Risiko sindacale o “rosico” sindacale…

L’accordo in FCA tra FIM CISL e il sindacato dei quadri AQCF è certamente un passo importante verso un nuovo modello di rappresentanza. Il secondo passo sarà costituito dalla necessità di individuare un diverso equilibrio tra i valori e i principi del sindacalismo confederale e un nuovo modello di “sindacalismo aziendale all’italiana” che sarà comunque destinato ad affermarsi nei prossimi anni. È un passo decisivo che dovrà consentire di evitare il sorgere di una “micronesia” di strutture isolate, non comunicanti ma soprattutto sorde ad una visione solidaristica e generalista tipica dei corpi intermedi di natura confederale in una comunità nazionale che deve comunque dotarsi di pesi e contrappesi politici e sociali per crescere in modo quanto più equilibrato possibile e affermarsi in un mondo sempre più globalizzato. Le reazioni sono state generalmente caute. Soprattutto da FIOM e UILM impegnate in una difficile opera di ricucitura in vista dello sciopero della categoria. Non condividere la scelta della FIM è legittimo. L’uscita su Italia oggi, del segretario generale del FISMIC, Roberto di Maulo, mi sembra, al contrario, fuori luogo. Il modello di sindacalismo aziendale costruito, a partire dagli anni 50, dalla FISMIC non c’entra nulla con la necessità di creare un nuovo sindacato confederale che sappia tenere insieme il nuovo mondo del lavoro indipendentemente delle vecchie categorie professionali mutuate dal secolo scorso o dai comparti merceologici. Oggi FCA produce, anche, automobili. Ma fa molte altre cose che tradizionalmente apparterebbero ad altri mondi, gli stessi confini tra attività industriali e terziarie in una logica di filiere e piattaforme globali cambiano e si integrano. Per questo è necessario un sindacato che superi i confini del passato. L’unità dei sindacati moderati proposta a suo tempo dalla FISMIC era, di fatto, solo tesa ad isolare la FIOM. Non c’entra nulla con la ricerca di un modello nuovo di sindacato confederale. E questa ricerca non dovrebbe escludere a priori nessuno, FIOM compresa. Semmai qualcuno si chiamerà fuori libero di perseguire altre strategie. Quello che mi stupisce è perché la FISMIC anziché “rosicare” e imprecare contro il supposto protagonismo altrui non rifletta sulla profonda differenza tra un sindacato che si è dovuto dividere per decidere e quindi tutelare i propri rappresentati in una particolare fase storica da un sindacato che deve riuscire a ricomporre l’intera filiera del lavoro per rappresentarla e proporsi in una nuova chiave collaborativa e quindi partecipativa. Davanti a questo bivio non c’è solo la vecchia sinistra sociale e sindacale che può decidere liberamente di perseguire la propria irrilevanza nelle imprese e nella società o le formazione “storiche” del sindacalismo aziendale come la FISMIC. C’è l’intero sindacato confederale. Per questo la proposta di Federmeccanica segna uno spartiacque che va oltre le differenze sul salario o sul decentramento della contrattazione. L’associazione delle aziende metalmeccaniche pone innanzitutto una sfida culturale. Respingerla è facile. Fermarla è impossibile. Va colta fino in fondo, se si hanno idee e proposte, per evitare di subirla. Anche in FCA c’era chi pensava fosse facile respingere le proposte di Marchionne al mittente. Abbiamo visto come è andata a finire.

Tutti “contro” o tutti “per”?

