Fernando Liuzzi ha descritto con grande trasparenza lo stallo nel negoziato dei metalmeccanici sul Diario del Lavoro. Le contraddizioni che hanno prodotto due piattaforme sindacali e la firma separata con Confimi sarebbero riemerse nei tre sindacati sulle differenti strategie da adottare per sbloccare il negoziato con Federmeccanica. Venti ore di sciopero, già fatti, non sono certo bruscolini e il negoziato sembra essere ancora al palo. Secondo alcuni sindacalisti è il momento di allargare la vertenza coinvolgendo le confederazioni e quindi i sette milioni di lavoratori ancora senza contratto. Lo strumento individuato sarebbe lo sciopero generale: in autunno, con una situazione internazionale estremamente complessa, il referendum alle porte e la legge di stabilità tutta da costruire. Uno sciopero che non può essere contro Confindustria che sta iniziando la nuova consiliatura all’insegna del confronto con le OOSS né contro il Governo che sta aprendo un confronto, pur difficile, sul pubblico impiego e sulle pensioni. Inoltre potrebbe rischiare di spaccare il sindacato confederale mettendo a rischio l’importante percorso unitario nel quale la CGIL ha ripreso un ruolo di regia costruttiva e propositiva importante. Tra l’altro lo scontro politico oggi non vede più come protagonisti i tradizionali alleati della sinistra sindacale ridotta ormai ad un ruolo di pura testimonianza tra lepenisti veri, grillini dilaganti e centro destra in ricostruzione. Comunque tutte forze che oltre ad essere contro il Governo considerano il sindacato, tutto il sindacato, un vecchio arnese del novecento. Per assurdo gli unici interlocutori intenzionati a costruire un rapporto costruttivo con il sindacato sarebbero individuati come i veri nemici da battere dallo stesso sciopero generale. Più che una strategia di attacco mi sembra un autogol inutile. Il risultato sarebbe solo il rafforzamento del fronte antisindacale e la crisi nel rapporto tra le confederazioni. E tra queste e Confindustria. Se non è addirittura questo l’obiettivo sotteso da chi vuole far precipitare la situazione mi sembra più convincente la posizione di chi vuole rilanciare il negoziato e ricercare una mediazione accettabile. Oggi, pur rispettando l’opinione di chi pensa di modificare il contesto economico e sociale che sovrasta il negoziato ricorrendo allo sciopero generale, non è quella la strada. E non credo che Federmeccanica o le aziende coinvolte siano impressionabili da questi annunci che, per certi versi, lasciano il tempo che trovano. Se la distanza è di natura economica il confronto è l’unica strada da percorrere. Semmai occorrerebbe trovare il punto di collegamento tra negoziato confederale e di categoria. Ed è questa l’unica via percorribile. Mediaticamente la vicenda contrattuale dei metalmeccanci non coinvolge l’opinione pubblica come in passato. Altri avvenimenti richiedono maggiore attenzione. Anche questo dovrebbe far riflettere tutti. I risultati stessi della mobilitazione promossa fino ad ora non segnalano alcuna inversione di tendenza. Anzi. Se non ci fossero FIM e UILM a tenere aperta una comunicazione efficace a 360 gradi la posizione di Federmeccanica sarebbe molto più convincente e presente in rete e sulla stampa. La vera posta in gioco è sulla prospettiva. O tutto il sindacato dei metalmeccanici è pronto o meno ad una svolta “corresponsabile” o una parte di esso crede di poter riproporre a breve una vecchia egemonia che costringerebbe tutto il sindacato metalmeccanico in uno stallo inaccettabile. Almeno per una parte di esso. Forse c’è chi punta proprio a questo. Eppure la vicenda FCA è ancora fresca. Dovrebbe aver insegnato qualcosa sulla difficile permeabilità dei “sistemi azienda” o sulla necessità di ridisegnare insieme un sistema contrattuale ormai obsoleto che assegni un ruolo da protagonista al sindacato in grado di guardare avanti. E, ultimo ma non ultimo, che consenta alle imprese medio grandi di continuare a riconoscersi in uno strumento altrimenti ritenuto obsoleto. E infine che questo rinnovo potrebbe consentire un passo avanti importante alla ricerca di un nuovo equilibrio tra le diverse anime del sindacato che aiuti a superare definitivamente la stagione delle divisioni e crei le premesse per una nuova convergenza. Tutto questo riemergerà prepotentemente in autunno. Certo la “lotta unitaria” nasconde bene difficoltà e divisioni ma non le cancella. Le sposta solo in avanti. Marco Bentivogli e altri dirigenti sindacali hanno capito fin dall’inizio le difficoltà di questo rinnovo. Forse c’è chi lo ha sottovalutato come aveva sottovalutato altre situazioni altrettanto importanti. Non è cosa di poco conto in una fase dove il sindacato è oggettivamente debole. Ma è proprio perché questa debolezza è sostanzialmente simmetrica e coinvolge l’insieme dei corpi intermedi che il negoziato va condotto fino in fondo su diversi tavoli con intelligenza e determinazione fino alla sua naturale conclusione. E, per la stessa ragione, Federmeccanica saprà fare la sua parte.
