Esselunga. Un buon accordo sindacale che chiude una fase.

A Biandrate il contraccolpo  è stato forte. Esselunga ha rischiato molto. La partita era aperta da lungo tempo e coinvolgeva la Procura di Milano, il Prefetto di Novara, le autorità di pubblica sicurezza, i sindacati confederali e l’intero sistema di appalti dell’azienda di Pioltello. Tutto poi è precipitato  venerdì 20 ottobre quando i sindacati Slai e Ul Cobas hanno proclamato uno sciopero all’hub logistico di Biandrate. Brivio e Viganò, una realtà seria del comparto lo gestisce solo dal primo agosto.  È subentrata a 5 distinte cooperative nella gestione dell’hub logistico di Esselunga compresi i reparti frutta-verdura e drogheria facendosi carico di tutto il pregresso. Comprese le tensioni causate da situazioni mal gestite in precedenza che hanno contribuito a deteriorare il contesto e alimentato il conflitto.

La protesta durata ben 20 ore, con i camion impossibilitati ad entrare e uscire provocando ingenti danni alla distribuzione del supermercato. E’ risultato quindi necessario l’intervento della polizia per la riapertura, anche se ci sono stati ingenti danni che hanno impedito l’arrivo dei prodotti freschi in molti punti vendita  del supermercato e, nel momento più teso della protesta, è dovuta arrivare anche l’amministratore delegato di Esselunga Marina Caprotti.

Lo scontro avvenuto rappresenta solo la punta dell’iceberg di una situazione molto complicata legata ai contratti e alle condizioni lavorative degli addetti alla logistica in generale. Un discorso che non riguarda soltanto il polo novarese, ma diversi hub sparsi sul territorio nazionale. Esselunga ha deciso di fare un passo in avanti accettando di siglare un’intesa con i tre sindacati confederali Filcams CGIL, Fisascat CISL e Uiltucs UIL sull’internalizzazione di alcune attività e sulla regolamentazione  dei servizi in appalto.

L’accordo prevede l’internalizzazione dei servizi di produzione alimentare ed e-commerce e la garanzia che i servizi di logistica, pulizia/multiservizi e vigilanza concessi in appalto, rispettino i diritti dei lavoratori e dei principi di legalità, responsabilità sociale e trasparenza.

Il protocollo in concreto prevede:

– la garanzia di assunzione di tutti i lavoratori impiegati negli appalti delle attività che saranno internalizzate, compresi i lavoratori a termine e in somministrazione, e, per le attività che rimarranno in appalto, la garanzia di applicazione della contrattazione collettiva nazionale e territoriale il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso alle attività oggetto dell’appalto, che veda come parti firmatarie le federazioni sindacali facenti capo a Cgil, Cisl, Uil; 

– l’applicazione della clausola sociale per la salvaguardia occupazionale e reddituale in caso di cambio di appalto, anche qualora non sia prevista dal CCNL applicato;

– Esselunga si impegna inoltre a selezionare gli appaltatori in relazione a garanzie di affidabilità, capacità, organizzazione dei lavoratori e dei mezzi strumentali necessari per l’esecuzione dei servizi, know how e competenza adeguati agli standard qualitativi richiesti. Leggi tutto “Esselunga. Un buon accordo sindacale che chiude una fase.”

Contratto Nazionale commercio e DMO. Lavoratori e aziende vogliono chiuderlo. Da tempo.

A due settimane dallo sciopero del 22 dicembre indetto dai tre sindacati di categoria nulla si muove di concreto. Le dichiarazioni di disponibilità delle associazioni datoriali di queste ore lasciano il tempo che trovano. Ha cominciato Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, ha proseguito Donatella Prampolini, Vice Presidente di Confcommercio e, infine, è arrivato il comunicato di Federdistribuzione (https://bit.ly/4a8lGCd). Tutti, purtroppo,  fuori tempo massimo.

Quello che non si è fatto in quattro anni, diventerebbe improvvisamente fattibile in due settimane e solo dopo la dichiarazione di sciopero. Ovviamente nessuno ci crede. Da parte delle associazioni datoriali c’è la volontà, legittima, di “sgonfiare” il più possibile la partecipazione allo sciopero ed evitare di essere messi in un angolo dall’opinione pubblica con l’accusa di “insensibilità sociale”. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo pochi giorni dopo la firma del contratto dei bancari al di là della consistenza dell’aumento concordato con i sindacati, improponibile nel commercio,  ha affermato:  “bisogna dimostrare alle proprie persone che ci si prende cura di loro”. Parole  che, tra l’altro,  molte aziende della GDO e del commercio in generale condividono assolutamente.

