In questi giorni prevale il risentimento. Chi mette in discussione lo status quo è comunque e sempre colpevole. L’assurdo è che fino al giorno prima del referendum questa Europa non piaceva a nessuno. Adesso è una sequela di insulti contro gli inglesi “vecchi e campagnoli”, i loro giovani pavidi che non sono andati a votare, contro gli stessi istituti democratici che, addirittura, non sarebbero adatti all’espressione della volontà popolare su temi di questa portata. Il tutto condito da opinioni legittime quanto legate ad un mondo che ha le sue radici nel ‘900 e che non riesce a interpretare il nuovo paradigma insito nella globalizzazione. La finanza mondiale e, di conseguenza le multinazionali, spostano interessi, produzioni e affari dove conviene loro mentre i singoli Stati pensano di continuare a “giocare” con i loro interessi particolari dettando regole difensive, presidiando confini obsoleti e rinviando ad un futuro remoto scelte e decisioni che, prese oggi, consentirebbero di incidere sulla qualità della democrazia, sull’ambiente e sul futuro dei nostri figli. La scelta della Gran Bretagna è solo la rappresentazione plastica di una realtà che ci riguarda tutti. Una politica minuscola non può competere con il disorientamento e le paure di milioni di individui. Ma la politica è minuscola perché in questa transizione lo spazio assegnatole è ridotto dai vincoli che essa stessa si è creata in rapporto alla globalizzazione e alla interconnessione economica. L’Europa delle banche e della finanza ha dettato le sue regole e ha reso il sogno europeo un succedaneo di quanto avrebbero voluto i suoi costruttori. Adesso gli inglesi, ci consentono, di fatto, una nuova occasione. Per questo non dobbiamo farci condizionare da un dibattito che, a noi, che non siamo chiamati a decidere nulla, ci fa migliori di quelli che in realtà siamo. Ha ragione Gianni Pittella: ora o mai più. Occorre mettere la mordacchia alla burocrazia di Bruxelles e muoversi con coraggio e determinazione. Senza prendersela con falsi colpevoli. I colpevoli veri siamo tutti noi. È vero che il popolo duemila anni fa scelse Barabba e non Gesù. Ma, vista con gli occhi di oggi, mai un popolo fece scelta fu più azzeccata. Anche se lo si è capito solo molto più avanti.
Negoziato metalmeccanici e nuovo modello contrattuale
Se qualcuno nutriva aspettative su presunti spazi di manovra nel prossimo confronto sul nuovo modello contrattuale con Confindustria il Presidente Boccia, oggi, sul Corriere, ha sciolto ogni possibile equivoco confermando, di fatto, il suo appoggio alla posizione di Federmeccanica. L’elemento centrale del nuovo modello proposto, nelle intenzioni di Confindustria, dovrà essere caratterizzato dallo scambio salario-produttività con la sola funzione di garanzia affidata al contratto nazionale. La Brexit, semmai ci fossero stati dubbi derivati dai differenti comportamenti dei chimici e degli alimentaristi nell’era Squinzi, sembra chiuda definitivamente una stagione. E, per rendere ancora più chiaro il messaggio, Boccia dice chiaramente di essere intenzionato ad aprire il negoziato solo dopo la conclusione del contratto dei metalmeccanici. Quindi se non maturano nuovi elementi di riflessione tra i negoziatori sull’unica proposta presente sul tavolo, il rinvio in autunno della partita appare inevitabile. La stessa richiesta del segretario generale della FIOM Landini tesa a far scendere in campo la politica è destinata a restare senza risposta, soprattutto da oggi, quindi occorre prendere atto della complessità della situazione che sicuramente la Brexit aggrava. Personalmente continuo a pensare che la partita possa essere chiusa prima dell’estate e che sarebbe interesse di tutti concluderla prima che il costo per i lavoratori e per alcune imprese sia troppo alto o sproporzionato. Così come che la proposta di Federmeccanica consente spazi negoziali di manovra sufficienti pur restando nell’impianto presentato. Il punto vero è rappresentato dalle dimensione delle dinamiche retributive da definire per l’intera durata del prossimo contratto, come verranno determinate e cosa succede nelle imprese che, per varie ragioni, si dovessero sottrarre da negoziati aziendali. Stabilito questo che dà certezze alle aziende per il futuro, c’è da trovare una soluzione per il passato perché il passaggio da un sistema a doppio binario (nazionale e aziendale) ad uno a binario singolo (nazionale o aziendale) necessita comunque di essere metabolizzato. Su questo, insisto, manca una proposta sindacale esplicita e negoziabile. E quindi, delle due l’una, o l’obiettivo del sindacato è il semplice ritiro della proposta datoriale e il ritorno alla discussione su una delle due piattaforme presentate o la speranza di una conclusione positiva è affidata ad interventi esterni che, in qualche modo, conducano ad una mediazione che consenta ad entrambi di uscire alla meno peggio dal confronto in atto. Resto convinto che entrambe queste ipotesi siano dannose sia sul piano delle relazioni industriali sia sul piano della crescita di una nuova cultura tra capitale e lavoro. La fine del modello fordista ha conseguenze anche sul piano contrattuale perché credo sia evidente che stiamo andando verso un sistema fortemente differenziato tra settori che, nel tempo, porterà inevitabilmente a modelli nei quali ogni azienda opterà in base a necessità costruite su misura all’interno di regole generali definite dalla legge e dai contratti nazionali. Cgil, Cisl e Uil oggi, ed è comprensibile, cercheranno di aggirare il problema puntando ad accordi con le diverse associazioni datoriali che isolino la posizione di Confindustria e quindi di Federmeccanica. Ma i tempi sono cambiati. E la stessa Brexit non consente tatticismi. Questo è il tempo per leader che sanno alzare lo sguardo per costruire il futuro. Lo chiedono i lavoratori che aderiscono con convinzione alle iniziative del sindacato dei metalmeccanici e lo chiedono le imprese alle proprie rappresentanze. Ed è la qualità delle risposte che farà la differenza.
