volta per tutte, decidessimo di uscire dalla retorica che le accompagna).

Dall’altra quello di maggior contenuto professionale che coinvolgerà tutti i settori e renderà superflui le tipologie contrattuali utilizzate fino ad oggi, i confini di inquadramento, i modelli retributivi. E tutto questo non è materia delle singole imprese e non sarà materia da affrontare in un futuro remoto.

Industry 4.0 è un’occasione. È una opportunità per ridisegnare un percorso che non sarà breve ma deve andare nella giusta direzione. Per questo non credo che il problema sia legato semplicemente ai luoghi della contrattazione.

Le aziende sono cambiate profondamente mentre il modello contrattuale, i contenuti proposti, il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza è rimasto sostanzialmente lo stesso. Sono stati trovati degli adattamenti che, via via, stanno scontentando un po’ tutti.

Per questo, c’è chi pensa (forse troppo sbrigativamente) che un semplice spostamento a livello aziendale possa risolvere il problema. Non sarà così. Anzi. Il contratto del terziario è lì a dimostrare una strada diversa, che può piacere o meno.

È però molto interessante per le imprese che pur rispettando il CCNL di riferimento possono muoversi con maggiore rapidità ed efficacia. Non è un caso che un terzo delle aziende iscritte ad Assolombarda preferiscano il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio rispetto ai rispettivi contratti di categoria.

L’altro versante è rappresentato (schematicamente) dal contratto dei metalmeccanici che ha disegnato un percorso diverso dove il sindacato è disponibile ad affrontare in un contesto di reciprocità tutti i problemi sul tappeto delle imprese ma anche dei lavoratori in un contesto sicuramente collettivo. 

Quello che è certo è che non si arriverà ai prossimi rinnovi senza aver messo mano ad un nuovo modello contrattuale (assetti, contenuti e luoghi). E questo vale per tutti.

Alitalia tra tre fuochi…

Com’era prevedibile la vicenda Alitalia si trova di fronte alla sua principale contraddizione. Machiavelli avrebbe detto: “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Questo è il punto.

Alitalia è un’azienda privata così come lo sono quasi tutte le grandi aziende italiane. A differenza che altrove il vezzo di tentare sempre “privatizzare gli utili e socializzare le perdite” non sembra essere ancora stato accantonato.

Quindi i soggetti in campo, come nel 900, sono tre. Non due come dovrebbe essere normalmente. Gli azionisti, il Governo e i dipendenti attraverso i sindacati che li rappresentano.

Dietro le quinte i creditori che premono per un piano che consenta loro di recuperare le risorse investite e le autorità europee che vigilano sui contenuti di un eventuale accordo che non deve configurarsi come aiuti di Stato.

Un rompicapo di difficile soluzione. Il piano industriale presentato è stato evidentemente ispirato dai creditori che, se dovessero decidere di staccare la spina, porterebbero al fallimento della società con gravi danno per loro ed a un costo, per le finanze pubbliche, non inferiore ai dieci miliardi di euro.

Questo determina la sgradevole coincidenza dei punti di forza e di debolezza di tutti i negoziatori intorno al tavolo. Ciascuno sa che può tirare la corda ma ne conosce anche il prezzo nel caso dovesse spezzarsi.

Per un negoziato è la situazione più difficile. Nessuno può permettersi di vincere ma tutti devono rispondere in modo trasparente del loro operato. L’azionista se non punta al fallimento della compagnia ma, al contrario, al rifinanziamento del debito e ad una riduzione di costi, alza il prezzo sperando di lasciare un margine di mediazione al Governo. I sindacati non possono, almeno in questa fase, non puntare ad una modifica del piano che ne sottolinei lo sforzo e il ruolo, i creditori, dal canto loro, possono fare forti pressioni ma non hanno alternative praticabili.

I fatti, ad oggi, vanno esattamente in questa direzione. Il CEO Cramer Ball ha assicurato la «piena disponibilità» a lavorare con i sindacati e il futuro Presidente Luigi Gubitosi ha confermato, a sua volta, l’impegno a fornire tutti i dettagli necessari. Le stesse dichiarazioni tranquillizzanti di Ball sulla crescita del lungo raggio e che due terzi dei tagli non sono di costo del lavoro vanno in questa direzione.