In realtà, le associazioni e gli stessi sindacati hanno perso l’occasione di chiudere la partita quando, qualche mese fa erano maturate le condizioni per una conclusione equilibrata del contratto nazionale. L’IPCA non era ancora emersa nell’entità che poi si è evidenziata, il clima sociale nel Paese segnalava ancora una sottovalutazione generalizzata su contratti e sui rinnovi fermi da tempo, la discussione sul salario minimo non era ancora salita di tono e Landini non aveva deciso, insieme a Bombardieri, alcun braccio di ferro  con il Governo. Federdistribuzione, probabilmente dopo aver preteso a lungo una “distintività” del suo CCNL, che resta tuttora una semplice copia di quello  Confcommercio, sembrava  accontentarsi di qualche ritocco (verso il basso) della figura dei responsabili di punto vendita e poco più, in cambio di una moderazione sulle richieste salariali.

Confcommercio, sbagliando completamente i tempi,  ha pensando di poter ribadire, fuori tempo massimo,  innovazioni che altro non erano che provare a riprendersi con la mano destra ciò che a fatica veniva concesso con la sinistra. Forse ha pesato la competizione  con Federdistribuzione. Sicuramente è stata sottovalutato il contesto che andava maturando. Lì sono stati ribadite le richieste   su alcuni istituti contrattuali che, per la confederazione di Piazza Belli, si sarebbero dovuti modificare. Provocatorie per la Filcams CGIL ma altrettanto indigeste per la Uiltucs UIL e la Fisascat CISL.

Senza interlocutori sindacali disponibili alla mediazione, Confcommercio e Federdistribuzione, insieme agli altri protagonisti,  non hanno avuto la sensibilità di comprendere per tempo  il cambiamento di clima sociale che andava affermandosi nel Paese. I segnali di disaffezione dei giovani per la qualità del lavoro offerto, l’aumento delle dimissioni e l’inflazione che, crescendo, non colpiva solo i consumatori ma anche i lavoratori del comparto. Le polemiche sul lavoro povero che oltre alla logistica, lambisce pericolosamente i confini del comparto portando, all’ordine del giorno, sia i  famosi contratti “pirata” ma anche una pericolosa contaminazione da parte del sindacalismo di base propugnato dai COBAS che tende ad inserirsi nelle contraddizioni che, un negoziato nato male e proseguito ancora peggio, determina…

Non è stato considerato che, ad esempio,  sul versante sindacale nessuna delle tre organizzazioni  vanta una leadership forte e riconosciuta dalle altre due sigle. Cosa   che in passato aveva consentito svolte ai negoziati nei momenti difficili. Così, sul versante  datoriale,  il clima permanente di competitività tra le diverse associazioni  e la volontà di esercitare una leadership, indigesta agli altri, da parte di Confcommercio, hanno fatto il resto. 
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Caos tra gli scaffali della Leroy Merlin. Dove ci può portare?

I Cobas esultano in quel di Biandrate. Dopo una  ventina di  giorni di scontro duro sui piazzali (https://bit.ly/3tKwkhU) con conseguenze gravissime sui rifornimenti ad Esselunga, l’azienda che ne gestisce i magazzini ha preferito ritirare la sospensione cautelare dei 28 lavoratori. Brivio e Viganò dal primo agosto è subentrata a 5 distinte cooperative nella gestione dell’hub logistico di Esselunga per i reparti frutta-verdura e drogheria facendosi carico di tutto il pregresso. Comprese le tensioni causate da situazioni mal gestite in precedenza che hanno contribuito a deteriorare il contesto e alimentato il conflitto.