Una probabile proposta del Governo sulla materia sembra ormai in arrivo. Federico Fubini lo ha segnalato in anteprima nei giorni scorsi. I due livelli della contrattazione (nazionale e aziendale) sarebbero confermati, pur con una diversa finalizzazione e peso. Da questi pochi elementi non sembrerebbe esserci l’intenzione a compiere una vera forzatura da parte dell’Esecutivo ma solo la volontà di sostenere e incrementare la contrattazione aziendale allargandone gli spazi, anche economici, rendendola esigibile e maggiormente funzionale alle imprese, soprattutto a quelle di una certa dimensione. E questo in una fase dove le parti sociali sembrano non sapere (o non volere) individuare alcun percorso comune né condividere un’analisi sullo stato reale del Paese e del contesto nel quale operano imprese e lavoro. Nelle conclusioni della relazione del Presidente di Confindustria Squinzi a Parma il rammarico di “…non aver convinto chi si occupa di sindacato della opportunità di riflettere sui nuovi temi fondativi dell’azione negoziale..” segnala un dato di fatto. Un forte disallineamento tra esigenze concrete delle imprese in una economia ormai globalizzata, che impone di mettere al centro il coinvolgimento dei collaboratori e le loro performance professionali e un sistema costruito nel secolo scorso che spinge inevitabilmente l’intero sistema delle relazioni sindacali su binari obsoleti. La stessa replica, sostanzialmente negativa, alla richiesta di confronto sulla proposta di Cgil, Cisl e Uil delle due principali organizzazioni datoriali sembra sottolineare questa rassegnazione sulla concreta utilità del confronto stesso e quindi la volontà di ciascuno di procedere per conto proprio. Sul tavolo dei metalmeccanici resta la sola proposta di Federmeccanica non condivisa, però, dalla totalità del mondo confindustriale. Soprattutto di chi ha appena firmato il proprio contratto nazionale. Dall’altro lato Confcommercio ritiene, a buon diritto, di avere, nel proprio CCNL, gli strumenti idonei a definire ciò che deve appartenere al livello nazionale e ciò che potrebbe essere decentrato, con quali strumenti e in quali luoghi. Poi ci sono ancora i contratti aperti che, mai come in questa situazione rischiano di avere un incerto destino. Sul fronte sindacale, l’aver partorito una proposta unitaria, spinge i tre sindacati all’attesa di una ipotetica risposta. Solo Barbagallo, segretario generale della Uil ha dichiarato che la loro proposta è da considerarsi solo un buon punto di partenza per una discussione mentre la Cgil sembra più impegnata a sostenere la “carta dei diritti” che, addirittura rischia di aggiungere ulteriori problemi in un futuro confronto con le organizzazioni datoriali. Dallo stesso sindacato dei metalmeccanici sembra riemergere, ad oggi, più una volontà unitaria di protesta che di proposta. Lo stesso vale per la PA dove il confronto vero avviene ormai solo sulla stampa. Ognuno per sé, quindi. Michele Tiraboschi, personalmente preoccupato dallo stallo della situazione e forte di una convinzione che nessuno, oltre alle parti sociali (insieme) sarebbe in grado di trovare un nuovo equilibrio, ha proposto un confronto tra organizzazioni datoriali e sindacali in terreno neutro. Mossa ingenua o inutile? Personalmente non lo credo. L’intervento governativo, pur, sulla carta non invasivo, non è certo buon viatico ad un ipotetico accordo, comunque da condividere. E rappresenterebbe, di fatto, il superamento di un limite di ruolo che potrebbe riservare, in un prossimo futuro, ulteriori sorprese. E non di segno necessariamente positivo. Comunque la si osservi è una situazione che presenta dei forti rischi di degenerazione a causa del contesto economico e sociale. Basta osservare cosa sta succedendo in Francia. Sia sul fronte delle imprese che, se non otterranno risultati concreti sul piano fiscale e contributivo, saranno sempre più costrette a forzare la situazione per cambiare profondamente le regole del gioco superando i vincoli presenti in contratti o in leggi ormai superati. Così come sul versante sindacale dove il processo di disintermediazione in atto nelle aziende rischia di marginalizzare, nei fatti, qualsiasi ruolo propositivo per il sindacato confederale e di ribaltarsi su ormai logori schemi negoziali. Confrontarsi forse serve davvero. Lo si può fare attraverso un classico confronto tra le parti seguendo la tradizione oppure in campo neutro. Almeno per mettere sul tavolo le reciproche intenzioni. Ma soprattutto per capire se e quali corpi intermedi hanno qualcosa da dire, ma anche da dare, per costruire il futuro del nostro Paese. Io credo che, pur nelle differenze e nelle contraddizioni questa volontà ci sia. Il ruolo e il futuro dei corpi intermedi si giudica proprio sulla loro capacità di proposta ma anche di resistenza al cambiamento. Con grande responsabilità e trasparenza. “Simul stabunt simul cadent”. Credo che mai come di questi tempi le organizzazioni di rappresentanza, riflettendo sugli interessi veri dei propri associati, dovrebbero avere chiaro questo punto. Tutto il resto, credo, viene dopo.