I sindacati hanno respinto la prima versione del piano dichiarando lo stato di agitazione ma hanno aderito ai tavoli tecnici con disponibilità ad entrare nel merito. il Governo, dal canto suo, si è mosso in modo corretto sgombrando il campo da ipotesi fantasiose di possibile pubblicizzazione della compagnia e assegnandosi un ruolo di facilitatore del negoziato.

Soprattutto evitando di dare giudizi sommari sul piano. Tutte queste mosse erano prevedibili e inevitabili. Il difficile viene adesso. Le carte messe sul tavolo dall’azienda sono indubbiamente insufficienti e sembrano finalizzate solo a prendere tempo. La soluzione non è nel piano presentato. In quelle determinazioni, al massimo, ci sono sono solo le precondizioni economiche, politiche e sociali.

Alitalia può essere ancora ripensata sia in chiave di alleanze continentali win win che di potenziali nuovi business legati al turismo di domani? Ma se così fosse,  i soggetti seduti a quel tavolo sono gli interlocutori autorevoli di cui ci sarebbe bisogno? Credo di no. Il punto sta qui perché solo in questo potrebbe risiedere una possibile scommessa per il suo futuro.

Purtroppo lo stesso piano strategico del turismo (2017-2022) non prevede nulla a riguardo. Quindi non c’è nulla di concreto da mettere sul tavolo del negoziato.

Per questi motivi temo che il destino di questa azienda rischia di essere già scritto: una lunga agonia in attesa di un compratore finale che sappia integrarla semplicemente con il proprio business.

Cosa che non è riuscita ad Ethiad e agli attuali soci. L’importanza della vertenza Alitalia è fuori discussione. Nessuno può permettersi che degeneri socialmente, che fallisca o che venga caricata sulle spalle di un Paese che non può permetterselo. Questo i negoziatori di entrambe le parti lo sanno benissimo. E lo sa anche il Governo.

In passato sarebbe bastato creare un nuovo carrozzone e finanziarlo all’infinito. Salvare cosi capra e cavoli. Oggi quella opzione non è praticabile. Per questo Alitalia è tra tre fuochi. E non si spegneranno da soli..

Il rischio di scambiare una battaglia di retroguardia per la guerra

La CGIL ha vinto la sua battaglia sui voucher e ha ritrovato una nuova unità interna propedeutica alla gestione unitaria congressuale e al suo riposizionamento sociale.

Come ho sempre sostenuto, chi ha parlato di leadership debole di Susanna Camusso, era fuori strada. Aveva ereditato una CGIL isolata politicamente e sindacalmente, scavalcata a sinistra dalla FIOM e a destra da altre importanti categorie e con un gruppo dirigente a fine corsa. È indubbio che la situazione, oggi, sia profondamente cambiata.

Adesso può legittimamente rilanciare la sua iniziativa provando ad uscire definitivamente dall’angolo dove la fine della stagione dei rapporti di forza favorevoli sul campo e degli accordi separati l’avevano in qualche modo confinata. Cisl e Uil confederali stanno accusando il colpo nel senso che non sembrano in grado di reagire propositivamente.

Tutto questo, però, porta con sé delle conseguenze. Essere corteggiati quasi esclusivamente dalla sinistra interna del PD e dagli scissionisti non può certo bastare alla CGIL anche perché oggi l’opposizione politica e sociale, quella vera, è ormai dislocata politicamente altrove e lo sarà a lungo e, nella quasi totalità delle aziende, tra i lavoratori occupati, c’è un indebolimento complessivo del messaggio sindacale generale.

Il rischio di essere ritornati al centro, si, ma del “nulla” è molto forte.

Confindustria è in difficoltà per diverse ragioni e questo ha lasciato il campo all’iniziativa delle federazioni nei singoli comparti economici. Federalimentare ha già segnalato la volontà di giocare le sue carte. Federmeccanica, dal canto suo, ha tirato fin dall’inizio la sua volata rendendo residuale il ruolo della casa madre sul cosiddetto “patto di fabbrica” trovando in FIM, FIOM e UILM solidi interlocutori. I differenti contratti nazionali hanno proposto strade diverse. Tutte andate a buon fine.