Rappresentanza e rappresentatività nell’evoluzione dei sistemi contrattuali
La firma del CCNL dei metalmeccanici della piccola industria ha riaperto una vecchia ferita. FIM e UILM hanno raggiunto una intesa con Confimi, FIOM l’ha contestata immediatamente e ha dichiarato di volerla raggiungere con Confapi in autunno. Non si capisce se da sola o con FIM e UILM. Contraddizioni che rischiano di rimbalzare ancora più pesantemente sul tavolo principale con conseguenze immaginabili. Dall’altra parte due organizzazioni datoriali che cercano di legittimarsi pur non potendo contare su di un seguito significativo tra le aziende del settore. Ovviamente nessuno nega il diritto alle imprese o ad altri soggetti ad organizzarsi sotto le insegne ritenute più idonee a tutelare i rispettivi interessi. Succede in politica, succede nell’associazionismo di varia natura. Succede nel sindacato. È la micronesia della rappresentanza che resta una specificità ma anche un limite tutto italiano. D’altra parte il caso dei metalmeccanici non è isolato. Nella grande distribuzione sono almeno quattro i soggetti datoriali che si contendono il diritto a rappresentare il settore. In altre situazioni il desiderio di far da sé è ancora più marcato. Nel 900 ci si divideva per appartenenze ideologiche, oggi per supposte convenienze e specificità ritenute irrinunciabili. Il mondo si globalizza e la risposta sembra essere quella di rifugiarsi nel particolare. Ma è proprio così utile per lavoratori e imprese? Confesercenti ha appena firmato un CCNL cercando di mettersi in concorrenza con Confcommercio pur condividendone l’esperienza in Rete imprese Italia. Un tempo firmava, sostanzialmente per adesione, quello di Confcommercio, oggi pretende di differenziarsi. Nei sindacati datoriali e non, al centro, spesso, si collabora ma in periferia ci si scontra. Possiamo permettercelo? Credo proprio di no. Soprattutto se questi accordi privilegiano controparti sostanzialmente inconsistenti che però possono innescare forme di dumping tra imprese. Ad oggi, nessuno certifica la reale rappresentanza delle organizzazioni datoriali. Anzi. Se dovessimo prendere per buoni i numeri dei dipendenti diffusi da alcune federazioni di categoria, avremmo probabilmente ridotto la disoccupazione in Italia. Purtroppo non è così. Spesso sono solo numeri gonfiati per farsi riconoscere una rappresentanza tutta da dimostrare. Questo dovrebbe spingere le rispettive controparti sociali a pretendere una pesatura oggettiva e realistica. Soprattutto in materia di rappresentatività nel mondo del lavoro. Nel negoziato aperto a livello confederale questo non potrà non essere un punto importante. Per entrambe le parti. Occorre più trasparenza e più coraggio. Non basta certificare la rappresentatività dei sindacati. Un’analoga operazione dovrebbe coinvolgere le organizzazioni datoriali. Sia quelle cosiddette storiche del secolo scorso sia quelle nate da costole di quelle esistenti. Inoltre, i contratti nazionali dovrebbero distinguere il ruolo delle federazioni di categoria da quello delle Confederazioni in grado di comprendere gli interessi più importanti delle federazioni stesse. Anche per questo la logica della contrattazione e dei suoi livelli dovrebbe evolvere verso un sistema che assegna al contratto nazionale un importante ruolo di garanzia, prevedendo spazi a cascata o a livello o di comparto produttivo, o territoriale o aziendale. Materie diverse ai diversi livelli. Se in un futuro più o meno lontano potessimo avere, nel settore privato, tre negoziati confederali (industria, terziario e agricoltura) nei quali comprendere i minimi di garanzia, le regole generali, i diritti, i doveri e il welfare lasciando agli altri livelli le specificità relative avremmo, a mio parere, compiuto un passo avanti in termini di semplificazione e coerenza del sistema complessivo pur continuando a permanere condizioni diverse nei differenti settori. Nel terziario il CCNL sta dimostrando una vitalità interessante rispetto ad altri comparti, per questo, nel confronto aperto a livello confederale questa vitalità andrebbe consolidata e confermata. La contrattazione decentrata in questo comparto ha un ruolo assolutamente marginale per scelta delle imprese ma anche per condizione oggettiva. Il ruolo del CCNL è, di fatto, condiviso dalle aziende perché impostato su di una logica di scambio e sul principio della possibile derogabilità dei differenti istituti. Altrove il processo di semplificazione deve ancora trovare il consenso necessario e la sua esigibilità. Chimici e alimentaristi hanno una storia di “corresponsabilità” di lunga data. E questo consente loro una contrattazione di secondo livello basata anch’essa sul principio dello scambio estremamente efficace. Per questo il “rinnovamento” di cui si parla sul tavolo dei metalmeccanici è importante. E, sotto questo punto di vista, il problema della rappresentatività ritorna ad essere centrale. Per entrambe le parti. E questa rappresentatività si gioca sia nella fase dello scontro sia in quella della ricomposizione e dell’intesa che, prima o poi, sarà destinata ad esserci. L’obiettivo non può essere solo la firma del contratto. Il suo contenuto e, soprattutto, la direzione di marcia saranno l’elemento di giudizio vero. Non ha alcun senso che il sindacato dei metalmeccanici sia costretto a ripiegare su se stesso. La partita che si sta giocando su diversi tavoli riguarda anche il futuro della rappresentanza, la credibilità degli interlocutori, l’idoneità e l’esigibilità degli strumenti individuati. Non dimentichiamo che usciamo da una lunga fase caratterizzata da accordi separati, derive identitarie e forzature che hanno messo a dura prova il sistema provocando ritardi da colmare e rendendolo più fragile e esposto a pericolose fughe in avanti di cui, alla fine, non se ne è giovato nessuno.
Una china sempre più difficile da rimontare…
Il negoziato dei metalmeccanici rischia di avviarsi su di una china sempre più difficile da rimontare. Federmeccanica ad oggi non si è mossa (almeno pubblicamente) dalla sua proposta salariale iniziale. Le organizzazioni sindacali hanno reagito mettendo in campo iniziative a sostegno delle proprie convinzioni che, sempre ad oggi, non sembra abbiano sortito particolari effetti. Adesso la pausa estiva spero possa consentire ad entrambe le parti di riflettere su come riprendere il confronto in autunno. A mio parere la posizione di Federmeccanica sul salario è oggettivamente debole. Non tanto nella sua logica quanto nella sua gestibilità. Un cambiamento radicale è già difficile concordarlo per il futuro, figuriamoci sul passato. Soprattutto in presenza di altri contratti firmati che hanno affrontato con maggiore equilibrio e flessibilità questo punto. Il “rinnovamento contrattuale” proposto è un passaggio troppo importante per lasciarlo in pasto ai demolitori di professione. O agli ignavi (Dante nell’Inferno li definisce quelli “che mai non fur vivi”). Continuo a pensare che lavorando sulle derogabilità degli istituti anche economici, su una eventuale riproposizione attualizzata dell’IPCA, e sulle garanzie di esigibilità una diversa base di partenza per una discussione costruttiva possa essere individuata. Sull’altro versante non penso che la recente firma del CCNL con Confimi industria da parte di FIM e UILM o quella paventata dalla FIOM con Confapi a settembre possa condizionare Federmeccanica che credo conosca molto bene la consistenza reale di queste associazioni. È certamente un fatto politico su cui riflettere che però segnala anche un malessere che permane tra le stesse organizzazioni sindacali e che non promette nulla di buono in presenza di una eventuale proposta di mediazione su altri tavoli. Marco Bentivogli nel suo recente libro sottolinea come le persone di una certa generazione sopravvalutino il valore dell’unità sindacale in sé. Forse è vero. Però, salvo poche, anche se indubbiamente importanti vertenze, e quasi tutte nel comparto metalmeccanico la stagione della deriva identitaria ha, secondo me, congelato i processi veri di cambiamento del sindacato. Però, siccome appartengo a quella generazione, non insisto. Però resto della mia idea… Chimici, alimentaristi, terziario, solo per citare i contratti più significativi sono lì a dimostrare che la scelta della “corresponsabilità” paga. E paga unitariamente. Nessuno, a mio parere, può auspicare come positivo un isolamento dei metalmeccanici. Così come i metalmeccanici devono prendere atto che altrove certe scelte sono già state fatte da tempo. E sempre unitariamente. L’impegno che Cgil, Cisl e UIL confederali e le organizzazioni datoriali stanno mettendo in campo per realizzare accordi che consentano un nuovo contesto negoziale è troppo importante per lasciare il passo alla ormai consunta retorica del 900. Occorre fare un passo avanti. Tenendo conto che è molto importante farlo insieme altrimenti non decollerà alcun rinnovamento. E questo non costituirà una vittoria per nessuno.