Lo sforzo del riformismo sindacale nell’epoca della disintermediazione

Nell’articolo di Rita Querzé sul Corriere è interessante la dichiarazione finale di Fabio Storchi Presidente di Federmeccanica il quale non ritiene affatto preoccupante il ricompattamento dei tre sindacati metalmeccanici. Anzi. Preferisce sottolineare i limiti e i problemi provocati dalla stagione delle divisioni. E quindi l’importanza di un suo superamento definitivo. Quella fase è chiusa. Lo si è constatato da parte di Confcommercio nel contratto del terziario, in quello dei chimici e degli alimentaristi da parte di Confindustria. Lo sarà, molto probabilmente, anche nei metalmeccanici. Lo stesso Bentivogli, segretario generale della FIM, nel suo intervento all’attivo unitario di delegati metalmeccanici del sud in preparazione del prossimo sciopero, ha cercato di mettere sullo stesso piano l’impegno unitario necessario per garantire la riuscita del prossimo sciopero con quello che occorrerà per costruire una nuova proposta altrettanto unitaria da contrapporre a Federmeccanica. Ha fatto bene, secondo me, a sottolineare che questo sarà il rinnovo contrattuale più difficile nella storia dei metalmeccanici. Nulla di epico, come quello del 1966, né generoso in termini di risultati come alcuni contratti successivi. È il primo contratto nazionale nell’era della disintermediazione. Di una disintermediazione che, nei fatti, è già in corso nelle imprese.. La vera domanda è se questo rinnovo fotograferà il tramonto di un’epoca gloriosa o se, al contrario, saprà contribuire ad aprirne una nuova. Nella posizione di Federmeccanica i ruoli sono chiari e assegnati. L’impresa è un luogo di creazione di ricchezza nella quale si deve determinare un nuovo patto tra capitale e lavoro. Non più l’azienda “mamma” che deve garantire “dalla culla alla tomba” ma un’azienda dove ogni contributo viene valutato, sviluppato e riconosciuto fino a quando i risultati lo consentono. Quindi, a quei risultati, tutti devono orientarsi e sentirsi ingaggiati. Un patto che presuppone un rapporto reciprocamente “maturo”, da rinnovare nel tempo attraverso nuovi strumenti formativi, professionali e partecipativi/collaborativi. Quello che è evidente è che non è affatto chiaro il ruolo assegnato al sindacato confederale. O meglio se ne coglie indubbiamente solo l’aspetto più “aziendalista”. L’imprese, la singola impresa, ha i suoi valori, la sua missione, i suoi obiettivi di business, i sistemi di incentivazione e di coinvolgimento sia per mantenere un clima positivo che sui risultati. Li propone e li concorda con una rappresentanza sindacale interna che sarà sempre meno divisa da contratti diversi, categorie professionali ma sempre più coesa verticalmente. La globalizzazione, l’integrazione nelle filiere, la tecnologia e quindi l’aggiornamento professionale necessario alla continua rinegoziazione del “patto” spingono in questa direzione. Per questo bene a fatto Bentivogli a siglare un patto con i professional della FCA. Il mondo va indubbiamente in questa direzione. A questo punto la palla passa al sindacato. A tutto il sindacato metalmeccanico. Unito nella protesta ma molto più difficile da unire sulla proposta. La posizione di Federmeccanica non è affatto debole perché risponde a quello che già oggi avviene nella stragrande maggioranza delle imprese. Questo passaggio contrattuale lo può sancire o meno. Il punto non è se ci sono mediazioni possibili. Queste si troveranno sicuramente. Per questo l’aspetto salariale rappresenta solo la punta dell’iceberg. La domanda centrale è se il sindacato saprà unitariamente proporsi come interlocutore credibile non solo per le imprese ma anche per i lavoratori stessi che, lo si voglia o meno, sono già chiamati a rispondere a queste sollecitazioni culturali e professionali nei diversi luoghi di lavoro.