Contratto metalmeccanici, un passo avanti e due indietro? Speriamo di no…
Lo scontro sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici non sembra in grado di produrre una possibile ricomposizione positiva e quindi una sua conclusione prima dell’estate. Il nodo non è di poco conto. Federmeccanica continua a ribadire con forza le sue buone ragioni alla base della proposta di “rinnovamento contrattuale” mentre dall’altro lato della barricata i sindacati insistono affidando agli scioperi proclamati la (im)possibile “capitolazione” in chiave tradizionale dell’interlocutore. È una situazione che rischia di riproporre la cultura tipica dei rinnovi contrattuali del passato pur in presenza di situazioni economiche e sociali profondamente diverse. L’incomunicabilità non serve a nessuno però, in questo contesto, credo non favorisca sopratutto il sindacato. E questo dovrebbe costituire, a mio parere, un importante elemento di riflessione. Le imprese sono impegnate in un grande processo di riorientamento organizzativo e culturale. Un processo complesso, difficile ma decisivo per il loro futuro. In una recente ricerca di Oxford Economics, un importante istituto di analisi economica per SAP che ha coinvolto oltre 21 Paesi i risultati sono evidenti e non si prestano ad equivoci. Se ci limitiamo solo ai temi riguardanti le risorse umane una delle sfide principali che devono affrontare le aziende (in tutto il mondo) riguarda l’insufficiente preparazione del management delle imprese nell’affrontare la digital transformation. Così come non stupisce che le risposte dei più giovani (a tutti i livelli professionali) siano profondamente diverse rispetto a quelle degli altri cluster coinvolti dalla ricerca. Essendo più motivati e reattivi ai temi dell’innovazione restano i più critici rispetto alla lentezza degli interventi di cambiamento e di engagement proposte dalle loro imprese. Questo comporta, inevitabilmente, la necessità di forti investimenti sulle competenze digitali, sul clima e sulla motivazione dei collaboratori, ai diversi livelli, da parte delle imprese. Quindi un forte investimento sulle risorse umane. Le proposte di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica, per le aziende meccaniche del nostro Paese, non potevano che concentrarsi su questo e non possono che prevedere l’azienda come il luogo fondamentale dove queste politiche possono e devono essere messe in campo. Da qui la necessità di puntare sulla formazione, sul welfare e su forme di incentivazione e di coinvolgimento anche economico che non possono, proprio per le ragioni espresse sopra, essere puramente simboliche anche a causa dei costi del contratto nazionale in un contesto di bassa inflazione. Da qui l’idea di assegnargli una funzione profondamente diversa rispetto al passato. Federmeccanica non credo possa derogare più di tanto da questa impostazione. Ne va del mandato affidatole dalle imprese e quindi della qualità del rapporto associativo. Per questo motivo penso che, per il sindacato, giocare in modo tradizionale questa partita sia molto pericoloso perché spinge inevitabilmente le singole imprese a continuare a credere che sia meglio tenerlo “fuori dai cancelli”. Quindi verrebbe meno una possibilità importante di coinvolgimento e di collaborazione che poteva e doveva trovare nel passaggio contrattuale uno snodo centrale. La necessità, cioè, di costruire un quadro complessivo di riferimento collaborativo di tipo nuovo. La sfida, a mio parere, andrebbe colta fino in fondo. Altrimenti si rischiano di perdere opportunità importanti. D’altro canto anche Federmeccanica non credo abbia interesse a spingere i sindacati a riportare indietro le lancette dell’orologio. Non ha senso né logica. Nel contratto nazionale non c’è “solo” l’eventuale minimo salariale di garanzia. Ci sono i diritti e i doveri, il welfare di categoria, la formazione, l’inquadramento di riferimento, gli affidamenti necessari per le deroghe e gli spazi da assegnare al livello aziendale quindi c’è da comporre un quadro affatto scontato. Sul salario i problemi sul tavolo sono, sempre a mio parere, sostanzialmente due. Innanzitutto un problema di principio sulla funzione salariale da affidare al CCNL in un eventuale ipotesi che preveda comunque anche un decentramento vero della contrattazione. In secondo luogo quali passi possono essere fatti da entrambi per trovare un ragionevole compromesso che non snaturi l’impostazione complessiva. Per superare lo stallo occorrerebbe affrontare con decisione due ambiguità. Una per parte. Da parte sindacale non risulta chiaro se può essere accettata o meno l’idea che la ricchezza si distribuisce solo dopo averla creata. Sul versante datoriale non è assolutamente chiaro cosa succede nelle aziende che non intendono avvalersi della futura contrattazione a livello aziendale. In questo caso il minimo di garanzia non sarebbe sufficiente ma occorrerebbe prevedere inevitabilmente un meccanismo di compensazione. Lavorando su questi due punti credo che un compromesso sia individuabile. Come ho già avuto modo di sottolineare non sono tempi questi in cui è possibile alimentare una idea di scontro sociale né pensare di sconfiggere il sindacato trasformandolo in un avversario dell’innovazione e della crescita delle imprese. Non credo sia affatto così e non credo convenga a nessuno.