Rappresentanze sociali e nuovi modelli organizzativi e relazionali delle imprese
Molte imprese sono già cambiate. Molte altre stanno cambiando profondamente. Non solo nei modelli di business ma anche e soprattutto nelle loro strutture organizzative, nei sistemi relazionali tra manager e collaboratori quindi nel patto che lega l’azienda alla persona. E non è solo il tramonto del fordismo o l’avvento della globalizzazione che rendono indispensabili questi cambiamenti. Le diverse forme di paternalismo e di coinvolgimento funzionavano quando il patto poteva essere concepito sul lungo termine. La semplice fedeltà all’impresa e ai suoi valori consentiva comunque vantaggi o in termini economici o di sicurezza del posto di lavoro. La stessa adesione ad un sindacato, prima combattuta dalle aziende come estranea e antagonista a quella impostazione, poi, tutto sommato, sopportata ha via via perso quella carica “eversiva” che costringeva le imprese a dotarsi di strutture in grado di gestire conflitti e contraddizioni. Non è un caso che le direzioni risorse umane siano state decisamente ridimensionate sul versante delle relazioni sindacali e potenziate su quelle della gestione e dello sviluppo delle risorse interne. L’azienda, indubbiamente, continua a identificarsi con il proprietario o con il CEO chiamato a dirigerla per un dato periodo ma si propone in modo differente rispetto al passato. Se raggiunge i suoi obiettivi, è il contesto esterno a valorizzarne i risultati e a sottolinearne la correttezza dei comportamenti richiesti e attesi. Ma il contesto esterno mostra anche le possibili conseguenze dove le cose non funzionano. È di per sé un deterrente. Se, l’azienda si trova in difficoltà o in affanno, l’adesione ai valori e alle scelte è comunque garantita dalla mancanza di alternative o dalla preoccupazione per il proprio futuro. Spesso l’intesa tra management e dipendenti, nell’impresa in crisi, è totale. E mostra in modo plastico un possibile prototipo del modello che si sta affermando. L’impresa produce, coinvolgimento, cultura, occasioni di crescita professionale, risposte a bisogni extralavorativi, momenti di socializzazione e di condivisione. Il patto che propone non è più “fedeltà” in cambio di garanzie a lungo termine del posto di lavoro quindi questo fa cadere l’elemento paternalistico o strumentale. Al contrario il patto è visibile, concreto, esigibile e dura fino a quando le condizioni interne o esterne consentono di onorarlo. Ed è un patto che comprende lavoro stabile (finché dura), retribuzione individualizzata, coinvolgimento, occasioni di sviluppo. Quindi è un patto tra adulti che sanno quello che stanno sottoscrivendo. In questa situazione, tutto ciò che discende dal CCNL, dalla dottrina giuslavoristica e dalle problematiche sindacali ne è parte, ovviamente, ma non ha nessun valore particolare. Non viene “venduto” come importante dall’azienda o dal sindacato (interno o esterno che sia) e non viene recepito come importante dal collaboratore. Qualche accenno nella lettera di assunzione, qualche indicazione dai colleghi, ma niente di più. Il prodotto principale del confronto tra le rispettive organizzazioni di rappresentanza, tutto ciò che lo ha determinato, il valore economico che rappresenta, le normative contenute, i diritti e le opportunità vengono compressi in usi e consuetudini aziendali, ovviamente rispettati, ma all’interno di un rapporto che è ben altro rispetto all’enfasi che spesso si percepisce quando se ne parla tra addetti ai lavori. Se non si parte da qui non si capisce perché il rinnovo di un contratto collettivo è oggi visto come una scadenza che non aggiunge nulla all’impresa e quindi essa stessa cerca di spingere i propri rappresentanti a posticiparla, renderla indigesta alle controparti o depotenziarla soprattutto perché entra in conflitto con le proprie strategie di gestione delle proprie risorse. Soprattutto in fasi di inflazione vicina allo zero. Di fatto determina costi non decisi al proprio interno e non legati a nessuna strategia. Ed essendo generalmente bassa o assolutamente minoritaria la partecipazione dei propri collaboratori alle iniziative sindacali, per le ragioni di cui sopra, la convinzione che ci si possa definitivamente sottrarre a questo “rito” collettivo è molto forte. E questo impatta sulle diverse associazioni datoriali che si trovano spesso spiazzate nel loro ruolo di sintesi o addirittura in balia delle posizioni più intransigenti. Ovviamente la realtà è a macchia di leopardo così come i comparti o le differenti categorie merceologiche ma questo è un quadro da non sottovalutare. Lo stesso vale per i sindacati di categoria che in base alla loro capacità di risposta o di relazione riescono o meno a ridisegnarsi un ruolo propositivo o, al contrario, marginale nelle aziende. Con la sua proposta, Federmeccanica, a mio parere, ha individuato la cosiddetta “mossa del cavallo”. Certo c’è ancora un equilibrio economico da individuare ma l’idea di proporre un “rinnovamento contrattuale” coglie la necessità di lasciare spazio alle imprese e alla loro cultura specifica pur salvaguardando un ruolo per il CCNL. Non è una proposta contro il sindacato e mi meravigliano certe prese di posizione un po’ pavloviane di alcuni sindacalisti. Marco Bentivogli nel suo ultimo libro dimostra di aver ben capito che il sindacato (riformista) è destinato ad un ruolo propositivo e attivo solo se entra nel merito di questi modelli organizzativi nuovi. Se riesce ad interagire con essi senza perdere l’anima. Se riesce a