La GDO ha veramente bisogno di un suo CCNL?

È ormai evidente che siamo prossimi a possibili cambiamenti nel sistema contrattuale del nostro Paese. Federico Fubini sul Corriere presenta un’ipotesi di percorso graduale allo studio del Governo. Lo schema prevederebbe materie specifiche per il livello nazionale e altre possibili a livello aziendale. La stessa posizione di Federmeccanica punta, pur a certe condizioni, a salvaguardare un ruolo al loro CCNL. Quindi è probabile che l’obiettivo su cui convergere resti quello di costruire un sistema a due livelli indicando in modo chiaro cosa dovrà comprendere il primo e cosa il secondo. Perfettamente compatibile con le opzioni offerte dal CCNL del terziario firmato da Comfcommercio. Federdistribuzione, (ma, per certi versi, anche Confesercenti e Coop) avevano iniziato un percorso alternativo in un contesto politico, sociale e contrattuale completamente diverso da oggi nel quale ipotizzare nuovi soggetti contrattuali o insistere su specificità e peculiarità era ritenuto un punto importante di chiarezza (almeno per i proponenti). La strada intrapresa non solo non ha partorito risultati apprezzabili (almeno fino ad ora) ma rischia di non offrire alle imprese soluzioni utili ma solo ulteriori problemi. Nella migliore delle ipotesi i due punti principali (adeguamento salariale e welfare), in termini di costi, non potranno registrare differenze significative rispetto al CCNL del terziario. Al massimo si porrà un termine di adeguamento delle scadenze reciproche. Quindi la montagna rischia di partorire il classico topolino. La GDO ha sempre avuto il suo vero punto debole nei contratti aziendali perché nelle singole realtà ha dovuto, in passato, subire l’iniziativa sindacale. Ed è evidente che in tempi dove il punto vendita o il sistema logistico era più esposto alle agitazioni, il potere contrattuale del sindacato è sempre stato molto forte. Quindi indennità, inquadramenti, turnazioni e orari sono stati oggetto di “scorribande” che spesso hanno messo in seria difficoltà la gestione stessa dei punti vendita e quindi delle singole imprese. A questo occorre aggiungere che un’azienda “sotto attacco” interno si trovava esposta anche alla aziende concorrenti che ne traevano, in termini di vendite, indubbi benefici. Questo schema, nel passato, ha sempre reso deboli le difese nei confronti del sindacato anche a fronte di richieste assurde (ragionando nell’ottica odierna). Oggi la situazione si è ribaltata. Il sindacato è debole e diviso, i lavoratori coinvolti in progetti di crescita e sviluppo, le regole del gioco sono cambiate e i rapporti di forza sono favorevoli alle imprese. Quindi le aziende stanno cercando da lungo tempo di rimettere in discussione sia la contrattazione aziendale per riprendere definitivamente il controllo di tutti gli aspetti organizzativi che il costo del lavoro in generale. Va sottolineato che questo non è un tema posto strumentalmente dalle imprese. Il settore è in difficoltà, la leva dei prezzi non è oggi