Henry Ford tra gli scaffali della GDO? Si, ma ancora per poco…
Renato Curcio ha dedicato diversi libri al lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata. Addirittura lo aveva elevato a nuovo potenziale soggetto rivoluzionario. Ha studiato per anni il rapporto tra lavoratore e azienda e tra lavoratore e cliente da lui considerato un “consumista isterico” e quindi paragonabile al “padrone” nella sua opera di pressione e sfruttamento dei lavoratori. Leggere i suoi scritti era (ed è ancora) veramente istruttivo per chi si occupava (e si occupa) di gestione delle risorse umane nel commercio per comprendere l’atteggiamento di molti lavoratori di una certa generazione verso i clienti in coda alle casse o di chi carica gli scaffali, dei banconisti o, infine, degli addetti alle pulizie. Nessuna indagine di clima allora avrebbe potuto sostituire la descrizione minuziosa di un rancore sordo e difficile da superare che per anni ha complicato qualsiasi intervento sul miglioramento della relazione con il cliente che le grandi catene cercavano di proporre nei comportamenti quotidiani. Il sociologo di Monterotondo si era appoggiato alla Uiltucs Uil milanese che lo aiutò in quegli anni a completare le sue ricerche sul campo concentrandosi soprattutto sulle realtà multinazionali di grandi superfici. Indagini prodotte negli anni 90 e che presentano uno spaccato del lavoro allora assolutamente sottovalutato da molti addetti ai lavori. In realtà non c’è stato in seguito alcun soprassalto rivoluzionario dimostrando che Curcio fosse più alla ricerca di conferme rispetto ad un suo pensiero maturato negli anni del carcere più che mosso dal desiderio di comprendere a fondo un soggetto sociale molto particolare che addirittura ha contribuito in seguito, seppur in minima parte, alla nascita di fenomeni politici e sociali esattamente opposti a quelli auspicati dall’ex BR. Dario Di Vico, in un articolo molto interessante sul Corriere di ieri conferma, nel lavoro della GDO, l’elemento di marcato fordismo che rende, quei lavoratori, in qualche modo assimilabili agli operai tradizionali dell’industria. L’esempio della cassiera di un ipermercato è ancora, in parte, calzante.Valutata più per la velocità con cui passava la merce alla cassa che sul rapporto con il cliente ha rappresentato la vera massa di manovra delle lotte sindacali della categoria negli anni che vanno dal 1980 fino alla fine del secolo scorso. Lotte derivate dalla esperienza sindacale fordista del settore industriale peraltro senza alcuna visione da parte del sindacato di categoria tesa a far crescere una nuova cultura sindacale più adatta ad un negozio in cui il servizio, in termini di qualità e quantità, era e resta fondamentale. Quando le cosiddette “conquiste” non sono state più compatibili con il contesto economico delle imprese, il sindacato prima ha cercato di difenderle, riservandole in esclusiva ad una sola generazione, poi ha dovuto inevitabilmente accettarne il loro superamento per tutti. E questo ne ha minato la credibilità. Oggi le aziende della GDO sono cambiate molto. Sia in termini di clima che di opportunità di crescita professionale. Le imprese nazionali e multinazionali investono ingenti risorse in formazione e sviluppo mentre i sindacati, soprattutto quelli che non hanno ancora abbandonato l’idea che fosse possibile difendere l’esigenze di una sola generazione sono stati messi, di fatto, alla porta. Le vicende legate al rinnovo del CCNL di Federdistribuzione sono lì a dimostrarlo. I residui di fordismo, ancora presenti, sono ormai in discussione. Ridotta la possibilità di confrontarsi con i concorrenti sul versante dei prezzi, della qualità e dei costi, le imprese stanno puntando su nuovi modelli organizzativi e di vendita, qualità del servizio, rapporto con il cliente sia in negozio che a domicilio. Senza parlare dei diversi comportamenti di acquisto indotti dai negozi di vicinato, dai discount, dai GAS, da internet e più recentemente dalle intenzioni di Amazon che non mancheranno di produrre profondi effetti e cambiamenti. Aziende come Carrefour, Esselunga, Finiper, Conad, Coop, tanto per citarne alcune tra le più conosciute investono in formazione e crescita professionale importi che le imprese più note del mondo industriale non impegnano più da tempo. Concordano forme innovative di welfare aziendale o sostengono, insieme ai sindacati e alle confederazioni datoriali, un importante welfare contrattuale di categoria, assumono e offrono opportunità di crescita ai giovani, fanno accordi con università come e quanto le imprese di altri settori. Non investono, però abbastanza nel presentare gli sforzi di questo impegno a 360 gradi per cui restano prigionieri di una opinione diffusa che assegna la qualifica di “povero” e quindi mal pagato, il lavoro che mettono a disposizione. Poco importa che per molte di queste persone, per condizione o per status sociale, non esiterebbero alternative concretamente praticabili. Così come per giovani studenti, per donne che abbisognano di flessibilità o che vogliono contribuire al reddito familiare. E, di fronte a questi cambiamenti sempre più forti e rapidi del settore il sindacato di categoria rischia di restare al palo perché non è in grado di accompagnarne l’evoluzione incastrato tra le esigenze delle imprese della Cooperazione, quelle di Federdistribuzione e quelle rimaste in Confcommercio. Qui sta il punto. O ci si rassegna alla crisi del fordismo e quindi alla crisi del modello che si è contribuito a costruire o ci si impegna ad accompagnare il cambiamento in atto. Il cambiamento del lavoro, dei modelli organizzativi, del rapporto con il servizio e con il consumatore, del riconoscimento del merito, del contributo del singolo lavoratore al successo del suo punto di vendita e della sua impresa e quindi della cultura sindacale o si continua ad inseguire questo o quell’interlocutore contando sulla disponibilità a sottoscrivere un contratto a qualsiasi costo. L’impegno delle Confederazioni sindacali e datoriali sul nuovo modello contrattuale è l’unica risposta seria che consentirebbe a tutti di superare lo stallo attuale trovando le risposte adeguate nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Il limite culturale del fordismo di marca sindacale è proprio quello di pensare che esista ancora una condizione comune di sfruttamento e di solidarietà tra uguali che, prima o poi, è destinata a manifestarsi. Non conosco l’organizzazione di molte imprese industriali ma basterebbe girare in un punto vendita qualsiasi della GDO per capire la ormai grande differenza tra capi reparto, specialisti, merchandiser, promoter, giovani assunti con le formule più varie di contratto con quello che resta della vecchia guardia sindacale. Henry Ford c’è ancora tra gli scaffali, questo è vero. Però sta per andare in pensione, Fornero permettendo.
P. S. A sottolineare ancora di più i cambiamenti in atto nelle imprese della GDO allego le recentissime 8 regole di Mario Gasbarrino AD di Unes per costruire un’azienda felice e vincente. Solo qualche anno fa, a leggere queste note, si sarebbe parlato di paternalismo o di un semplice esercizio di stile. Oggi, al contrario, fanno riflettere….
Giustizia e trasparenza: regole chiare-comunicazioni trasparenti-promesse mantenute
Attenzione al benessere: interessarsi sinceramente ai collaboratori-garantire luoghi di lavoro sicuri e piacevoli (sedie ergonomiche, ecc)
Sviluppo personale: formazione continua-attenzione ai talenti unici di ogni individuo-incentivare le idee e l’innovazione
Leadership e Management basati su valori e etica: proprietari e management che agiscono e vengono percepiti come modelli condivisi-fiducia condivisa nell’organizzazione e in chi li rappresenta
Responsabilità sociale: attenzione all’impatto che ha l’azienda sull’esterno (territorio, ambiente, fornitori, clienti, ecc.)