stabilire un rapporto tra natura e scopi di un sindacalismo confederale e situazioni in crescita esponenziale nelle aziende. Ha potuto capire, a suo tempo, che non c’era niente di “paternalismo old style” nella vicenda FCA diventandone interlocutore attento ma, nello stesso tempo, assicurando una guida al disorientamento dei lavoratori o nelle decine di imprese dove i modelli di relazione e di coinvolgimento anticipano industry 4.0. Quando il Presidente di Confindustria Boccia parla di “corresponsabilità” e rivolge il suo invito alle parti sociali a costruire un nuovo modello di relazioni industriali credo pensi di mettere in relazione un nuovo ruolo dei corpi intermedi, nel suo caso di Confindustria, con quello delle imprese e del lavoro. E sulla stessa linea di pensiero penso solleciti e si attenda uno scatto analogo dei sindacati confederali. Ma questo, con il modello proposto a suo tempo dalle stesse Confederazioni, non sarebbe possibile perché le aziende non sono minimamente interessate a condividerlo. Qui sta il punto. Anche perché la differenza tra la posizione di Federmeccanica e quella di Confindustria è tattica, non certo strategica ed è sostanzialmente convergente anche con la cultura presente, ad esempio, nel comparto chimico o alimentarista che sono già avanti su questo terreno. Non capirlo non mette in difficoltà solo i sindacati. Mette in difficoltà l’intero sistema che rischia una schizofrenia tra una impostazione apparentemente di tipo concertativa che si confronta senza arrivare a nulla di concreto sui massimi sistemi accompagnato da una sostanziale marginalizzazione nelle aziende per entrambi i ruoli associativi. “Simul stabunt simul cadent”. Il legame tra la contrattazione nazionale e aziendale in chiave di corresponsabilità come la definisce Confindustria (o di collaborazione intraprendente come l’ha a suo tempo definita Confcommercio) è un passaggio obbligato per ridare slancio e credibilità ai rispettivi ruoli solo se se prende atto del cambiamento necessario. Nella globalizzazione la possibilità di contare poco c’è perché rappresenta, a mio parere, una delle derive possibili della disintermediazione. Non tanto quella attribuita al nostro Presidente del Consiglio. Ma quella che spinge aziende e lavoratori a non riconoscersi in organizzazioni di rappresentanza che rischiano di essere troppo distanti e poco convincenti nel proporsi come indispensabili punti di riferimento su questi temi.
Nuove relazioni industriali tra tatticismi e opportunità
Ci sono stati momenti importanti nella vita sociale del nostro Paese dove si è impressa una svolta che ha lasciato il segno nel sistema delle relazioni industriali. Nel 1953 a Ladispoli quando la CISL scelse una nuova strategia rimettendo al centro la contrattazione aziendale, nel 1978 quando la CGIL di Luciano Lama propose una linea di moderazione salariale in cambio di una politica di sviluppo che sostenesse l’occupazione, nel 1984 quando Cisl e UIL decisero di schierarsi con il governo Craxi che decretava il taglio della scala mobile, nel 1993 quando i tre sindacati confederali, insieme, firmano con Confindustria un nuovo sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione fra le parti e la politica dei redditi che ha retto fino a poco tempo fa dimostrando una longevità impressionante. Momenti storici che segnalano la consapevolezza messa in campo dai corpi intermedi per governare cicli economici, politici e sociali dove è necessario mettere in campo una grande responsabilità. Oggi occorre prendere atto che ci troviamo di fronte ad un nuovo passaggio cruciale per il futuro del nostro Paese e che impone un vero e proprio cambio di atteggiamento. Da un lato, il contesto politico internazionale, la globalizzazione dell’economia e la necessità di competere in modo nuovo sia sul piano degli strumenti che dei modelli organizzativi. Dall’altro perché sta crescendo sempre di più la consapevolezza che i rischi che comporta questa sfida sono fuori dalla portata della singola impresa e che, quindi, necessitano di uno sforzo complessivo che coinvolga tutto il Paese dalla politica, al sistema economico e finanziario, e a tutta la filiera dalla produzione al consumo. Non a caso il Presidente di Confindustria Boccia parla di corresponsabilità cioè della necessità che cresca una nuova consapevolezza nel Paese e quindi nelle relazioni industriali che consenta di fare squadra e di condividere rischi e opportunità in modo profondamente diverso dal passato. Nel terziario, nei chimici e negli alimentaristi questa consapevolezza è presente da tempo e, non a caso, i contratti nazionali sono stati firmati e consentono, pur in differenti forme, deroghe, rinvii al secondo livello, elementi di governo che hanno dimostrato la loro versatilità applicativa in questi anni. Per riuscire a chiudere il cerchio sarebbe necessario arrivare ad un contratto nazionale dei metalmeccanici che imbocchi anch’esso questa direzione. Solo così il sistema sarà pronto a ad un accordo di alto livello tra le confederazioni datoriali e sindacali privo di ambiguità e in grado di reggere nei prossimi anni. La proposta di Federmeccanica che piaccia o meno ha, in sé, alcuni elementi importanti. Ad esempio una nuova centralità della persona, quindi dell’importanza della contrattazione decentrata, del welfare contrattuale e di una consapevolezza nuova sulla formazione. Non è cosa da poco. Resta un’area di dissenso tra le parti sulla quantità salariale e sulle possibili modalità di erogazione da assegnare al CCNL in rapporto