 Ha ragione  il sindacalista dello Slai Cobas Massimino Dell’Orfano quando dichiara che quello che è avvenuto “passerà alla storia”. Nulla sarà più come prima. Il blocco ermetico delle merci in uscita per 20 ore tra il 20 e 21 ottobre per indurre l’azienda a revocare le 28 “espulsioni” di lavoratori sui piazzali segnano la prima grande vittoria dei Cobas nel comparto.  Come ho già scritto, quando il Gip del Tribunale di Milano sez. penale, ha archiviato il procedimento a carico di 32 lavoratori e attivisti del SI Cobas  per i fatti accaduti durante gli scioperi avvenuti ad agosto e settembre 2021 fuori ai cancelli dei magazzini Unes – Brivio & Viganò di Truccazzano e Vimodrone (MI) ha determinato  una svolta destinata a produrre inevitabili conseguenze. La degenerazione delle lotte sindacali promosse dai sindacati di base sui piazzali della logistica e la crisi di leadership del sindacalismo confederale, stanno creando un corto circuito pericoloso.  

Aggiungo che quando si legge in una sentenza della magistratura che: “un picchetto fuori dai cancelli in occasione di uno sciopero, condotto dai lavoratori attraverso l’ostruzione delle vie d’accesso al posto di lavoro operata con la loro presenza fisica e finalizzato ad impedire l’ingresso delle merci, non è punibile poiché tale forma di lotta è parte integrante del diritto di sciopero e della libera iniziativa sindacale, tutelate dagli articoli 39 e 40 della Costituzione” si può comprendere benissimo la traiettoria dove potrà portare. Ci siamo già passati negli anni 60 e 70 del secolo scorso.
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Si riaccende lo scontro sui piazzali della logistica. Leroy Merlin di nuovo sotto tiro.

Sono mesi che denuncio il rischio gravissimo di degenerazione del conflitto che sui piazzali della logistica sta coinvolgendo anche aziende della grande distribuzione o presenti nelle gallerie dei centri commerciali. Le recenti sentenze della magistratura milanese sulla liceità del blocco delle merci sta dando fiato alle forme di lotta più estreme sostenute proprio dal sindacalismo di base in spregio alle regole che il sindacalismo confederale ha sempre rispettato e che hanno via via coinvolto Unes,  Esselunga e il suo partner logistico.  In questi giorni  si è riacutizzata la vertenza Leroy Merlin e, notizia altrettanto recente, il centro commerciale Bennet di San Martino Siccomario, è stato invaso da militanti del SI Cobas armati di  fischietti, bandiere e striscioni, per un paio  d’ore, cercando di bloccare   la galleria dove si trova il negozio Sephora  il cui trasferimento del magazzino logistico di Vellezzo Bellini a Castel San Giovanni era già previsto da tempo.

Sotto i riflettori, in queste ore, ci ritorna pure Leroy Merlin. Com’era prevedibile negli incontri  che si sono succeduti presso la prefettura di Piacenza, l’azienda ha sempre confermato la decisione di lasciare il magazzino logistico di Castel San Giovanni. La novità importante è che Leroy Merlin si era ed è impegnata a supportare Iron Log nella ricollocazione di una parte dei lavoratori presso un altro provider logistico all’interno del deposito sito a Mantova, nonché a collaborare affinché Iron Log possa porre in essere un complessivo piano di incentivazione finalizzato ad agevolare la ricollocazione dei lavoratori anche attraverso il servizio di outplacement. 

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Contratto Terziario, DMO e cooperative. Lotta dura, senza premura…

“Lotta dura, senza premura” è stato lo slogan che più di altri ha accompagnato la vicenda contrattuale del commercio. Almeno fino ad ora. I sindacati di categoria, con la fissazione della data dello sciopero, rompono gli indugi e alzano il tiro nella speranza di rimettere in moto il negoziato. La data è fissata: venerdì 22 dicembre. Un venerdì a tre giorni dal Natale. Data non casuale. Per le insegne, meglio quel venerdì che il sabato successivo. Periodo di acquisti e di forte frequentazione  dei punti vendita e quindi anche di maggiore interesse mediatico per l’iniziativa.  La vera ragione della scelta.  Una cosa però va sottolineata. Dal dibattito che è emerso nell’assemblea,  Il lungo percorso di confronto contrattuale sembra essere passato invano. Le differenze, anziché ridursi come sempre avviene, si sono addirittura accentuate, cristallizzando le posizioni.