Reputazione: come l’azienda viene percepita-la fama che l’azienda ha, come se ne parla, quanto è conosciuta
Condivisione: degli spazi-oltre che delle informazioni-creare uno spirito di squadra fortissimo-trovare un senso comunitario
Uso del tempo: permettere alle persone di bilanciare professionale e personale
Nuove prospettive per il riformismo dei corpi intermedi
Sergio Bellavita neo dirigente USB ed ex dirigente FIOM CGIL lancia una sfida addirittura al Governo Renzi: “a settembre sciopero generale contro le politiche economiche e sociali imposte dalla UE a difesa della Costituzione e dei contratti nazionali”. Niente di meno. È la storia che si ripete. Prima i Tiboni, poi i Bernocchi, poi i Cremaschi. La galassia del cosiddetto sindacalismo di base si è sempre nutrita di una micronesia di situazioni cresciute intorno a personaggi profondamente diversi tra di loro e dall’estremismo da salotto televisivo chiaccherone ma spesso inconcludente. Pur con tutti i distinguo del caso le esperienze di persone o gruppi organizzati che si agitano a sinistra dei grandi sindacati confederali non è nuova né figlia della globalizzazione. È una storia iniziata fin dagli anni ’70. Chi esce sbatte sempre la porta e accusa chi resta del peggio del peggio. Perché registrarlo? Perché, secondo me, la mossa di Landini è da inserire in un disegno forse più interessante che può guardare lontano. Soprattutto può consentire anche alla Cgil di guardare lontano e di poter contare sulla FIOM, il che non è poco. È indubbio che il sindacato confederale sia in parte confinato e costretto a difendere, pur in mezzo a grandi difficoltà, le condizioni di vita e di lavoro delle generazioni che lo hanno costruito così com’è oggi, il loro modo di pensare e tutte le liturgie annesse che costituiscono la vita e l’agire delle grandi organizzazioni di rappresentanza. Questa difficoltà è, sia di azione, che di modello organizzativo. È evidente che una strategia praticabile presuppone obiettivi chiari e risultati certi oggi sempre più difficili da realizzare. Un mondo che mette in forte crisi forme orizzontali e tradizionali di solidarietà tra simili, siano essi nel Paese o nel resto del pianeta e favorisce forme nuove di convergenza di interessi tra capitale e lavoro un tempo inimmaginabili. Un mondo dove la rete di interessi da tutelare si scompone e si ricompone continuamente. E infine dove l’inclusione o l’esclusione dai diritti di cittadinanza, economici, di status sociale, non è più possibile ritenerli acquisiti anche quando, e se, raggiunti. Cosa saranno il lavoro (inteso come valore, modalità e contenuti), il welfare (vecchio e nuovo), l’istruzione (dopo la scuola e fino alla pensione), i diritti fondamentali di cittadinanza in un mondo globalizzato e in quale modo sarà possibile conquistarli e mantenerli per le differenti generazioni rappresenta la nuova frontiera per un sindacato che vuole essere autenticamente riformista. Le risposte possono essere molte e diverse tra di loro. Ma la vera partita del sindacato si giocherà proprio su questo. Ed è altrettanto chiaro che solo un sindacato che ritrova una prospettiva unitaria può ritornare ad essere autorevole sulla direzione di marcia da prendere. Questa prospettiva consentirebbe, tra l’altro, di mettere mano anche al modello organizzativo rimettendo al centro il territorio e le comunità locali che il processo di globalizzazione renderà sempre di più determinanti e vitali. Tra l’altro l’ultimo libro di Gaetano Sateriale della Cgil ne ribadisce il valore e l’importanza strategica. Marco Bentivogli si muove con altri dirigenti sindacali nella prospettiva di un forte sindacato industriale nella Cisl. Lo stesso Luca Visentini, neo eletto segretario generale del sindacato europeo, è impegnato a costruire un sindacato riformista e moderno in un’ottica sovranazionale. I modelli contrattuali, oggi in discussione, sono destinati ad andare proprio in questa direzione semplificando in termini quantitativi e di contenuto i contratti nazionali contribuendo a favorire l’affermarsi di una cultura maggiormente collaborativa tra mondo del lavoro, impresa e territorio. Dall’altra parte, anche dal mondo delle imprese qualcosa di importante si sta muovendo in questa direzione. Dalla Luxottica, alla Ferrero, alla Barilla, a molte PMI, stanno proponendo organizzazioni che riportano al centro la persona, il suo contributo al lavoro, la qualità, la quantità e la rimessa in discussione del luogo dove lo stesso si potrà svolgere. Nella stessa proposta di Federmeccanica ci sono importanti elementi che vanno in questa direzione. Insomma dopo aver toccato con mano i rischi e le difficoltà connesse ad un mondo che cambia troppo velocemente forse è possibile intravederne le opportunità non solo nelle imprese più attente ma anche per le organizzazioni di rappresentanza. Da qui la necessaria rivisitazione della governance dei sistemi bilaterali e di welfare condiviso. Impresa, territorio e comunità come cardini di un nuovo progetto riformista al quale i corpi intermedi potrebbero partecipare uscendo definitivamente dai vecchi confini e dagli steccati creati nel novecento. C’è un grande spazio per una nuova cultura della collaborazione. Una cultura che sappia rimettere al centro l’impresa come luogo di creazione del valore ma anche come luogo di condivisione. Un’impresa che, proprio per questo, rispetta l’ambiente, il territorio ed è parte della comunità nella quale è inserita. Un’impresa moderna, utile, eticamente determinante per la crescita delle persone che vi operano. Per fare questo, però, non basta qualche imprenditore illuminato. Occorre creare un contesto comune dove chi vuole giocare questa partita possa farlo con impegno e serietà. Ma occorrono anche corpi intermedi che sappiano guardare avanti anche oltre i loro pur legittimi interessi di parte. Quello che è chiaro ė che sempre più le convenienze e le aspettative della comunità dovranno coincidere con i nuovi equilibri che si individueranno tra i diversi soggetti che interagiscono e si confrontano nella comunità stessa. La capacità e il compito di individuare questi nuovi equilibri e definire le indispensabili priorità sociali spetta, ovviamente, alla politica. La proposta e l’iniziativa, al contrario, spettano a tutti coloro che vogliono ritornare ad essere protagonisti e giocare così un ruolo nuovo e costruttivo nell’interesse del futuro del Paese.