al quadriennio futuro. In altri termini c’è un problema di forma e uno di sostanza. E, come sempre avviene nei negoziati, forma e sostanza si sovrappongono. Il principio posto da Federmeccanica mi sembra chiaro: non si può distribuire ricchezza non ancora prodotta (soprattutto se aggiuntiva al recupero sull’inflazione). E comunque, se assegnata al CCNL, ridurrebbe gli spazi di manovra nella contrattazione decentrata futura. Per il sindacato questa posizione non è accettabile. Inoltre non è chiaro cosa succederà nelle aziende che, per diverse ragioni, non apriranno alcun confronto a livello decentrato. A mio parere su questi due punti solo Federmeccanica può fare un passo avanti all’interno di un percorso complementare all’accordo confederale. D’altro canto la stessa proposta di parte sindacale, che il CCNL debba rappresentare una sorta di minimo di garanzia e che la contrattazione aziendale ritorni centrale nel nuovo modello potrebbe essere colta come un interessante passo in avanti sia in termini qualitativi che quantitativi. In mancanza di chiarezza su questo punto le imprese non daranno alcun mandato a chiudere a Federmeccanica. Per questo, credo, che il passaggio sia estremamente delicato e i tatticismi rischiano di prevalere sulle opportunità. Per terziario, chimici e alimentaristi, al contrario, ha prevalso la coerenza nei comportamenti che ha sempre contraddistinto il loro sistema di relazioni. Il passato (e, per certi versi, il presente) pesa come un macigno sul negoziato aperto nei metalmeccanici. Le imprese non si fidano del fatto che il sindacato sappia proporsi come un interlocutore attivo e lungimirante in questo passaggio di fase. Quindi la posizione sul salario è usata, fino ad oggi, come cartina di tornasole dei comportamenti altrui. Inoltre la parte più responsabile del sindacato non può condividere in tutto o in parte queste proposte e quindi rischia di essere fagocitata da chi non vede utile nessun cambiamento del ruolo del contratto nazionale e quindi della strategie contrattuali. È il cane che si morde la coda. Il rischio che i negoziatori hanno di fronte è che il risultato non rappresenti e non supporti alcuna svolta per questa importante categoria e questo, purtroppo, inciderebbe inevitabilmente sul livello di mediazione possibile ai tavoli confederali. La stagione della corresponsabilità, della collaborazione e della necessità di fare squadra nelle aziende, per affrontare la sfida della globalizzazione, è già iniziata. Non aspetta alcuna formalizzazione. Il punto è se i soggetti vecchi e nuovi che dovrebbero contribuire a costruire il nuovo sistema si predispongono ad accettare la sfida e con quale livello di convinzione. In altre parole come pensano di rientrare in gioco trasformando un’occasione di confronto in una grande opportunità nell’interesse dei propri associati e del Paese. Altrimenti la montagna è destinata a partorire un topolino. Ma questo non rimetterebbe in gioco i corpi intermedi. Né da una parte né dall’altra.
Toni, liturgie e nuove relazioni industriali
Da quello che si legge quotidianamente Il negoziato per il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici sta lentamente scivolando verso una liturgia tradizionale che, a mio parere, inserisce il freno a mano nell’inevitabile processo di cambiamento del sistema delle relazioni industriali. Almeno per questa importante categoria. Mobilitazioni nazionali e territoriali, dichiarazioni, messaggi trasversali, prese di posizioni segnalano una deriva che rischia di non portare ad alcun “rinnovamento contrattuale”. È vero che entrambe le parti si dichiarano convinte della giustezza delle loro posizioni e del loro agire però i toni e i fatti non sembrano andare nella direzione auspicata da chi, al tavolo, crede nella necessità di alzare lo sguardo e guardare lontano. Da osservatore esterno la situazione appare veramente paradossale. Da un lato (quasi tutti) i negoziatori al tavolo convengono sull’inevitabile approdo del settore e su ciò che occorrerebbe fare ma, dall’altro i messaggi inviati alle rispettive basi tendono a dimostrare che poco o nulla è cambiato rispetto all’impostazione culturale passata dei soggetti in campo. Quindi l’elemento centrale di ogni processo di vero cambiamento, cioè la condivisione della strategia, o almeno di individuare un percorso comune, rischia di essere messo in ombra per ragioni tattiche. Un vero processo di “rinnovamento contrattuale”, d’altra parte, non si può “estorcere”. Va necessariamente condiviso. Chi lo ha proposto lo sa benissimo. A questo punto, però, non è chiaro con chi potrà essere condiviso. O con il sindacato confederale come interlocutore privilegiato creando le premesse in questo rinnovo contrattuale o, rendendolo residuale nel negoziato nazionale riservandosi poi di costruire questa relazione direttamente con i lavoratori nelle singole imprese. Io credo che questo sia il nodo centrale di questo negoziato. E, sempre per questo ritengo che i toni, le disponibilità e le liturgie praticate dovrebbero essere conseguenti e misurate da entrambe le parti. Oggi le aziende (non solo metalmeccaniche) hanno interesse a minimizzare i conflitti con i potenziali stakeholders, far crescere la loro reputazione e, al loro interno, aumentare le motivazioni intrinseche al lavoro dei collaboratori. Il “rinnovamento contrattuale” non è un passaggio astratto ma è stato proposto e individuato da Federmeccanica proprio per consentire alle imprese un grado di coesione interna tale da renderle ancora più competitive.