utilizzabile, le promozioni le fanno ormai tutti, i margini sono risicati, gli affitti sono di difficile rimodulazione e quindi i vincoli sui costi, sugli inquadramenti e sugli orari pesano ancora di più e le rigidità presenti in molte aziende aggiungono costi che potrebbero essere evitati. In questo contesto, continuo a pensare che la soluzione non è farsi il proprio contratto nazionale perché questa opzione non risolve nessuno dei problemi che non dipendono comunque da quel livello. Forse sarebbe più saggio percorrere altre strade. Magari in linea con l’evoluzione prossima del contesto contrattuale. Welfare e minimi contrattuali che siano di comparto o che siano quelli del CCNL del terziario non hanno alcuna influenza sui costi. Quindi rappresentano solo un problema politico che interessa poco le singole imprese coinvolte. Ovviamente interessa molto di più le federazioni o le confederazioni che lo hanno proposto in alternativa a quello del Terziario. Ma questo è un altro discorso. Altro tema è rappresentato dalla opportunità e dai luoghi dove affrontare l’esigibilità concreta su tematiche costistiche. Iniziando dall’inquadramento che comprende sia il problema della derogabilità del 2103 del cc. o dell’art. 13 della legge 300. Tema veramente importante che andrebbe posto e affrontato seriamente nelle sedi più idonee. Il collaboratore dovrebbe essere retribuito per il lavoro che svolge concretamente. Non per il suo percorso professionale passato. Questo, tra l’altro, non spingerebbe fuori dall’azienda i lavoratori più anziani che potrebbero, al contrario, essere meglio riutilizzati anche in caso di cambio di mansione. E questo è un tema che interessa tutto il comparto del terziario. Così come sarebbe utile poter sperimentare forme di sviluppo professionale in azienda che non siano necessariamente inserite nell’inquadramento tradizionale. Infine formule di derogabilità temporanea o legata non solo è non tanto alle aperture ma anche in particolari situazioni di mercato o locali. Ad esempio mi si dovrebbe spiegare la differenza tra un’insegna che apre ex novo e che ha degli indubbi vantaggi organizzativi ed economici nell’avviamento garantiti dal contratto e quella che subisce quell’apertura perché ne condivide il bacino di riferimento e non ne ha nessun vantaggio. Anzi.  Infine la possibilità di poter variabilizzare parte della retribuzione magari derogando da istituti obsoleti e investendo su forme di coinvolgimento serio sull’andamento economico degli stessi punti vendita. Certo si tratterebbe di abbandonare strade note scelte più per replicare ruoli e luoghi deputati al confronto tradizionale per spingere verso modelli alternativi. E ridare senso e ruolo alla contrattazione decentrata. Ma questo non basta. Le aziende possono fare solo la loro parte. Occorre, e questo è molto importante, che gli interlocutori sindacali decidano la posta in gioco, le nuove priorità e mettano in campo una nuova consapevolezza. Il futuro delle relazioni sindacali potrebbe passare anche da qui.