L’ultima firma risale al 2015. Otto anni nei quali i rispettivi gruppi dirigenti sono cambiati senza essere sostituiti da leadership autorevoli in grado di proporre sintesi e chiudere la partita. La scadenza del 2019 per Confcommercio è stata disattesa e depotenziata da un paio di firme in dumping (Federdistribuzione e Confesercenti)  sul salario, concordato con i tre sindacati. Un vulnus che ha creato un contesto di sospetti reciproci e di competizione   tra le associazioni datoriali le cui conseguenze sono tra le numerose cause del lungo stallo. Un esempio di come una sottovalutazione  grave compiuta essenzialmente dalle leadership delle organizzazioni sindacali di allora, si è trascinata nel tempo presentando il conto al rinnovo successivo. Cosa assolutamente prevedibile. 

La composizione dei partecipanti  all’assemblea unitaria dei tre sindacati di categoria (https://bit.ly/40PtvbO) per la prima volta non ha riguardato solo  l’area del CCNL del Terziario, della DMO e della cooperazione. Ha coinvolto anche il turismo e la ristorazione in tutte le sue declinazioni. È un tentativo, assolutamente legittimo,  del sindacato di categoria di presentarsi  al Paese come rappresentante di un bacino di almeno cinque milioni di lavoratori ancora sprovvisti di rinnovo contrattuale. E questa  è una novità assoluta. Tre sindacati di fronte a una decina di controparti. Ciascuna alla ricerca di una sua distintività.

Che cosa è uscito dall’assemblea?

Ovviamente la dichiarazione di sciopero, essendo  una prova di forza unitaria che prevede una mobilitazione di piazza, annulla le diverse sensibilità sui possibili punti di caduta possibili, pur presenti, tra i tre sindacati. Fabrizio Russo segretario generale della Filcams CGIL punta ad una mobilitazione di lunga durata. Da poco eletto, “convinto sostenitore” di Landini e del nuovo profilo di lotta della CGIL non è alla ricerca di facili mediazioni.  “Il loro tempo è finito. Adesso comincia il nostro. La nostra controparte non ha il senso del limite” ha dichiarato e ha promesso una  campagna di mobilitazione che arrivi addirittura a colpire l’immagine delle aziende del comparto. “Ci aspettano mesi difficili” ha concluso. Paolo Andreani, segretario generale della Uiltucs, anch’egli di recente  nomina, se l’è presa con chi chiede ulteriore flessibilità. Ha definito “una polpetta avvelenata”  lo scambio proposto da Confcommercio teso a ridurre l’impatto dell’aumento attraverso uno scambio con altre parti del CCNL. Ha respinto con sdegno  l’offerta di anticipo sui futuri aumenti contrattuali proposto  dalle cooperative  per la sua esiguità ma non è stato altrettanto insensibile alle  proposte economiche ventilate da  Federdistribuzione. 

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Contratto commercio e DMO. Come trovarsi con il salario minimo pur dichiarando di non volerlo….

È chiaro che aziende e lavoratori, del commercio, del terziario e della DMO vorrebbero arrivare ad una conclusione positiva del rinnovo del loro contratto di lavoro. La situazione delle retribuzioni nel comparto è assolutamente prioritaria. L’ultima firma vera è del 2015 per un CCNL che avrebbe dovuto scadere nel 2019 e che invece è tuttora aperto. Tre milioni di persone che si sommano a tutte le altre categorie che nel Paese sono sprovviste di rinnovo.  I segnali sono evidenti.

L’ultima, in ordine di tempo, è la proposta che sta prendendo piede di concedere, da parte delle aziende, un anticipo unilaterale sui futuri aumenti contrattuali (AFAC). Servirebbe a neutralizzare lo sciopero e, posta a vicino al Natale, dove tutti dovrebbero diventare più buoni, assumerebbe pure un significato particolare. Decisione possibile che però costituirebbe  la delegittimazione finale  di un tavolo negoziale che non è mai decollato per manifesta insufficienza di chi ne ha la responsabilità politica e non riesce ad esercitarla.