La formazione come diritto soggettivo…
Marco Bentivogli della FIM CISL ne rivendica giustamente l’intuizione nella sua categoria: mettere a disposizione di tutti i lavoratori, nessuno escluso, la formazione necessaria per rafforzare le competenze professionali e sviluppare le conoscenze in un sistema d’impresa proiettato verso Industry 4.0. Un elemento importante in un comparto che deve affrancarsi dal fordismo e dove, al di là delle parole, spesso i lavoratori sono stati considerati solo numeri. Federmeccanica, dall’altro versante non si è tirata certo indietro. A sua volta ha accettato e rilanciato la sfida. È un passaggio importante soprattutto perché “la persona” è uno degli argomenti centrali del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. E, quel contratto, ha sempre indicato contenuti e direzione di marcia per tutti i settori. Nel terziario, è dal contratto nazionale dei dirigenti del 1993, che Manageritalia insieme a Confcommercio, diedero vita al CFMT, il Centro di Formazione Manager del Terziario. Centro nel quale ciascun dirigente ha diritto a frequentare individualmente i corsi proposti. La quota contrattuale annuale è di 125 euro a carico del dirigente e altrettanto a carico dell’azienda. Non c’è nessun limite alla partecipazione. C’è un diritto soggettivo definito nel contratto nazionale collegato alla responsabilità e ad una gestione individuale. Il dirigente può concordare il percorso con la propria azienda, se d’accordo, oppure utilizzare le proprie ferie. Così come l’azienda che ne può usufruire costruendo direttamente progetti su misura. È ovvio che si tratti di un intervento di nicchia (circa 22.000 dirigenti del terziario) ma non credo esista una esperienza a favore del management di queste dimensioni, a questi costi e di questa qualità, in tutta Europa. Da questa intuizione si è consolidata una realtà bilaterale, costruttiva, utile. Oggi è facile comprenderne l’importanza. Nel 1993 furono necessari visione, intuito e consapevolezza. Soprattutto l’idea che non bisognasse lasciare il manager solo in rapporto con la formazione necessaria alla sua crescita professionale. Oggi questo problema riguarda tutti perché l’aggiornamento e la formazione continua restano fondamentali per muoversi nel mercato del lavoro. Nel 2002 pochi anni prima di lasciarci Bruno Trentin ad una lectio doctoralis in Cà Foscari affermò: “… il rapporto tra lavoro e conoscenza (è uno) straordinario intreccio che può portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà”. Interrogarsi su ciò che serve oggi a ciascun lavoratore, indipendentemente dalla sua qualifica, dal giorno dopo il conseguimento del titolo di studio e fino alla pensione diventa, sempre più, un tema centrale. E questo sia sul versante dei contenuti che delle metodologie. Professionalmente si vive più a lungo e si cambia più spesso lavoro per volontà o, sempre più spesso, per necessità. Il paradosso è che, le persone, oggi sono destinate a vivere più a lungo delle imprese. Non era mai successo in passato. Questo significa che investire su se stessi, sulla propria professionalità e sulla capacità di misurarsi con il mercato costruendo relazioni utili e positive non è più un obiettivo solo di chi vuole fare carriera ma diventa un passaggio obbligato per tutti. Frequentare community, avere un personal brand riconosciuto, aggiornarsi e gestire con attenzione il proprio percorso professionale si trasforma in una attività alla quale va dedicato tempo, impegno e concentrazione. Farlo in solitudine non è facile. Soprattutto per chi non lo ha mai fatto. La persona, oggi, si misura con un mercato del lavoro molto più complesso e selettivo rispetto al passato. Un mercato nel quale il percorso o la crescita in una singola azienda è solo una tappa. La carriera ha sempre più discontinuità e segue traiettorie sempre diverse. Competenze professionali e soft skill si devono aggiornare continuamente determinando nuove priorità. L’impresa ha un obiettivo formativo che condivide con il collaboratore ma, quest’ultimo deve investire anche sul suo futuro professionale sapendo andare anche oltre le esigenze dell’impresa nella quale è occupato. È questo non può più essere sottovalutato dai contratti collettivi e quindi nel nuovo scambio tra impresa e singolo lavoratore. Difendere e incrementare la competitività professionale: questa è la sfida per le imprese e per le singole persone. Per le imprese questa sfida passa dalla capacità di collegare ciò che i clienti apprezzano nei prodotti e nei servizi (cioè la competenza distintiva dell’impresa stessa) aggiornando continuamente le differenti competenze professionali dei diversi attori aziendali. Per i singoli collaboratori la sfida è rappresentata dalla capacità di sottoporre ad un aggiornamento e un miglioramento continuo il proprio bagaglio di competenze e quindi della propria capacità di risolvere i problemi. Per fare questo non è sufficiente affidarsi alle istituzioni professionali tradizionali ma presuppone anche un cambiamento culturale. È la cura del proprio patrimonio professionale che rappresenta, sempre di più, una leva insostituibile. Ma questa leva si aziona solo se la persona adulta riflette sul proprio processo di apprendimento, ne comprende i processi che lo facilitano, lo finalizza ponendosi sempre nella condizione di valutarsi e di correggersi, se necessario. Secondo il saggista americano Alvin Koffler “Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere ma quelli che non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo.” I dati parlano chiaro. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Essere preparati a questi passaggi epocali non è solo un problema che riguarda i giovani o gli altri. Riguarda tutti.
Grande Distribuzione e contratto nazionale, come uscirne..