L’impressione è che il “rinnovamento” contrattuale si possa diffondere, pur in differenti modalità, in tutte le categorie più importanti seppure in modo differenziato.

Sul versante del terziario il contratto firmato da Confcommercio si presta, per come è stato concepito, a ulteriori adattamenti. La stessa neutralizzazione dell’ultima tranche in pagamento per oltre tre milioni di lavoratori, come misura concordata tra le parti, rappresenta una dimostrazione evidente di capacità di adattamento all’evolversi della realtà.

I contratti che mancano all’appello in questo comparto sono il frutto più di inesperienza negoziale delle controparti datoriali che da distanze ideologiche con i sindacati di categoria quindi, prima o poi, sono destinati a trovare una loro conclusione.

Per questo la vicenda mal gestita da tutti sui voucher, il cui epilogo è stato determinato più dal dibattito interno al PD che dal problema in sé, può innescare delle conseguenze che, se non gestite, rischiano di paralizzare l’iniziativa sindacale e quindi il sistema delle relazioni industriali nei prossimi mesi.

La CGIL faticherà a proporsi, da una parte, con un atteggiamento moderato nei differenti comparti economici nella contrattazione aziendale e di categoria e, dall’altra rivendicare una forte intransigenza sulla sua “carta dei diritti” incalzando le altre organizzazioni confederali proprio dove sono oggettivamente più deboli. Il rischio è che le contraddizioni esplodano riportando il sistema alla stagione della competizione e degli accordi separati anche in considerazione del possibile mutamento del quadro politico prossimo venturo.

Inoltre questo atteggiamento difficilmente potrà essere accettato dalle imprese. Alle aziende, il contesto e i vincoli che si creano a livello generale, pesano tanto (se non di più) di quanto siano soggettivamente disposte a concedere in termini di “rinnovamento” e di partecipazione. Qui sta il punto.

Cisl e Uil, sempre a livello confederale, non sembrano in grado di sottrarsi da questa morsa. Il “balbettio” sui voucher è lì a dimostrarlo.E posizionarsi come alternativa sociale al grillismo, da parte della CGIL, di questi tempi avrebbe l’unica conseguenza di tirar loro la volata.

Il Paese è indubbiamente stanco di narrazioni mirabolanti. Questo è vero. È però preoccupato per un futuro incerto, e si sente sempre più schiacciato economicamente verso il basso. Nelle imprese stesse si sta diffondendo la convinzione che il 2017 non migliorerà nulla nei fondamentali economici e che il Governo poco farà di positivo.

Ma a questa deriva non si risponde accompagnandola quasi fosse ineluttabile. A mio parere c’è solo una strada possibile. Se il sindacato, tutto il sindacato, non vuole essere risucchiato in un contesto che rischia di essere sempre più ingestibile deve rilanciare l’iniziativa sul “patto per il Paese”. Non c’è alcuno spazio fuori da questa opzione.

Per chi è nel mondo del lavoro, oggi, la priorità è restarci. Per i giovani è, al contrario, entrarci. Per gli altri è, quanto meno, di disporre di un reddito comunque costruito e della possibilità di rientrare in gioco prima possibile.

Le risposte a questi problemi, però, non si trovano ritornando ciascuno sui propri passi. Si trovano solo facendosi carico, con grande generosità, di un futuro da condividere e nel quale sapersi anche disegnare un nuovo ruolo. Ovviamente molto dipenderà anche dalle organizzazioni datoriali e dalla loro capacità di proposta. Ma molto dipenderà anche da chi, in tutto il sindacato confederale, è chiamato ad individuare una rotta alternativa. CGIL compresa.

Di Dumping Contrattuale si muore…

L’apparenza spesso inganna. Da quanto si legge sui quotidiani  Confindustria insiste per sottoscrivere con i sindacati confederali un testo sui servizi innovativi come primo passo nel percorso che mira a concludersi, entro il mese di maggio, sugli assetti contrattuali.

Molte aziende, ed è cosa nota, pur continuando ad essere associate a Confindustria, applicano da tempo  il contratto nazionale del terziario di Confcommercio ritenendolo più rispondente a proprie esigenze specifiche e questo senza alterare equilibri contrattuali consolidati interni all’impresa stessa.

