La situazione legata al rinnovo del Ccnl Tds, Dmo e Coop rischia di ingarbugliarsi sempre di più. Ed è evidente che la responsabilità politica è tutta in capo ai negoziatori. Oggi poi, la dichiarazione di sciopero generale di CGIL e UIL, è destinata a peggiorare il quadro di riferimento nel quale la lunga trattativa finalizzata al rinnovo dei Ccnl si inserisce. Dall’altro lato pesa la divaricazione evidente sulle ipotesi di chiusura tra le diverse controparti datoriali (Confcommercio, Confesercenti, Federdistribuzione, Ancc-Coop, Confcooperative-Consumo e Utenza e Agci-Agrital). Ma procediamo con ordine.
Sul versante sindacale, sarebbe quanto meno singolare che Landini e Bombardieri, mentre dichiarano che le ragioni dello sciopero al centro della mobilitazione generale promossa da Cgil e Uil sono finalizzate ad “alzare i salari, estendere i diritti e per contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori” lascino che i loro due sindacati di categoria si dichiarino disponibili a concessioni in pejus sull’aumento salariale previsto dall’IPCA (previsto il 6,6% per il 2023). Così come sul fronte datoriale dove, Federdistribuzione e Distribuzione Cooperativa, puntavano, per chiudere, ad un semplice sconto sull’IPCA mentre Confcommercio forse per “vendicarsi” di vecchie diatribe associative, ha rilanciato alla ricerca di uno scambio oggi impossibile.
Lo sciopero generale proclamato, essendo uno sciopero politico, radicalizzerà ancora di più le posizioni. Non credo proprio che Filcams Cgil e Uiltucs UIL, due tra le categorie con il maggior numero di iscritti alle rispettive confederazioni, saranno disponibili a particolari concessioni sull’aumento salariale. Ed è sufficiente leggere i loro comunicati per capirlo. E questo rischia di spingere, l’intero contesto, in una situazione di tensione sociale che sarebbe assolutamente da evitare sia per dove è collocato lo sciopero, sia per l’evidente tensione sui temi del lavoro povero che attraversa l’intera categoria. Lo sciopero è infatti previsto per il 22 dicembre.
Secondo il sindacato, Federdistribuzione e le associazioni delle cooperative hanno “dichiarato apertamente di non poter accordare aumenti retributivi in linea con l’indice IPCA al netto dei beni energetici importati (cioè secondo le previsioni degli accordi interconfederali sugli assetti contrattuali vincolanti per la maggior parte delle nostre controparti). Federdistribuzione, come già nel 2019, puntava ad uno sconto sulle richieste salariali per chiudere la partita.
Donatella Prampolini vicepresidente Confcommercio con delega al lavoro e alla bilateralità ha rilanciato come fossimo all’inizio del percorso negoziale: “Per mantenere il livello di innovazione e di flessibilità che ha sempre caratterizzato il nostro contratto, abbiamo richiesto la revisione di alcune parti normative ormai desuete – dalla classificazione alle modalità di gestione dell’orario di lavoro in un’ ottica di produttività – nonché aggiornamenti in tema di stagionalità”.
Tradotto in soldoni visto che siamo tra commercianti. Federdistribuzione vuole uno sconto sulla richiesta (effettivamente costosa) dell’IPCA integrale chiesta dal sindacato mentre Confcommercio anziché lo sconto propone un “cambio merce” con altri istituti contrattuali.
Ovviamente i margini per trovare un accordo salariale di questi tempi, pur risicati, ci sarebbero. Nel resto d’Europa i rinnovi sono rimasti sotto l’IPCA italiana come ci ha recentemente spiegato Andrea Garnero su La Voce: “ Un indicatore sperimentale previsionale della crescita dei salari negoziati per Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna, elaborato dalla Banca centrale europea in collaborazione con le banche centrali nazionali dell’area dell’euro, mostra che i contratti collettivi stipulati nel corso del 2022 hanno generalmente previsto un aumento del 4,7 per cento per il 2023, rispetto al 4,4 per cento del 2022. Al di fuori dell’area dell’euro, in Danimarca, a febbraio è stato raggiunto un accordo nell’industria che prevede un aumento del 3,5 per cento nel 2023 e del 3,4 per cento nel 2024. In Norvegia, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2 per cento per i settori che fissano il riferimento generale (industria esportatrice e manifatturiera). In Svezia, i sindacati dell’industria e i datori di lavoro hanno concordato nuovi contratti collettivi per due anni, che prevedono aumenti salariali del 4,1 per cento nel primo anno e del 3,3 per cento nel secondo”. Percentuali, come si può vedere, abbastanza lontane dal 6,6 per cento previsto da noi.
Il termine “innovazione” in questo contesto, assume significati opposti a seconda di chi lo agita. Per i sindacati oltre alla proposta di aumento salariale in linea con l’IPCA avrebbe dovuto significare un rinnovamento del sistema di inquadramento professionale e un rafforzamento del diritto di ogni dipendente alla formazione continua; l’implementazione di tutele per le donne vittime di violenza e per la genitorialità e l’ampliamento della platea dei soggetti beneficiari dell’assistenza sanitaria integrativa e della previdenza complementare di settore. L’introduzione di norme ad hoc sul fenomeno delle affiliazioni commerciali, del franchising e delle attività esternalizzate, la riduzione della flessibilità e al contenimento dei contratti a termine e l’aumento delle ore dei contratti part-time e ai minimi contrattuali. Alcune di queste richieste sono assolutamente ragionevoli e già presenti in altri contratti e pure in molte realtà della GDO. Altre aggiungono costi o vincoli organizzativi difficili da prendere in considerazione dalle imprese, di questi tempi. Credo lo sappiano bene anche i sindacalisti più ragionevoli.
Restano in campo due intransigenze. Una di parte sindacale, che ho cercato di spiegare, sull’intangibilità dell’IPCA, in questo particolare contesto economico, una altrettanto irragionevole da parte di Confcommercio. Per questo nel mio ultimo intervento al riguardo (https://bit.ly/473xjIu) ho espresso le mie perplessità sul silenzio del Presidente Sangalli. L’ho trovato debole anche nella sua successiva difesa d’ufficio sulle ragioni dello stallo del negoziato.
Sinceramente pretendere oggi di definire “innovative” richieste di superamento o modifica di istituti contrattuali quali la 14° mensilità, i permessi retribuiti e gli scatti di anzianità, se poteva avere un senso negoziale qualche mese fa, oggi, con due sindacati su tre sul piede di guerra, suona come una banale provocazione per poter rinviare ancora una possibile conclusione. Il paradosso è che l’associazionismo imprenditoriale sul fronte GDO non può “innovare” il testo contrattuale perché non riesce a tradurre a livello nazionale ciò che di meglio viene già fatto in molte insegne. Unico elemento che consentirebbe uno “scambio” su altri temi “digeribile” dal sindacato. Mentre Confcommercio ormai fatica a presidiare una rappresentatività su settori alla ricerca di una loro identità a cui fornisce, di fatto, “solo” un salario minimo ante litteram e un welfare contrattuale. Sul resto non ha più alcuna leadership né capacità di innovazione riconosciuta sui temi del lavoro. Il risultato è quindi l’immobilismo più totale sul piano dei contenuti.
Ribadisco che una chiusura prima di Natale sarebbe auspicabile, proprio per evitare che la vicenda di un contratto scaduto da 4 anni e che riguarda circa 3 milioni gli addetti coinvolti nella vertenza, degeneri con ben altre conseguenze. Quindi la domanda da porsi è: “ a chi conviene questa totale deresponsabilizzazione e paralisi del tavolo negoziale”?