Credo sia ormai chiaro a tutti che la stagione della contrattazione nazionale nel terziario si è chiusa con il rinnovo del CCNL firmato da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali di categoria circa un anno fa. Due aspettative (importanti) restano però ancora senza risposta. La richiesta della GDO della Cooperazione di applicare un CCNL simile a quello firmato da Confcommercio respinta dai tre sindacati di categoria e la richiesta dei tre sindacati di categoria di avere un contratto simile a quello firmato da Confcommercio respinta da Confesercenti e Federdistribuzione. È una situazione, per certi versi, paradossale. Ci sono imprese dello stesso settore che applicano il nuovo contratto e altre che non lo applicano. Federdistribuzione, da parte sua, lamenta che il contratto firmato da Confcommercio non sarebbe applicabile dalle aziende che si riconoscono nelle loro organizzazione mentre lo è per molte aziende della GDO, leader di settore, che si riconoscono in Confcommercio e che lo applicano da circa un anno. E la Cooperazione che vorrebbe applicarlo anch’essa e da subito, non può. In tutto questo i rispettivi lavoratori ne pagano le conseguenze. Se usciamo per un attimo dalle differenti logiche organizzative, legittime quanto inconcludenti e guardiamo avanti forse possiamo trovare uno nuovo spazio di confronto e di azione che consenta di superare lo stallo, nel quale ci si è voluti infilare, sottovalutando il contesto. A mio modesto parere la disponibilità a chiudere questa fase dovrebbe essere interesse di tutti gli attori coinvolti. Per fare questo occorrerebbe innanzitutto rimettere al centro le esigenze delle imprese e dei lavoratori. Non c’è altra via. Un contratto nazionale non si firma più da tempo esclusivamente sulla base dei reciproci rapporti di forza messi in campo. Quindi non saranno né gli scioperi né le cause legali né l’imposizione di una dura condizione non negoziabile al sindacato che sbloccheranno questa situazione. Né continuare a ritenere che lo stallo sarebbe causato da indebite pressioni di chi ha già firmato il suo contratto. Basterebbe mettere in fila le richieste delle due organizzazioni datoriali prodotte in tutti questi mesi puntualmente respinte dagli stessi sindacati di categoria per capire quanto è fuorviante nascondersi dietro questa scusa. Queste forzature tese a ottenere rinnovi contrattuali alternativi sono nate in una fase economica e sociale completamente diversa. Così come è ingenuo credere che avere quattro contratti nazionali per poco più di trecentomila addetti, di questi tempi, possa rappresentare un scelta razionale. E infine pensare che chi, come Confcommercio, ha firmato per primo un difficile rinnovo possa subire una iniziativa di dumping da confederazioni minoritarie o federazioni di secondo livello senza alcuna possibilità di modificare gli equilibri raggiunti con gli accordi a suo tempo sottoscritti. Oggi siamo qui. Su altri tavoli sta decollando un importante confronto tra le diverse parti sociali sulla contrattazione, i suoi contenuti e i suoi livelli. Quindi anche sul peso dello stesso contratto nazionale di categoria. Questo negoziato è condotto dalle Confederazioni datoriali e sindacali. Solo all’interno di questo percorso si definiranno regole, compatibilità e livelli della contrattazione. Molte cose sono destinate a cambiare. C’è il tema del welfare, del contenuto e delle modalità dei livelli aziendali, territoriali e delle differenze significative presenti nei comparti del terziario di mercato da prevedere e da gestire. Quindi se i diversi interlocutori comprendessero il cambio di scenario, alzassero lo sguardo e guardassero avanti le possibilità di rientrare in gioco ci sono tutte. Per fare questo occorrerebbe avviare un confronto serio, senza pregiudizi superando incomprensioni ormai datate e abbassando la ormai inutile tensione ancora presente. Concentrarsi su come uscire da questa situazione è più importante, oggi, di qualsiasi recriminazione sul passato. Quello che però deve essere altrettanto chiaro è che un Contratto Nazionale non può essere vissuto come una vecchia osteria di Trastevere dove ciascuno portava il pranzo da casa limitandosi a consumare solo il vino. È qualcosa di molto più serio e profondamente diverso. C’è un vecchio proverbio africano che dice “Chi vuole sul serio ottenere qualcosa cerca una strada, gli altri una scusa”. A mio modesto parere oggi siamo esattamente a questo punto.
Manager, giovani e PMI. Perché si può e si deve fare di più.
Adesso sono le start up che fanno la differenza. Per molti giovani sono il desiderio nel cassetto. All’impiego sicuro agognato dalle generazioni precedenti si è sostituito il sogno, ritenuto a portata di mano, di diventare imprenditori. Ai miti sportivi tipici dell’adolescenza, si sostituiscono imprenditori giovani e di successo che, nel mondo, ce l’hanno fatta. In un Paese come il nostro che vanta oltre quattro milioni di imprenditori esiste una “predisposizione genetica” al far da sé. È una scelta importante. A mio parere porterà con sé anche un “sottoprodotto” pregiato che oggi non viene valutato a sufficienza perché è la riuscita o il fallimento della micro impresa l’unico elemento sotto i riflettori. C’è chi ce la fa e chi soccombe. Chi ce la fa è “figo” per tutti, chi soccombe, al contrario, è “sfigato”. Nessuno considera l’importanza che ha, per un giovane, il percorso dall’idea alla sua realizzazione di un progetto sulla sua formazione imprenditoriale, ma anche manageriale, futura. Il nostro Paese ha bisogno di nuovi manager con mentalità imprenditoriale. Esaurite le grandi scuole del passato che sfornavano futuri dirigenti ormai in pensione o quasi, oggi si diventa manager costruendosi da soli una carriera senza veri punti di riferimento. Non c’è più tempo per crescere acquisendo i fondamentali nei modi e nei tempi necessari. Le multinazionali hanno il baricentro decisionale altrove, le imprese nazionali che investono sulle risorse umane non sono più numerose come in passato, le business school in crisi di identità e le Corporate University delle grandi aziende sono spesso ripiegate esclusivamente sulle esigenze interne. Pochi manager “veri” con a disposizione le leve decisionali e tanti esecutori seppure di un certo livello. Le aziende, poi, hanno appiattito gli organigrammi ed eliminato tutte le posizioni ritenute, a torto o a ragione, ridondanti. In