Confindustria, sia per questioni di rappresentatività ma soprattutto per evidenti ragioni di marketing associativo, spinge per ottenere  per sé un risultato specifico  propedeutico all’accordo generale.

È lo stesso spirito che ha spinto parecchio tempo fa, Federdistribuzione a “pretendere”, per il proprio perimetro associativo, una soluzione analoga. Un contratto nazionale specifico che, a prima vista, poteva rappresentare la soluzione ideale.

Gli stessi sindacati di categoria allora hanno vissuto quella richiesta come utile e possibile. Addirittura l’hanno preceduta e accompagnata inviando una piattaforma unitaria identica (più o meno) a quella di Confcommercio. Il risultato è stato però, fin dall’inizio, disastroso.

Ad oggi, le aziende che hanno deciso di applicare il contratto Confcommercio subiscono da mesi una situazione di dumping dai concorrenti che si riconoscono nella posizione espressa da Federdistribuzione mentre i loro dipendenti continuano a non aver nessun contratto. Le autorità ministeriali preposte al controllo e alle ispezioni non si muovono (opportunisticamente) sperando che la situazione evolva positivamente mentre i sindacati di categoria non riescono a sbloccare nulla per le evidenti difficoltà di mobilitazione dei lavoratori.

Lo stallo è così assicurato. Nel frattempo le singole aziende si “godono” il dumping se schierate da una parte o, al contrario, ne subiscono le conseguenze, se hanno deciso di applicare il Contratto nazionale firmato da Confcommercio.

Che lo si voglia o meno, qui sta il punto. Le aziende, oggi, non si muovono più in una logica puramente associativa. Applicano o non applicano ciò che ritengono più conveniente per il loro business a prescindere dai sistemi regolatori  predisposti dalle organizzazioni di rappresentanza. Quindi una cosa è la declinazione aziendale del “patto di fabbrica” (peraltro in linea con i rispettivi contratti nazionali già firmati) con possibili deroghe dal CCNL di categoria specifiche e contrattate, un’altra è la inevitabile “gara” al ribasso tra contratti nazionali diversi, pur sempre applicabili, in base alla convenienza di una delle due parti.

È indubbio che i sindacati confederali si trovano di fronte ad una scelta difficile. Stabilire confini applicativi sulla scorta dell’attuale regolamentazione lasciando libere le singole categorie, optare per nuove aggregazioni (ad esempio: industria, terziario, agroalimentare da cui far discendere deroghe e specificità ai livelli sottostanti), oppure subire l’idea che ogni azienda  fa un po’ ciò che gli pare in base alle proprie convenienze e ai rapporti di forza che riesce a mettere in campo.

Per questo il confronto in atto tra le sigle confederali e Confindustria non è secondario e scevro da conseguenze a catena sugli assetti contrattuali futuri  non solo del settore industriale. Quindi ben al di là delle esigenze specifiche.

Probabilmente, se guardiamo solo a dieci anni, le aggregazioni associative di entrambe le parti costruite nel novecento non avranno più ragione di esistere nelle forme conosciute fino ad oggi. Evolveranno e si semplificheranno inevitabilmente. Sicuramente questo avverrà sul tema del lavoro per la caduta delle differenze settoriali, le inevitabili evoluzioni del contesto sociale, degli stessi contenuti normativi, delle modalità delle prestazioni, della formazione necessaria e del welfare collegato.

Ma ragionare sul futuro è cosa molto difficile quando i rispettivi apparati spingono per soluzioni apparentemente più semplici.

Enzo Bianchi ci ricorda sempre  che: “Sovente costatiamo che il mondo non cambia mai. Tuttavia continuiamo a credere e sperare che val la pena di tentare e ritentare di cambiarlo”. Ognuno nel suo ambito. Questo penso sia l’auspicio che ci dovrebbe sempre guidare.

Lavoro, si. Ma come?

Nell’interessante relazione di Matteo Renzi al Lingotto il tema del lavoro non ha avuto il rilievo e la visione che, a mio parere, dovrebbe avere per un Partito come il PD.