Con questa mossa il più grande contratto nazionale del Paese imboccherebbe con decisione  la strada che porta, di fatto,  ad una forma “innovativa” di salario minimo seppure unilaterale. Infatti come potrebbe essere definito un contratto nazionale che non viene rinnovato da 4 anni e che viene sostituito da erogazioni salariali extra negoziato? Si arriverebbe così all’ammissione di ciò che molti vanno sostenendo da tempo. I contratti nazionali così come sono stati costruiti nel novecento con il loro carico di norme, diritti, doveri, profili professionali, minimi contrattuali e con tutto ciò che da essi deriva, a cominciare dall’importante welfare previdenziale e sanitario, non vengono messi in discussione dall’adozione dal basso di altre normative auto prodotte localmente più snelle come i cosiddetti “contratti pirata” ma vengono messi in soffitta degli stessi stipulanti per manifesta incapacità di rinnovarne i contenuti.

Il passaggio, di fatto al salario minimo, non è necessario che avvenga per forza attraverso una legge o come risultato di un confronto tra le parti sociali ma può avvenire per semplice esaurimento di un ciclo storico o per incapacità di rilanciare lo strumento, nei suoi contenuti, condannandolo all’obsolescenza. In fondo molte aziende, soprattutto medio piccole, che sono la maggioranza,  vorrebbero proprio questo. Stabilire alcune regole del gioco universali sui diritti e sui doveri, riferimenti laschi al l’inquadramento professionale, un minimo economico di riferimento della categoria che lasci spazio a forme di corresponsabilizzazione sul reale andamento aziendale, che premi il merito individuale e che metta definitivamente in soffitta i costi del welfare contrattuale. Lasciando spazio e maggiore libertà di azione nelle singole realtà e il decollo, anche sul lavoro, di una competitività tra insegne che, in tempi di difficile reperimento delle risorse umane necessarie, potrebbe dimostrarsi decisivo.

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Contratto terziario, Commercio e Distribuzione moderna. Un passo avanti, due indietro

La situazione legata al rinnovo del Ccnl Tds, Dmo e Coop rischia di ingarbugliarsi sempre di più. Ed è evidente che la responsabilità politica è tutta in capo ai negoziatori. Oggi poi, la dichiarazione di sciopero generale di CGIL e UIL, è destinata a peggiorare il quadro di riferimento nel quale la lunga trattativa finalizzata al rinnovo dei Ccnl si inserisce. Dall’altro lato  pesa la divaricazione evidente sulle ipotesi di chiusura tra le diverse controparti datoriali (Confcommercio, Confesercenti, Federdistribuzione, Ancc-Coop, Confcooperative-Consumo e Utenza e Agci-Agrital). Ma procediamo con ordine.

Sul versante sindacale, sarebbe quanto meno singolare che Landini e Bombardieri, mentre dichiarano che le ragioni dello sciopero al centro della mobilitazione generale  promossa da Cgil e Uil sono finalizzate ad “alzare i salari, estendere i diritti e per contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori” lascino che i loro due sindacati di categoria si dichiarino disponibili a concessioni in pejus sull’aumento salariale previsto dall’IPCA (previsto il 6,6% per il 2023). Così come sul fronte datoriale dove, Federdistribuzione e Distribuzione Cooperativa, puntavano, per chiudere, ad un semplice sconto sull’IPCA mentre Confcommercio forse per “vendicarsi” di vecchie diatribe associative, ha rilanciato  alla ricerca di uno scambio oggi  impossibile.

Lo sciopero generale proclamato, essendo uno sciopero politico, radicalizzerà ancora di più le posizioni. Non credo proprio che Filcams Cgil e Uiltucs UIL, due tra le categorie con il maggior numero di iscritti alle rispettive confederazioni,  saranno disponibili a particolari concessioni sull’aumento salariale. Ed è  sufficiente leggere i loro comunicati per capirlo. E questo rischia di spingere,  l’intero contesto, in una situazione di tensione sociale che sarebbe assolutamente da evitare  sia per dove è collocato lo sciopero, sia per l’evidente tensione sui temi del lavoro povero che attraversa l’intera categoria.  Lo sciopero è infatti previsto per il 22 dicembre.

 Secondo il sindacato, Federdistribuzione e le associazioni delle cooperative  hanno “dichiarato apertamente di non poter accordare aumenti retributivi in linea con l’indice IPCA al netto dei beni energetici importati (cioè secondo le previsioni degli accordi interconfederali sugli assetti contrattuali vincolanti per la maggior parte delle nostre controparti). Federdistribuzione, come già nel 2019,  puntava ad uno sconto sulle richieste salariali per chiudere la partita.