Dall’altro lato il sindacato, tutto il sindacato, non può chiamarsi fuori limitandosi a minacciare “tuoni, fulmini e saette” evitando così di pronunciarsi nel merito. Deve essere coerente ed esprimersi sulla condivisione o meno del percorso proposto. A mio avviso Marco Bentivogli è stato chiarissimo: spazio nuovo alla contrattazione aziendale e contratto nazionale di garanzia. Solo così, secondo me, le distanze sul piano economico potrebbero essere superate trovando il giusto compromesso tra i diversi livelli contrattuali e le garanzie sulle eventuali scoperture. Se osservo con preoccupazione la sottovalutazione di un eventuale rinvio ad autunno inoltrato della conclusione del contratto da parte di molti imprenditori è proprio perché penso che una svolta importante come quella proposta da Federmeccanica non ha bisogno di furbizie tattiche o dilatorie. Soprattutto non ha bisogno di vincitori o vinti. Non funzionerebbe. È pur sempre il rinnovo del contratto nazionale più complesso per la storia e la cultura che si porta dietro. E questo andrebbe sempre tenuto in grande conto. Soprattutto sul versante delle imprese. Più che la volontà di trovare un’intesa qualsiasi è la direzione di marcia la vera scommessa e i soggetti sociali con i quali la si vuole condividere. Non credo che, l’autunno inoltrato, sia la stagione migliore. C’è un negoziato confederale da affrontare, ci sono segnali positivi provenienti da tutte le confederazioni datoriali ma anche dagli stessi sindacati. Mi sembra ci sia una nuova consapevolezza in tutte le organizzazioni di rappresentanza. Al di là dell’importanza di tutte le categorie e comparti che hanno rinnovato il loro contratto, la proposta di Federmeccanica introduce, è innegabile, un vero cambio di passo nel sistema vecchio e logoro delle relazioni industriali. Rimette al centro l’esigenza di un nuovo rapporto tra capitale e lavoro. Rende esplicito ciò che in altre situazioni (chimici, alimentaristi, ecc.) è praticato da tempo così come lo è in molte aziende metalmeccaniche. L’importanza di questa proposta è data dal fatto che nasce nelle imprese, non da studi teorici o ideologie superate. È una opportunità che per la prima volta si esplicita in modo netto e in tutta la sua portata in un negoziato contrattuale. In futuro troverà probabilmente nuove evoluzioni in altri contesti. È questo è un bene. La scelta che ha di fronte l’intero sindacato confederale è di decidere se accettare o meno la sfida. Può chiamarsi fuori, può bollarla come “vecchia” o impraticabile. Può subirla. Può nascondersi dietro un dito. Io credo rappresenti una occasione di rinnovamento vero, non del contratto nazionale ma dell’intero sistema delle relazioni industriali. Anche perché da un segnale a tutto il sistema sulla direzione di marcia. E, aggiungo sommessamente, molto più che la discussione sui contenuti e sui livelli della contrattazione che decollerà su altri tavoli.
Contratto metalmeccanici: un salto culturale per cambiare il Paese
Nell’incontro di Serravalle Pistoiese le carte sono state messe sul tavolo. Bene ha fatto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ad accettare di confrontarsi direttamente con il segretario generale della CGIL Susanna Camusso perché le polemiche a distanza e i fraintendimenti non servono a nessuno, soprattutto in un passaggio delicato della storia delle relazioni industriali del nostro Paese.
Il nodo resta il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. E non tanto per le “pretese” di Federmeccanica o per quelle dei sindacati di categoria. Boccia è stato estremamente chiaro: si può trovare un punto di incontro ma all’interno di una strategia da condividere. E per fare questo è necessario e indispensabile un salto culturale. Non c’è più spazio per ritorni al passato. Camusso, dal suo punto di vista, ha fatto bene a sottolineare che esiste un problema serio legato alle retribuzioni nette dei lavoratori. Ed è un problema che non può essere lasciato in carico solo al sindacato. Però la soluzione, da ricercare insieme, non può essere rappresentata da aumenti generalizzati di vecchio conio a carico delle imprese e slegati da qualsiasi parametro oggettivo. Occorre definire regole nuove, attribuzioni specifiche per ogni livello contrattuale e farsi carico del cambio di rotta imposto dal contesto, non dalla rigidità delle imprese. Federmeccanica non è alla ricerca di uno scontro tradizionale. Così come l’intero sindacato non sembra avere alcuna intenzione di affidarsi alla prova di forza per uscire dall’impasse. I toni, nonostante tutto, sono estremamente cauti da entrambe le parti proprio perché tutti hanno compreso la posta in gioco. Quando Marco Bentivogli ha indicato come questo rinnovo era da ritenersi uno dei più difficili della loro storia sapeva cosa stava affermando. Su questo tavolo ci sono partite che attengono al futuro del sindacalismo confederale e alla qualità delle relazioni industriali del nostro Paese. Ci sono temi di grande interesse per le imprese e per i lavoratori che richiedono uno sforzo comune. Politiche industriali, fisco, spesa pubblica, investimenti. Argomenti che necessitano un salto culturale notevole per trovare risposte nuove. Un’epoca si è chiusa. Riaprirne un’altra è fondamentale. Sul tavolo del contratto dei metalmeccanici ci sono tutti gli ingredienti di una svolta importante. Ci sono i temi relativi ai livelli della contrattazione, alla produttività, al diritto soggettivo alla formazione e al welfare contrattuale. La differenza con gli altri contratti firmati è la portata politica e sociale richiesta e sottesa a questo necessario salto culturale. Farlo unitariamente avrebbe un valore simbolico molto elevato. Sicuramente maggiore che altrove. Checché ne pensino i suoi detrattori, io resto convinto che la Cgil si sta muovendo con grande lucidità insieme alle altre organizzazioni. La posta in gioco è alta ma non credo sia interesse di nessuno ritornare alla stagione degli accordi separati. Certamente non lo è, e lo si vede dai comportamenti, né da parte Federmeccanica né da parte Sindacato nel suo complesso. Quello che serve oggi è una dose aggiuntiva di lungimiranza da parte dei negoziatori. In autunno la partita si rivelerebbe più complessa proprio sul versante del salto culturale necessario. Soprattutto perché affiderebbe a mediatori esterni ciò che, per sua natura, dovrebbe essere condiviso tra le parti. Personalmente non credo che questo sia un rinnovo dove serve mettere in campo una continua dimostrazione dei reciproci rapporti di forza. Al contrario serve uno sforzo di coinvolgimento convinto nell’interesse di tutti. Il vero rinnovamento che oggi è alla portata delle parti passa solo da questa consapevolezza e dalla condivisione di una strategia. Altrimenti questo contratto non produrrà quel valore aggiunto necessario e atteso dalle imprese e dai lavoratori.