Catastrofisti di professione e innovatori acritici hanno sempre condizionato, ciascuno a modo loro, il dibattito su questo tema lasciando il campo libero a chi prometteva che, il semplice intervento sul versante delle regole, avrebbe rimesso in moto un circolo virtuoso in grado di creare lavoro e mettere di conseguenza in soffitta vecchie teorie e rigidità conseguenti.

Nel nostro Paese, più che altrove, occorre aggiungere che la fragilità propositiva e di iniziativa delle parti sociali, unitariamente intese, ha contribuito ad impedire l’apertura di un confronto costruttivo a tutto campo sul futuro dell’impresa e del lavoro, della scuola, sul reddito disponibile, sulla quali/quantità del lavoro e sulla sua distribuzione.

L’unica cosa su cui (purtroppo) si sono tutti trovati d’accordo, pur muovendo da posizioni ed esigenze differenti, è stata la negazione di ciò che alcuni sociologi, economisti e giuslavoristi (Marco Biagi in particolare) avevano cercato di porre all’attenzione del mondo politico soprattutto di sinistra: il cambio di paradigma in atto e la necessaria revisione di tutta una impostazione sempre più inefficace.

E così, politica, aziende e sindacati si sono continuati a muovere su binari paralleli interpretando autonomamente le reciproche esigenze incontrandosi solo per gestire le conseguenze di quelle che erano ritenute “solo” crisi di singole, seppur importanti, realtà aziendali e degli strumenti per affrontarle. Oppure limitandosi a rimuovere semplici aspetti regolatori scambiando il dito con la luna.

L’assurdo è che, mentre crescevano nella società paure e disagi profondi soprattutto tra le nuove generazioni e in chi, espulso dal lavoro, non riusciva a rientrarci, il dibattito è diventato lontano, quasi surreale. Tutto rinchiuso tra gli addetti ai lavori o confinato mediaticamente su di un pallottoliere attraverso il quale, ogni giorno, venivano contati e rappresentati i successi o gli insuccessi della politiche occupazionali nel disinteresse generale.

Il referendum del 4 dicembre ha suonato la sveglia per tutti. Soprattutto per chi ha creduto possibile un cambiamento profondo del Paese prescindendo dal consenso necessario. O limitandosi ad interpretarlo. Senza consenso si possono fare prelievi forzati sui conti correnti, aumentare le tasse o modificare d’autorità il sistema previdenziale ma non si può cambiare il Paese. Né gettare le basi per poterlo fare. Questa è la vera lezione del 4 dicembre. Almeno secondo me.

Per questo un partito come il PD non può limitarsi a ribadire l’impegno verso l’art. 1 della nostra Costituzione. O limitarsi a rilanciare la filosofia del Jobs Act contro (tra l’altro) ad una buona parte del proprio elettorato. Dovrebbe sapere andare oltre.

Ben ha fatto il candidato segretario a rimettere al centro la scuola e l’alternanza scuola lavoro ma sul lavoro la posizione resta debole. Astratta.

Non si parla di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, di condivisione dei rischi e delle opportunità nelle imprese e nelle filiere economiche e produttive, di partecipazione dei lavoratori, di merito, di nuovo welfare, di diritti e di doveri. E non solo per i lavoratori. Anche per le imprese.

In un anno nel nostro Paese vengono spediti (inutilmente) oltre 140 milioni di CV. Come rispondere a fenomeni ed esigenze nuove di queste dimensioni? Solo a Bordeaux sono almeno 700 i bikers consegnatari. La CGT sta cercando di organizzarli. Quanti dovranno essere qui da noi prima che qualcuno affronti il problema in modo organico? Così come le nuove forme di lavoro autonomo indotte o create dalla rete. È sufficiente esaltarne le potenzialità senza farsi carico delle conseguenze? Altri, in altri Paesi, stanno cercano di gestire queste situazioni.

E quale dovrà essere il rapporto con le istanze del sindacato o con l’insieme delle rappresentanze sociali, anche datoriali? Soprattutto di quelle rappresentanze che cercano di interpretare l’innovazione e il cambiamento. Passare dall’io al noi è importante solo se il “noi” crea un ponte con il resto della società e dei soggetti che già vi operano con una discreta sintonia con le persone e i territori e con cui si devono condividere problemi e soluzioni all’interno di un operazione di verità e di trasparenza.