Donatella Prampolini vicepresidente Confcommercio con delega al lavoro e alla bilateralità ha rilanciato come fossimo all’inizio del percorso negoziale: “Per mantenere il livello di innovazione e di flessibilità che ha sempre caratterizzato il nostro contratto, abbiamo richiesto la revisione di alcune parti normative ormai desuete – dalla classificazione alle modalità di gestione dell’orario di lavoro in un’ ottica di produttività – nonché aggiornamenti in tema di stagionalità”.

Tradotto in soldoni visto che siamo tra commercianti. Federdistribuzione vuole uno sconto sulla richiesta (effettivamente costosa) dell’IPCA integrale chiesta dal sindacato mentre Confcommercio anziché lo sconto propone un “cambio merce” con altri istituti contrattuali.

Ovviamente i margini per trovare un accordo salariale di questi tempi, pur risicati, ci sarebbero. Nel  resto d’Europa i rinnovi sono rimasti sotto l’IPCA italiana come ci ha recentemente spiegato Andrea Garnero su La Voce: “ Un indicatore sperimentale previsionale della crescita dei salari negoziati per Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna, elaborato dalla Banca centrale europea in collaborazione con le banche centrali nazionali dell’area dell’euro, mostra che i contratti collettivi stipulati nel corso del 2022 hanno generalmente previsto un aumento del 4,7 per cento per il 2023, rispetto al 4,4 per cento del 2022. Al di fuori dell’area dell’euro, in Danimarca, a febbraio è stato raggiunto un accordo nell’industria che prevede un aumento del 3,5 per cento nel 2023 e del 3,4 per cento nel 2024. In Norvegia, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2 per cento per i settori che fissano il riferimento generale (industria esportatrice e manifatturiera). In Svezia, i sindacati dell’industria e i datori di lavoro hanno concordato nuovi contratti collettivi per due anni, che prevedono aumenti salariali del 4,1 per cento nel primo anno e del 3,3 per cento nel secondo”. Percentuali, come si può vedere,  abbastanza lontane dal 6,6 per cento previsto da noi.

Il termine “innovazione” in questo contesto, assume significati opposti a seconda di chi lo agita. Per i sindacati oltre alla proposta di aumento salariale in linea con l’IPCA avrebbe dovuto significare un rinnovamento del sistema di inquadramento professionale e un rafforzamento del diritto di ogni dipendente alla formazione continua; l’implementazione di tutele per le donne vittime di violenza e per la genitorialità e l’ampliamento della platea dei soggetti beneficiari dell’assistenza sanitaria integrativa e della previdenza complementare di settore. L’introduzione di norme ad hoc sul fenomeno delle affiliazioni commerciali, del franchising e delle attività esternalizzate, la riduzione della flessibilità e al contenimento dei contratti a termine e l’aumento delle ore dei  contratti part-time e ai minimi contrattuali. Alcune di queste richieste sono assolutamente ragionevoli e già presenti in altri contratti e pure in molte realtà della GDO. Altre aggiungono costi o vincoli organizzativi difficili da prendere in considerazione dalle imprese, di questi tempi. Credo lo sappiano bene anche i sindacalisti più ragionevoli.

Restano in campo due intransigenze. Una di parte sindacale, che ho cercato di spiegare, sull’intangibilità dell’IPCA, in questo particolare contesto economico, una altrettanto irragionevole da parte di Confcommercio. Per questo nel mio ultimo intervento al riguardo (https://bit.ly/473xjIu) ho espresso le mie perplessità sul silenzio del Presidente Sangalli. L’ho trovato debole anche nella sua successiva difesa d’ufficio  sulle ragioni dello stallo del negoziato.

Sinceramente pretendere oggi di definire  “innovative” richieste di superamento o modifica  di istituti contrattuali quali la 14° mensilità‌, i permessi retribuiti e gli scatti di anzianità,‌ se poteva avere un senso negoziale qualche mese fa, oggi,  con due sindacati su tre  sul piede di guerra,  suona come una banale provocazione per poter rinviare ancora una possibile conclusione. Il paradosso è che l’associazionismo imprenditoriale sul fronte GDO non può “innovare” il testo contrattuale perché non riesce a tradurre a livello nazionale ciò che di meglio viene già fatto in molte insegne. Unico elemento che consentirebbe uno “scambio” su altri temi “digeribile” dal sindacato. Mentre Confcommercio ormai fatica a presidiare una rappresentatività su settori alla ricerca di una loro identità a cui fornisce, di fatto, “solo” un salario minimo ante litteram e un welfare contrattuale. Sul resto non ha più alcuna leadership né capacità di innovazione riconosciuta sui temi del lavoro. Il risultato  è quindi l’immobilismo più totale sul piano dei contenuti.