Corresponsabilità e nuove relazioni industriali
Non si può parlare di “Partecipazione” nel nostro Paese senza ricordare gli eccellenti studi del prof. Baglioni e dei suoi discepoli dell’Università Cattolica, molto vicini alla CISL, dei centri studi di derivazione datoriale come il Centro Studi sui problemi dell’impresa (CESIPI) ispirato dall’UCID (Unione Cristiana imprenditori e dirigenti) o altri soggetti molto attivi intorno agli anni 70/80. Anni di conflitto ma anche anni di ricerca sociale. Quella che manca oggi dove, purtroppo, i giuslavoristi (alcuni dei quali lontani anni luce dalla realtà delle imprese) hanno preso il sopravvento nelle discussioni sul tema. La stessa “prima parte dei contratti”, quella dedicata al confronto sulle strategie aziendali, puntava in quella direzione ma è durata, di fatto, una breve stagione sindacale. In quegli anni è decollata anche la “bilateralità” (soprattutto nel terziario) ma sempre come strumento discendente dal contratto nazionale a cui delegare solo compiti specifici, seppur importanti. Nulla di tutto questo ha contribuito a far crescere una nuova cultura nelle imprese e tra i lavoratori che, in qualche modo, superasse le dinamiche del rivendicazionismo e quindi della conflittualità tipici del modello di relazioni industriali italiano. Una conflittualità e un antagonismo che hanno, nel tempo, perso la loro spinta propulsiva, da parte sindacale, con l’avanzare delle crisi che si sono via via succedute. Quel modello ha però continuato ad esistere protraendosi, di fatto, fino ai giorni nostri. Il punto nuovo è che la globalizzazione, la conseguente crisi del fordismo e l’affermarsi di nuove culture e tecnologie, lo hanno reso marginale. Oggi non serve più “comprare” solo il tempo di una persona né considerarla un pezzo fungibile di un sistema più complesso. Oggi occorre costruire un rapporto continuo di scambio professionale e di reciproco interesse che implica: ingaggio, condivisione, remunerazione, coinvolgimento e sviluppo. Sempre più personalizzato e non necessariamente per tutta la vita. E questo modello rende inutile o marginale un sindacato che volesse continuare una politica rivendicativa di stampo tradizionale. Soprattutto in un contesto di PMI che nascono e muoiono con maggiore frequenza determinando quindi in un mercato del lavoro molto più competitivo, mobile e globale rispetto al passato. Ma un modello partecipativo ha bisogno di un contesto sociale e culturale che in Italia non c’è. Sia tra i lavoratori sia tra gli imprenditori. Così, mentre è scontato che per alcuni sindacati quel modello rappresenti un ancoraggio ideale, il tramonto del fordismo pone altre sfide, qui e ora. L’impresa oggi è inserita in filiere globali, ha un core business specifico, lavora sempre più con terzi e non appartiene più ad un settore in modo rigido. Sviluppa partnership con fornitori e clienti, interagisce a monte e a valle con il suo mercato e con i suoi consumatori. È un’impresa sempre più a rete dove i confini, le responsabilità e gli obiettivi si devono necessariamente condividere. L’impresa, sempre più deve collaborare con il mondo esterno ed evolvere anche al suo interno sulle stesse modalità di lavoro, sul suo contenuto, sul contributo che viene messo in campo dai collaboratori e sul suo riconoscimento. L’impresa non è più in grado di assumersi rischi di investimenti, diventati enormi, da sola né di goderne in solitudine i vantaggi generati. Deve necessariamente condividerli. A monte con produttori, fornitori, istituzioni e banche. A valle con i propri manager, collaboratori, territorio e consumatori. È la nuova frontiera della corresponsabilità di cui parla il neo presidente Boccia. L’impresa può crescere, generare ricchezza e distribuirla solo se il contesto ne favorisce lo sviluppo in un mondo sempre più competitivo. L’imprenditore da solo non può farcela. E l’azienda e il contesto nel quale è inserita rappresentano il nuovo perimetro nel quale il sindacato deve trovare la sua nuova posizione in campo. Altrimenti rischia di essere superfluo. I modelli di coinvolgimento, condivisione e ingaggio dei collaboratori sono già in una fase molto avanzata in molte imprese. E non comprendono il sindacato. Le aziende della tecnologia, dei servizi alle imprese e della consulenza si muovono spedite e innovano modalità di lavoro, luoghi e metodi di gestione dei collaboratori. Soprattutto con i più giovani. Certo, non tutto è cambiato, ma il modello di riferimento è quello. Ed è un modello che esce dai vecchi confini organizzativi e dai vecchi vincoli contrattuali. Per questo ritengo che la sfida lanciata da Federmeccanica sia importante. Perché è innanzitutto una sfida culturale. Presenta dei rischi per il sindacato? Certo che sì. Il rischio di relazioni dirette nell’impresa tra capitale e lavoro che escluda i sindacati confederali, il progressivo consolidamento di “sindacati aziendali”, la messa in discussione di un modello che faceva nella “solidarietà tra uguali” il suo punto caratteristico, la concorrenza non solo tra giovani e anziani ma anche tra lavoratori di aziende diverse o di Paesi differenti. Parlare di “corresponsabilità” può portare anche in questa direzione. Ma questo presuppone un sindacato che non reagisce alle sollecitazioni del contesto. Un sindacato rassegnato che attende le proposte altrui. Un sindacato che non ha una sua lettura della “corresponsabilità” come gradino verso modelli futuri ancora più innovativi. Personalmente non so come si chiuderà il negoziato sul rinnovo contrattuale dei metalmeccanici in corso. So che Federmeccanica ha posto “il” problema. Le organizzazioni sindacali possono accontentarsi di respingere in tutto o in parte il potenziale strategico contenuto in quella proposta. Possono non condividerla o perfino banalizzarla. Il rischio è che la sottovalutino perché la vera svolta è lì dentro. Non c’è, come sembra pensare Landini, una proposta provocatoria da respingere al mittente. C’è una impostazione che guarda lontano. Vedremo come andrà a finire.
La stagione della corresponsabilità.