Non basta accorgersi di essersi ritrovati improvvisamente lontani dalle periferie o dalla concretezza dei problemi delle persone come hanno fatto alcuni esponenti rimasti o usciti da poco dal Partito Democratico. La visione nasce da questa consapevolezza. Altrimenti restano solo parole.

Riforma dei modelli contrattuali e ruolo delle parti sociali

Recentemente Paolo Pirani, segretario generale della UILTEC, ha dichiarato che, a suo parere, non serve più concludere la trattativa con Confindustria sulla riforma dei modelli contrattuali perché la stessa sarebbe già, di fatto, avvenuta con i rinnovi dei singoli settori industriali.

Pirani da per scontato ciò che, però, non lo è affatto. E cioè che gli impegni reciproci contenuti in ogni contratto settoriale troveranno, nella fase di gestione, l’equilibrio e la spinta innovativa necessari.

Per quanto mi riguarda continuo a pensare che un nuovo modello contrattuale non può limitarsi a riproporre uno schema che ha mostrato tutti i suoi punti deboli sia nei contenuti che nelle liturgie collegate. Occorre ripensarlo guardando in avanti.

Alcuni argomenti sono, per loro natura, materie di competenza confederale. Il peso della rappresentatività delle parti e le regole dei rinnovi, i confini applicativi e la titolarità di ciascun contratto, i livelli negoziali, i rispettivi contenuti e le eventuali derogabilità. Lo stesso welfare occorre consolidarlo su masse critiche ben più consistenti di quelle di oggi. L’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confcommercio va sostanzialmente in questa direzione.

Visto da fuori, il negoziato aperto a suo tempo con Confindustria presenta una serie di contraddizioni. Da un lato il cosiddetto “Patto di fabbrica” con al centro la proposta forte della “corresponsabilità” annunciata fin dalla assemblea generale di Federmeccanica ma mai declinata concretamente. Soprattutto nelle contropartite per il sindacato.

Da allora ad oggi sono stati rinnovati tutti i contratti del comparto industriale rispettandone giustamente l’autonomia ma confermandone l’inevitabile differenza nei contenuti e nelle strategie. Nelle richieste di Confindustria ai sindacati sono chiari i vantaggi per se stessa mentre sono praticamente inesistenti le contropartite soprattutto alla luce del fatto che le altre organizzazioni datoriali, innanzitutto Confcommercio, hanno firmato un accordo con il sindacato confederale che copre l’intero comparto del terziario di notevole spessore e prospettiva.

Questi accordi evidenziano inevitabilmente una debolezza propositiva e negoziale. Con i contratti già firmati e con gli accordi delle altre organizzazioni con i sindacati solo un accordo “alto”, innovativo e ricco di vantaggi reciproci può far uscire dall’angolo il negoziato. Ed è proprio quello che non sembra essere nelle volontà dell’attuale vertice confindustriale.

Innanzitutto i tempi. Questo negoziato si trascina stancamente da mesi senza approdare a nulla di concreto che non sia già stato affrontato nei tavoli delle singole categorie, gli annunci forti del Presidente Boccia (Patto di fabbrica e corresponsabilità) restano affermazioni, al momento, privi di conseguenze concrete, la stessa richiesta di costruire nuovi contratti dei servizi innovativi pare più un’operazione di marketing associativo che di vera necessità per le imprese. Un contratto che comprende anche i servizi innovativi c’è già ed è quello del terziario firmato da Confcommercio utilizzato da molte imprese anche di altri settori proprio per la sua flessibilità applicativa che, se traslata nei contratti del comparto industriale ne minerebbe i contenuti e lo stesso perimetro applicativo.

Le differenze tra le due impostazioni sono notevoli. Innanzitutto i contratti del comparto industriale sono figli di una cultura che attraverso i rapporti di forza messi in campo ha determinato, di volta in volta, gli equilibri sui singoli contenuti, irrigidendone una possibile gestione dinamica tipica, al contrario, delle situazioni in rapido mutamento. Nel contratto del terziario tutto ciò non esiste.