queste condizioni apprendere i fondamentali del ruolo è decisamente arduo. Per crescere una buona base di studi rappresenta, di fatto, solo una precondizione. Occorre mantenersi aggiornati, girare il mondo, incontrare capi disponibili, partecipare a progetti veri, affinare soft skill e essere coinvolti, incentivati, misurati e valutati con continuità. Avere ambizioni, credere in se stessi, mettere in campo un idea e sostenerla, collaborare con altri per la sua realizzazione, interagire con finanziatori, fornitori e clienti, reggere la tensione e lo stress del quotidiano e riaversi magari dopo un insuccesso parziale o totale sono cose che non si insegnano né si imparano sui libri. Solo attraverso una lunga gavetta e, comunque e sempre, a spese proprie. Quindi partecipare al lancio di una start up è un grande esercizio di management di cui chi vi partecipa potrà trarne un grande beneficio indipendentemente dal successo o meno dell’iniziativa alla quale contribuisce. È indubbio che il manager di domani sarà molto diverso da quello di ieri. Più imprenditore, certamente, anche perché condividerà rischi e opportunità con l’impresa che lo sceglie e nella quale sceglierà di “indossarne la maglia” fino a quando la partnership sarà interessante e conveniente per entrambi. Gestirà progetti, parteciperà a team multiculturali nella propria impresa, se multinazionale, o nella filiera dove la sua impresa si collocherà, gestirà, ingaggerà e formerà a sua volta risorse in modo da realizzare gli obiettivi assegnati. La tecnologia gli consentirà di costruire reti relazionali, farsi conoscere, apprezzare e quindi costruire, passo dopo passo, la propria carriera. Per questo condivido la tesi di chi sostiene che anche le PMI potrebbero e dovrebbero fare di più sia nei rapporti con il mondo della scuola, sia assolvendo un compito di grande responsabilità sociale mettendo a disposizione opportunità di inserimento e di crescita per giovani meritevoli. Molti già lo fanno ma non basta. Ad esempio nell’esperimento che abbiamo fatto come Centro di formazione manageriale chiamato “Managerinmpresa” abbiamo constatato che le piccole imprese dopo una naturale diffidenza iniziale hanno apprezzato la possibilità di ingaggiare un manager esterno di cui pensavano di poterne fare a meno. Certo ci sono problemi di costo, di tipologie contrattuali da reinventare, di adattamento anche da parte di manager che magari non sono abituati a lavorare in una micro impresa dove occorre saper fare di tutto ma l’esperimento ci dice che si può fare. Così come occorre aiutare i piccoli imprenditori a crescere, loro stessi, nelle competenze manageriali anche perché il futuro richiederà sempre di più capacità non sempre facili da acquisire in solitudine. Quindi anche per i giovani aspiranti manager occorrerebbe un grande progetto condiviso per il futuro. Nel terziario di mercato ci sono ottime opportunità di crescita. Forse occorrerebbe affiancare a quello che le grandi imprese già fanno in casa propria, qualcosa che possa sostenere le piccole e medie imprese nel rapporto con la scuola e nella creazione di opportunità di inserimento per giovani che meritano una occasione. Come farlo, con quale risorse e dove è una scelta nella quale le associazioni manageriali e datoriali possono ritrovare un punto di incontro costruttivo e positivo. Di sicuro il Paese ne ha bisogno. Non sprecare entusiasmo, energie e ambizioni di chi crede nel proprio futuro è una sfida che non può lasciare indifferenti né le imprese né i manager. Tantomeno le loro associazioni di categoria…
La produttività tra passato e futuro
Il neo presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento ne ha fatto un punto centrale, Susanna Camusso lo ha immediatamente respinto bollandolo come “vecchio”. Al di là delle affermazioni di parte la necessità di incrementare la produttività nelle imprese e nel Paese viene così riportata al centro del dibattito. Innocenzo Cipolletta, al festival dell’economia di Trento, ha affermato che se in questi anni di crisi avessimo avuto un incremento della produttività avemmo avuto solo ricadute negative sull’occupazione. Croce e delizia degli addetti ai lavori il tema della produttività ritorna ciclicamente come elemento centrale del confronto tra le parti sociali. E ritorna non avendo risolto le evidenti criticità del tema legate innanzitutto alla platea delle imprese coinvolte dalle statistiche, alla sua individuazione in un contesto economico sempre più post fordista e, ultimo ma non ultimo, alla necessità, sempre più presente nelle imprese, di andare oltre semplici recuperi di efficienza, pur indispensabili, ripensando in modo radicale i modelli di busines, i rapporti tra impresa, fornitori e collaboratori ma anche tra imprese e sindacato. È indubbio che, per quanto riguarda il nostro Paese, la mancata crescita della produttività negli ultimi 10/15 anni ci pone in difficoltà sia rispetto ai Paesi che trainano l’economia mondiale sia rispetto a quelli che, nonostante la crisi, non hanno mai cessato di crescere. Nella visione comunemente accettata le ragioni sono sostanzialmente due: l’insufficiente dimensione delle imprese italiane e lo scarso contenuto tecnologico delle nostre produzioni principali. A ben vedere, però, la bassa produttività si concentra principalmente in due classi di imprese manifatturiere. Quelle sopra i 250 addetti e quelle sotto i 10 addetti. Le prime già in sofferenza sia in termini di fatturato che di prospettive, le seconde dove “sopravvivono” larghe fasce di produttori “inefficienti”. Se, al contrario, ci dovessimo concentrare sulle imprese da 10 a 250 addetti i risultati sarebbero ben diversi e sicuramente più positivi ma la maggiore numerosità delle imprese non è in questo cluster. Da qui il “grido di allarme” del Presidente Boccia sulla necessità, per gli imprenditori, di crescere. A mio parere credo che mentre si possa in tempi ragionevoli lavorare sui fondamentali delle grandi imprese supportandole nella crescita, non sarà altrettanto semplice passare dalle aspirazioni generali agli impegni concreti per quanto riguarda le micro imprese manifatturiere. Quindi insistere su questa strada rischia di essere fuorviante. Forse sarebbe meglio rendersi conto che nella nuova sfida economica globale il problema della dimensione aziendale va visto diversamente dal passato e va inserito in contesti che vedono le filiere, i