Ribadisco che una chiusura prima di Natale sarebbe auspicabile, proprio per evitare che la vicenda di un contratto scaduto da 4 anni e che riguarda circa 3 milioni gli addetti coinvolti nella vertenza, degeneri con ben altre conseguenze. Quindi la domanda da porsi è: “ a chi conviene questa totale deresponsabilizzazione e paralisi del tavolo negoziale”?

Rinnovo CCNL Terziario e Distribuzione. Due debolezze che si elidono a vicenda

Alle riflessioni già fatte sullo stallo nel rinnovo del CCNL del terziario e della DMO (https://bit.ly/3tKwkhU) aggiungo altri elementi di approfondimento perché l’impasse attuale è anche figlia della stessa composizione delle delegazioni al tavolo negoziale. C’è un’evidente crisi di autorevolezza di entrambe le leadership nei confronti delle rispettive  controparti. Nessuno riesce a convincere  l’altro delle  proprie  buone ragioni poste da tempo al confronto.

Sul fronte datoriale lo stallo è evidente (il silenzio ad esempio del Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli dopo quattro anni di tira e molla  è assordante). Confcommercio è ferma al palo come mai avvenuto in passato. Affidare la possibile mediazione finale alla Vice Presidente Donatella Prampolini, che ha la stessa flessibilità di una barra di tungsteno, chiarisce più di mille parole lo stato dell’arte.  La stessa Federdistribuzione non sembra essere in grado di  consolidare  una logica di governo del comparto garantita  solo dal CCNL. Cerca una specificità che li possa distinguere dalla fotocopia sostanziale del loro testo con quello di Confcommercio concordato  a suo tempo, ben sapendo che le aziende associate si muovono autonomamente  interpretandone i contenuti ciascuna a casa propria. È c’è pure chi applica tutt’altro. Troppo marcate le differenze e le esigenze tra singole insegne e formati distributivi.

Sul fronte  sindacale, i cambiamenti avvenuti ai vertici dei sindacati di categoria dall’ultimo CCNL, scaduto nel 2019, non hanno ancora prodotto  figure autorevoli  in grado di avanzare sintesi accettabili. Ruolo fondamentale nei delicati passaggi che precedono la conclusione di un contratto nazionale. L’impressione è che ognuno guardi solo in casa  propria, e mantenga una certa diffidenza, sulle possibili proposte di mediazione. Cosa peraltro sempre avvenuta. Aggiungo che, il ricorso alla piazza per imprimere una svolta al negoziato (https://bit.ly/3S9NcJ0), pur legittimo, rischia di inserirsi nelle dinamiche e nella competitività  tra sindacati confederali che stanno montando su altri piani e di rendere ancora più difficile un possibile compromesso.

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Grande Distribuzione tra Rinnovo del CCNL che non c’è, contratti pirata e Cobas nella logistica

È difficile spiegare a chi non vuole o non può capire che il rinnovo del contratto nazionale è interesse comune. Spingere il sindacato confederale di categoria a scendere in piazza per sbloccare il negoziato è un errore che si sarebbe dovuto evitare (https://bit.ly/3S9NcJ0). L’inflazione non colpisce solo i consumatori. Il rimpallo delle responsabilità tra Federdistribuzione, Confcommercio  e i sindacati di categoria sta diventando insostenibile. Occorre una dose maggiore di sensibilità sociale per chiudere una partita aperta ormai da troppo tempo.

È ovvio che non tutte le colpe sono delle associazioni e delle loro contraddizioni. Anche il sindacato ha le sue. Ma qui siamo di fronte ad un deficit di classe dirigente e della loro incapacità di affrontare e chiudere una vicenda ormai grottesca. Lo sforzo che è stato messo in piedi con il patto anti inflazione è lì a dimostrare che ci sono momenti dove è necessario assumersi le proprie responsabilità. Sul CCNL, scaduto nel 2019,  questa assunzione di responsabilità politica non c’è.