Le vere rigidità, per assurdo, sono state costruite nelle singole imprese attraverso i negoziati aziendali soprattutto nella Grande Distribuzione proprio perché assimilabile culturalmente e organizzativamente al modello fordista industriale del secolo scorso. Infatti nel terziario di mercato la contrattazione aziendale non esiste se non in misura assolutamente marginale. E nessuna azienda, credo,  sembra disponibile a reintrodurla spontaneamente. E non certo per una questione dimensionale.

La contraddizione non risolta nei contratti industriali tra la complementarietà o l’alternatività tra i due livelli contrattuali nel terziario è stata risolta da anni. Non è un caso che, anche nella Grande Distribuzione, sono sempre più i contratti aziendali ,che hanno prodotto le maggiori rigidità organizzative, che vengono disdettati.

Così come la derogabilità degli istituti, anche economici non presente nei comparti industriali. Se prendiamo, ad esempio, lo spostamento a data da destinarsi, del pagamento di una tranche del’ultimo contratto nazionale del terziario, concordato tra le parti per evitare operazioni di dumping tra le imprese, ci rendiamo conto della profonda differenza di contesto.

Se questo è vero come si può pretendere in un negoziato complesso che i sindacati nel comparto industriale accettino un’impostazione che di fatto tenderebbe a renderli marginali proprio laddove vorrebbero sviluppare in futuro il loro nuovo ruolo negoziale, lasciando maggiore libertà alle imprese?

Da qui nasce lo stallo principale che potrebbe essere superato solo da un salto di qualità nei contenuti (ad esempio in termini di reale e concreta corresponsabilità attraverso forme di partecipazione) che oggi non sembra essere nella disponibilità o nella volontà dei negoziatori.

Oppure dal riconoscere, e qui condivido la tesi di Pirani, che solo nella futura contrattazione aziendale e nei contratti appena firmati si potrà trovare la soluzione ai problemi posti. Quindi nella vigenza concordata.

Il mondo è cambiato. Non basta rivendicare, come ha fatto giustamente il Presidente di Confindustria di essere ancora la seconda manifattura d’Europa; occorre, qui si, cambiare verso. Avere un progetto per il Paese, e, di conseguenza scommettere su nuove relazioni industriali, non accontentarsi di una logica tutta difensiva. Nelle imprese e tra i lavoratori e, di conseguenza anche in alcune organizzazioni sindacali e datoriali stanno emergendo esigenze strategie e interpretazioni nuove.

È indubbio che al past President Squinzi e quindi a Confindustria, va riconosciuto un merito oggi non abbastanza sottolineato: aver posto termine alla pratica degli accordi separati. Ma il merito di cambiare e innovare i modelli contrattuali e quindi di essere un punto di riferimento e di sintesi non si eredita. Lo si conquista con proposte e con risposte concrete. Soprattutto in tempi di grandi cambiamenti.

Il Potere del vuoto…

Non trovo una espressione migliore di quella utilizzata a suo tempo da Pierre Carniti per fotografare la situazione attuale: “Il vuoto di potere non esiste. Esiste il potere del vuoto”.

In una corsa scomposta verso il baratro, sempre meno metaforico, mentre tutta la politica litiga sul niente (vedi vitalizi dei parlamentari), la vicenda dei voucher esce dai confini della logica e assume contorni sempre più grotteschi.

Il segretario dei metalmeccanici della FIOM (categoria dove l’utilizzo dei voucher è inesistente) viene ricevuto sull’argomento dal Presidente del Consiglio Gentiloni e il Ministro del lavoro Poletti, improvvisamente assurto nel ruolo di rappresentante ombra degli scissionisti del PD, scavalca a sinistra ben sei proposte sull’argomento giacenti in Parlamento proponendo di limitare i voucher alle famiglie riportando così l’orologio del tempo a prima della Biagi.

Francesco Riccardi ottimo giornalista e osservatore attento dei temi sul lavoro, lucidamente, ha definito il nostro, “il Paese del tutto o niente”. Come dargli torto?

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati delle ispezioni del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Parlano da soli. Evidenziano il problema vero del nostro Paese. Quando il tasso di irregolarità arriva al 63% su quasi duecentomila aziende ispezionate occorrerebbe fermarsi e ragionare.