cluster territoriali, le reti come i luoghi dove le singole imprese contribuiscono, specializzandosi e organizzandosi, alla creazione del valore. Al centro della riflessione ci dovrebbe essere la dimensione del sistema nel quale l’impresa è inserita e non necessariamente quello dell’impresa stessa quindi la produttività generata dall’insieme della filiera, del cluster o della rete. Fuori da questa impostazione è facile pronosticare l’intensificarsi del declino soprattutto in rapporto ai nostri concorrenti. Incrementare la produttività in modo nuovo significa operare su due livelli; da un lato occorre lavorare sui rapporti tra manifattura e servizi con l’obiettivo di sviluppare nuove forme di impresa e dall’altro investendo nelle reti e negli altri sistemi di aggregazione in modo da creare economie di scala significative. Questo tra l’altro consentirebbe di superare un nodo che oggi appare sempre di più improponibile nel confronto tra le parti sociali e cioè che il massimo della produttività si possa ottenere solo forzando la mano sul fattore lavoro. A mio parere non è competendo sul low cost di Paesi dove i lavoratori sono disposti ad accettare condizioni di lavoro pessime e in presenza di scarse tutele sindacali e giuridiche che possiamo recuperare un percorso virtuoso. Occorre rilanciare il tema della collaborazione, della condivisione dei rischi e delle opportunità tra imprese, manager e lavoratori. La nuova frontiera è in una rivisitazione moderna della partecipazione del lavoro allo sviluppo delle imprese. E questo potrebbe costituire la vera sfida anche per il sindacato confederale. Infine occorre che nei nuovi modelli di business delle imprese vengano introdotte elementi di qualità e di relazione connaturati con la logica dei servizi prima che della fabbricazione industriale in senso classico. Non basta utilizzare al meglio le nuove tecnologie ma occorre investire nello sviluppo delle capacità creative e costruire reti di collaborazione con altre imprese. Un percorso nuovo che sappia mettere al centro l’innovazione in tutte le sue componenti e che proponga l’azienda come il luogo dove si crea valore per l’imprenditore, per le persone che vi operano e per la comunità nella quale l’impresa agisce.
meno male che quell’ascensore si è fermato…
I dati e il parere di molti esperti ci confermano che l’ascensore sociale si è fermato. Si discute su come farlo ripartire e le ricette non mancano. Oggi Di Vico sul Corriere se la prende sostanzialmente con le piccole imprese e con la loro incapacità di crescere. È un punto di vista. Io credo che ce ne siano anche altri. Innanzitutto se si accetta la metafora dell’ascensore sarebbe corretto accettare l’idea che, lo stesso, non è costruito per muoversi solo verso l’alto. Non è banale. Una società che prevede solo la possibilità di salire socialmente ed economicamente come indicatore qualitativo non è in grado di affrontare i cambiamenti quando questi sono profondi e di sistema. Preferisce ascoltare chi individua colpevoli negli altri (nella politica, nelle imprese, nella globalizzazione) più che chi cerca soluzioni non sempre facili e a portata di mano. In secondo luogo l’ascensore ha funzionato in Italia quando la spesa pubblica lo ha sorretto pesantemente. Si sono moltiplicati i centri di spesa, gli appalti pubblici, le cattedre universitarie, le professioni, i ruoli nella pubblica amministrazione, le consulenze, ecc. Inoltre nelle medie e grandi imprese le figure manageriali si sono espanse ben oltre la necessità concreta dei rispettivi business. Non è che la crisi e le ristrutturazioni le hanno ridotte, erano troppe e molte di esse inutili, nella fase precedente. Gli stessi schemi legislativi e contrattuali in materia di lavoro sono stati costruiti prevedendo solo la possibilità di crescita verso l’alto, a volte prevedendo l’anzianità come elemento di certificazione o automatismi di passaggio tra un livello e l’altro. Addirittura che fosse sufficiente seguire alcuni compiti per un periodo anche limitato per rivendicare uno status superiore e definitivo. In un mondo provinciale che prende in considerazione solo la sua inevitabile crescita è normale non prevedere che questa non potrà mai essere infinita. Il punto però è che nessuno si è preparato al peggio. E quindi le famiglie, i media e le istituzioni e, in ultima analisi, l’opinione pubblica in generale attende solo risposte che sblocchino, sempre verso l’alto, il meccanismo. Purtroppo quell’epoca è finita come sottolinea bene il sociologo Schizzerotto sul Corriere. Per crescere oggi occorre ben altro che attendere la volontà di sviluppo delle PMI! Innanzitutto, se parliamo di mercato del lavoro, occorrerebbe considerare, sul piano della crescita individuale, il mondo intero e non più solo il proprio Paese o, addirittura, la propria città come unico sbocco possibile. Magari con l’obiettivo di ritornare quando si è conquistata o raggiunta una certa solidità professionale e personale. In secondo luogo occorrerebbe costruire modelli nuovi di collaborazione e condivisione dei rischi nelle filiere dalla produzione al consumo. Questo imporrebbe la creazione di nuove figure manageriali nelle imprese e nelle reti che oggi non ci sono. Figure con sistemi retributivi e incentivanti profondamente diversi da oggi. E sorretti da una legislazione adeguata. In terzo luogo puntare a criteri meritocratici più spinti e ovunque che consentano ai migliori, indipendentemente dal loro ceto sociale di partenza, di emergere. Quello che penso è che è inutile far ripartire questo ascensore. È vecchio e superato. È stato creato nella prima Repubblica e sostenuto dalla spesa pubblica. Doveva servire a supportare i sogni delle generazioni post belliche e così è stato. Adesso basta. Occorrerebbe progettarne un altro dove il merito, la determinazione, la voglia di rischiare in proprio e l’ambizione personale possano davvero trovare posto. Ma soprattutto costruito per le generazioni future quindi non più legato a un concetto di crescita sociale vecchio e superato. La linea di demarcazione nel futuro si costruirà intorno al digital divide, alla padronanza delle lingue, alla cultura, al senso, alla qualità della vita e alla disponibilità alla mobilità planetaria. Gli status sociali si costruiranno e si distruggeranno più volte nella vita degli individui e delle imprese. Sapersi muovere in quel contesto farà la differenza.