Parto da due fatti apparentemente lontani che segnalano la deriva sempre più evidente di un sistema sul quale occorrerebbe riflettere.  Prima che sia troppo tardi. Due facce, purtroppo,  della stessa medaglia. Il primo si è sviluppato  principalmente a sud. Il secondo nel centro nord. La contrattazione sostitutiva del CCNL (la famosa contrattazione “pirata”) sta prendendo piede producendo una degenerazione del sistema. Anche  nella GDO. Un indubbio vantaggio competitivo per chi si smarca dai CCNL. Una incapacità evidente di inquadrare questa scelta  nelle prospettive del comparto e delle conseguenze possibili se l’intero sistema, così facendo, tenderà a  sfaldarsi.

La contrattazione “pirata” crea dumping tra imprese e svuota il contratto nazionale di lavoro. Per ora la sua espansione è ridotta a qualche centinaio di realtà territoriali ma la corda prima o poi, è destinata a spezzarsi. Certo è difficile spiegare ad un piccolo imprenditore impegnato a difendere il proprio fatturato e i propri margini che i rischi di degenerazione del sistema ricadranno, in prospettiva, anche su di lui. Così come è altrettanto arduo convincere sindacati confederali e associazioni di impresa che più che vagheggiare la cancellazione della contrattazione “pirata” per legge occorrerebbe affrontarne le ragioni  che l’alimentano e le possibili strategie per superarla insieme. Leggi tutto “Grande Distribuzione tra Rinnovo del CCNL che non c’è, contratti pirata e Cobas nella logistica”

UNES. Quando una procedura di riduzione del personale non ben valutata fa più danni di ciò che vorrebbe risolvere….

Nell’incontro del 19 ottobre presso il Glam Hotel di Milano si è tenuto il secondo incontro con la direzione di UNES previsto dalla procedura di riduzione di personale presentata il 29 settembre. Secondo fonti sindacali l’azienda ha inizialmente ribadito il suo progetto: un cosiddetto “referente aziendale” inquadrato nel secondo livello del CCNL che avrebbe dovuto sostituire formalmente il “direttore” pur continuando a svolgere le medesime attività di primo livello. Quindi nessuna riduzione  di attività e funzioni. Solo di stipendio. Una richiesta  che, presentata così,  è stata rispedita al mittente.

E,  continuando a leggere  il comunicato sindacale:  “Le figure ritenute idonee a ricoprire tale ruolo sarebbero state individuate da un’agenzia di consulenza esterna attraverso prove scritte ed orali e tramite criteri del tutto discrezionali, mentre quelle non idonee sarebbero state automaticamente ritenute in esubero e dunque destinate all’uscita o ad un mortificante demansionamento, utile esclusivamente alla salvaguardia occupazionale”.

Il sindacato, com’era prevedibile,  non  ha potuto far altro che respingere questa impostazione. Creare figure professionali al di fuori del perimetro del CCNL in presenza in azienda  dei titolari del ruolo cercando di sotto  inquadrarle sarebbe stata una operazione  che non avrebbe retto a lungo in nessun tribunale. Anche da parte di chi, obtorto collo, l’avesse accettata e quindi subita, in alternativa al licenziamento. Il ripensamento dell’azienda, pressata dai sindacalisti presenti, ha però segnalato la persistente confusione del management sulla scelte organizzative in grado di contribuire, attraverso un contenimento dei costi,  ad un possibile rilancio dell’azienda.

Rilancio che non sembra essere, a detta dei sindacalisti,  presente nelle parole dei responsabili aziendali al tavolo. La causa della procedura stessa  sarebbe da ricercare  nell’espansione dei discount, nei concorrenti, nell’inflazione, nel destino cinico e baro, ecc. Insomma la colpa è da ricercare altrove. Non bisogna essere degli esperti per comprendere che tagli pesanti del personale non accompagnati da un’idea di futuro o almeno, da una parvenza  di rilancio non portano da nessuna parte. Scartata quindi la prima proposta, assolutamente impraticabile, la nuova prevederebbe il mantenimento dell’attuale figura del “Responsabile del punto vendita”, inquadrato come previsto dal CCNL. Gli esuberi (101 unità) il cui numero  resta invariato, verrebbero gestiti, sollecitando possibili scelte individuali, attraverso  3 opzioni: 

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