Sono aziende che fanno concorrenza a quelle che rispettano le regole, aggirano norme e contratti a danno dei loro collaboratori e non pagano, in tutto o in parte, tasse e contributi. In Parlamento non giace alcuna proposta di intervento su questo tema, il Ministro del Lavoro incassa, senza alcun merito particolare, l’impegno degli ispettori che sul territorio compiono un lavoro difficile, a volte pericoloso, poco riconosciuto ma, soprattutto, che non riesce a fare un salto di qualità per la incredibile sottovalutazione del tema da parte della politica.

Sui voucher, no. Meglio buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ad un recente convegno in Veneto organizzato dalla CGIL, Federalberghi ha cercato di spiegare che la stabilità dell’occupazione della regione nel comparto è lì a dimostrare che i voucher non hanno scalfito nulla. Anzi hanno contributo a far emergere pagamenti in nero e altre forme di lavoro sommerso.

La stessa Confindustria, essendo poco coinvolta, ha comunque “sommessamente” sottolineato l’utilità dello strumento, il suo contributo nell’emersione di parte del lavoro nero e l’obiettivo, condiviso, di eliminare le distorsioni emerse.

Confcommercio, con ben maggiore convinzione sottolinea che: “Oltre al riconoscimento economico, l’utilizzo dei voucher assicura anche il pagamento di contributi previdenziali e la copertura assicurativa Inail costituendo, di fatto, l’unico strumento per pagare in modo regolare prestazioni saltuarie e occasionali. Inoltre, di fronte ad un’eventuale limitazione significativa del campo di applicazione di questo strumento non ci sarebbe alcuna alternativa, né si potrebbero coprire queste attività saltuarie con rapporti di lavoro tradizionali. Secondo i dati Inps la stragrande maggioranza delle persone pagate con voucher sono lavoratori titolari anche di altra occupazione, percettori di ammortizzatori sociali, studenti o pensionati e che il compenso medio annuo è di circa 600 euro. E’ quindi evidente che le attività pagate con voucher non sarebbero sostituite da diversi rapporti di lavoro e quindi intervenire nuovamente sullo strumento comporterebbe solo la perdita di occasioni di lavoro retribuite in modo regolare”.

Tutto inutile? Sembrerebbe di sì. La “scoppolata” del referendum del 4 dicembre non ha “stordito” solo il partito di maggioranza che sostiene il Governo. Ha colpito un po’ tutta la politica.

Solo Maurizio Sacconi sembra mantenere i piedi per terra dichiarando: “Il Comitato ristretto sui voucher in seno alla commissione Lavoro della Camera ha concluso i suoi lavori con una aberrante soluzione incredibilmente condivisa non solo dalla sinistra ma anche da Forza Italia. Limitare l’uso dei voucher alle famiglie e alle imprese con un solo dipendente significa non conoscere il mercato del lavoro e le concrete situazioni occupazionali che meritano uno strumento semplice per emergere”.

Oggi il Segretario Generale della Uil dichiara a buon diritto: “Dobbiamo modificare la Fornero. La riforma delle pensioni più iniqua”. I grillini sentendosi appoggiati da un’opinione pubblica sempre più perplessa, si apprestano, come sostenuto dal buon Di Maio, all’Armageddon sui vitalizi, e alla battaglia sul reddito di cittadinanza. L’attento Francesco Seghezzi osserva: “È il classico esempio in cui per disinnescare un rischio politico non si guarda in faccia alla realtà”.

Certo, la realtà, il futuro, come ricostruire una prospettiva concreta sul tema del lavoro. l’impressione è che non sembrino interessare nessuno. Intanto i problemi incalzano.

Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha presentato ieri il libro bianco sull’Europa e su come cambierà nel prossimo decennio (dall’impatto delle nuove tecnologie sulla società e l’occupazione ai dubbi sulla globalizzazione, le preoccupazioni per la sicurezza e l’ascesa del populismo).

Il Libro bianco delinea cinque scenari, ognuno dei quali fornisce uno spaccato di quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025. Forse dovremmo confrontarci su quegli scenari piuttosto che inseguire il novecento.

Jobs Act. Se resta l’equivoco di fondo…

I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.

Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.

Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.

A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti  vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.

Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.

Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.

Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.

Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.

Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.

Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.

I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.

Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.

Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.

Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.

Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.

L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.

Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.

Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.