Il neo Presidente di Confindustria Boccia non poteva essere più chiaro all’assemblea di Federmeccanica: “vogliamo aprire una nuova stagione all’insegna della corresponsabilità”. Lo Stesso Presidente Sangalli di Confcommercio lo aveva ribadito nell’incontro con i vertici di CGIL, CISL e UIL propedeutico ad un percorso analogo che dovrà portare alla sigla di un accordo sui nuovi modelli contrattuali. E questa nuova stagione richiede una visione di lungo periodo e un protagonismo concreto dei corpi intermedi che, in questo modo, possono ribadire l’importanza di un negoziato autonomo e indipendente da ciò che il Governo potrebbe o vorrebbe fare sulla materia. Auspicando la firma del CCNL dei metalmeccanici prima di procedere nel merito con le tre confederazioni il Presidente Boccia ha ribadito l’importanza del cosiddetto “rinnovamento” contrattuale proposto da Federmeccanica come elemento centrale del nuovo approccio a cui punta Confindustria. Contrattazione decentrata come elemento fondamentale del sistema con una funzione di garanzia del CCNL per chi non intenderà seguire questa strada, centralità delle persona come soggetto attivo da valorizzare e corresponsabilizzazione tra capitale e lavoro come strategia di medio/lungo periodo. Infine la convinzione che al Paese non serva necessariamente un modello unico, uguale per tutti i settori economici. Quindi non ci sarà nessuna impostazione vincolante soprattutto per quei comparti che hanno scelto altre strade rispetto a Federmeccanica. Altre strade sulle modalità di erogazione del salario ma tutte convergenti sulla necessità di aprire o di consolidare un percorso costruttivo e positivo con i sindacati confederali. Nessun tentennamento sulla necessità di chiudere rapidamente i contratti ancora aperti come “avviso ai naviganti” sulle intenzioni e sulla volontà di guidare una svolta che guardi all’interesse del Paese da parte del nuovo gruppo dirigente di Confindustria. È indubbio che questo intervento aiuti e sostenga Federmeccanica nella sua “rivoluzione copernicana” ma la spinge inevitabilmente a trovare le mediazioni necessarie sulle modalità di erogazione salariale contenute nella proposta ribadita ancora nei suoi termini originari ai tre leader dei metalmeccanici. Da oggi il negoziato può finalmente entrare nel vivo. Sarà così? Dipenderà da diversi fattori. Innanzitutto dalla volontà della Cgil di giocare o meno la partita della “corresponsabilità” ed aprire, di fatto, una nuova stagione. Oltre tre milioni di firme raccolte per i suoi referendum non vanno certamente in questa direzione. Soprattutto raccolte nel totale silenzio (e dissenso) di CISL e UIL. Il segretario della FIOM Landini è l’unico che insiste sulla necessità di respingere in toto la proposta di “rinnovamento contrattuale” mentre sia Rocco Palombella della UILM che Marco Bentivogli della FIM si sono sempre concentrati sull’inadeguatezza della proposta salariale e questa non è una differenza da poco. Le stesse frequentazioni di Landini ad incontri della sinistra che vorrebbe contrastare Renzi e il suo Governo non fa presagire nulla di buono. Sul piano politico questo è il vero dilemma che si giocherà da qui al referendum. Innanzitutto per la CGIL e per Susanna Camusso perché un conto è essere “disintermediati” da Renzi insieme a tutti i corpi intermedi, un altro è auto emarginarsi a fronte di una possibile svolta che rimetterebbe anche la CGIL al centro della scena. Federmeccanica questo lo sa bene e quindi potrebbe essere suo interesse accelerare il confronto con proposte praticabili per spingere FIM e UILM a uscire allo scoperto rimettendo il negoziato su binari concreti. Personalmente continuo a credere che la CGIL (ma neanche la FIOM) non voglia diventare il megafono di una opposizione sociale destinato alla sconfitta e quindi alla marginalizzazione. Le vicende di mezza Europa, a cominciare dalla Francia, sono lì a dimostrarlo. Una nuova stagione servirebbe a tutti. Per questo auspico un cambio di rotta per il negoziato dei metalmeccanici. Un negoziato che può veramente segnare l’inizio di un cambio di scenario nell’interesse soprattutto del Paese.
Destra, sinistra e corpi intermedi italiani nella globalizzazione
La Brexit consente a tutti, finalmente, di aprire gli occhi. Dopo la Germania anche la Spagna si avvia inevitabilmente verso la grande coalizione. In Italia, le analisi sulla crisi europea tra centro destra e centro sinistra non si differenziano più di tanto. Sono segnali di convergenza. Lo stesso intervento di Galli della Loggia sul corriere segnala un fenomeno su cui è necessario riflettere. Oggi, in Europa, si affrontano sostanzialmente due grandi schieramenti. Da una parte le forze che si riconoscono nel sistema, dall’altra chi lo vuole superare o distruggere. È uno degli effetti della globalizzazione. E chi si riconosce nel sistema economico, sociale e politico, pur con proposte e priorità differenti, comincia a comprendere che l’avversario vero è un altro e che, se non affrontato con determinazione e unità di intenti, rischia di terremotate il sistema stesso. Lo stesso vale per il nostro Paese. Chi lo ha capito e prova a giocare una carta diversa è Milano come sottolinea Galli della Loggia. Lo ha capito perché l’Expo ha messo in moto un approccio diverso, interculturale e globale. Lo ha capito perché i due candidati proposti sia dal centro destra che dal centro sinistra erano simili anche se non uguali. Entrambi hanno parlato del futuro di Milano e non del passato. E, entrambi, possono contaminare positivamente i rispettivi schieramenti. E questo è un bene. Quello che sta succedendo in tutta Europa è sotto gli occhi di tutti. Il disorientamento dei “perdenti” della globalizzazione, non gestito, sta provocando reazioni che scardinano le politiche nazionali, ne provocano la rimessa in discussione facendo riemergere rigurgiti nazionalisti, populismi e chiusure difensive cavalcati con grave spregiudicatezza da forze politiche nuove non riconducibili alle tradizioni novecentesche. Questo scontro non lascia spazio né margini alle vecchie culture politiche se costrette nei loro recinti ideologici. O entrambe sapranno rigenerarsi attraverso un processo di convergenza sui temi principali (economia, migrazioni, lavoro e giovani) portando risultati credibili nei singoli Paesi e lasciando ad un secondo tempo le differenze su altri temi o dovranno capitolare davanti alle forze anti sistema. In Italia ci aspetta il referendum. È un passaggio importantissimo per il futuro del nostro Paese. Ed è il terreno sul quale le vecchie culture di destra e di sinistra hanno l’occasione di iniziare un processo di rigenerazione e di ripartenza. Per questo non credo nelle teorie che presentano come tripolare il nostro sistema. Al contrario, mai come in questo momento siamo di fronte ad un sistema bipolare. Da un lato chi vuole e può riformare il sistema dentro un disegno più ampio, dall’altro chi lo vuole abbattere. In italia però abbiamo una carta in più: i corpi intermedi con la loro rappresentatività sociale, la loro capacità di proposta e il loro radicamento territoriale. E i corpi intermedi possono dare un contributo importante. Mai come ora chi ha qualcosa da dire dovrebbe scendere in campo con determinazione e generosità. Non sono tempi di irresponsabili neutralismi. Il disorientamento e le paure di questa fase faranno emergere egoismi e rancori profondi che solo una grande unità di intenti di tutto il Paese potrebbe esorcizzare. Speriamo che questa necessità venga compresa e interpretata con forza.