Modelli di sindacato e riforma della contrattazione

Nel dibattito sui livelli della contrattazione non è ancora comparso in modo chiaro il tema del modello di relazioni industriali auspicato e coerente. Quindi della natura stessa del sindacato e, di conseguenza, del rapporto tra sindacato confederale e impresa. In molti interventi sindacali si dà per scontato quello che scontato non è. Che tutto sia chiaro sul modello proposto e che ci sia un interesse comune alla collaborazione e che il modello partecipativo possa comprendere la cultura rivendicativa tradizionale, il coinvolgimento sulla strategia aziendale e, perché no, la codeterminazione dell’organizzazione del lavoro. E che questo rappresenterebbe un supposto vantaggio per le imprese. Non è così. Nella stragrande maggioranza delle piccole aziende, ad esempio, l’adesione al sindacato di uno o più dipendenti è visto, dall’imprenditore, come un fatto generalmente non positivo, a prescindere. Il piccolo imprenditore, salvo rari casi, se non costretto, non ha mai voluto aver nulla a che fare direttamente con il sindacato. Da qui la nascita negli anni, in alcuni comparti, di strumenti di gestione dei reciproci interessi all’esterno dell’impresa (enti bilaterali, uffici sindacali di associazione, uffici legali, ecc.) che, di fatto, hanno assegnato alle parti sociali la composizione dei piccoli o grandi problemi di interpretazione dei contratti o del singolo rapporto di lavoro. Evitando il contatto diretto ma facendo però crescere in entrambe le parti la disponibilità a tenere conto dell’altro e degli eventuali contenziosi da ricomporre con modalità non unilaterali o davanti ad un giudice. E non è una cosa da poco visto il tessuto produttivo italiano. In questa tipologia di aziende il rapporto personale e lavorativo tra imprenditore e singoli lavoratori è generalmente costruttivo e collaborativo. A queste dimensioni aziendali il contrario sarebbe assolutamente improponibile. Quindi, il modello prevalente vede l’impresa come un luogo dove la creazione di ricchezza è interesse comune dell’imprenditore e dei singoli lavoratori e dove il CCNL rappresenta un punto di equilibrio fondamentale e insostituibile. E parliamo di oltre il 90% delle imprese del nostro Paese. Nelle medie e grandi imprese, pur non essendoci un grande feeling tra sindacalisti e manager, c’è la consapevolezza che occorre impegnarsi reciprocamente per trovare le soluzioni necessarie a mantenere un clima positivo nelle imprese. Ed è qui che la natura e il modello scelto potrebbe fare la differenza. E, partendo da qui, costruire una nuova cultura collaborativa e partecipativa. Questa è la vera posta in gioco. Si può continuare a illudersi e rappresentare una realtà che non esiste più da anni fatta di rilancio di potenziali rapporti di forza, un tempo favorevoli, improbabili lotte in grado di ribaltare la situazione e una rinnovata capacità di modificare la distribuzione del reddito nel Paese a favore del lavoro dipendente o dei pensionati. Una cosa però non si può fare: scegliere una strada costretti dalla mancanza di alternative. Altra cosa è prendere atto che le nuove relazioni sindacali dovranno tenere conto del mutato contesto competitivo delle imprese, del loro inserimento nelle filiere globali, dei nuovi modelli organizzativi indotti dalla tecnologia e, del fatto che la ricchezza deve essere preventivamente prodotta prima di essere eventualmente distribuita. Marco Bentivogli della FIM CISL, senza scandalizzarsi, cita le parole di Bob King, ex leader del sindacato auto americano (Uaw): ‘Quando gli interessi dei lavoratori coincidono con quelli dell’impresa non è solo una scelta, ma un dovere fare un pezzo di strada assieme’. Lo stesso modello tedesco è lì a dimostrare che un leader sindacale di VW è innanzitutto di VW, poi della IG metall e poi della SPD. In quest’ordine preciso. È chiaro che se si ha in testa un modello partecipativo o collaborativo di nuovo conio solo da qui si può partire. Pensare di arrivarci da un modello conflittuale o addirittura antagonista è tempo perso. Nessuna impresa sarà mai disponibile. Né in Italia né altrove. L’AD di FCA ha, credo, dal canto suo, idee chiarissime. Pensa ad un sindacato aziendale sul modello americano o, al limite, tedesco. Credo che gli imprenditori italiani più sensibili in materia pensino, più o meno, ad un modello analogo. Federmeccanica spinge, di fatto, in questa direzione. Ma se è chiaro il modello di partecipazione ipotizzato dalle imprese non è altrettanto chiaro il rapporto tra sindacalismo confederale e aziendale. Ovviamente Si può anche non farne nulla e lasciare le cose come stanno. Per le imprese non interessate un modello che faccia perno su di un rinnovato sistema bilaterale moderno, efficace e territoriale con la possibilità di erogare quote di salario legato ad obiettivi di impresa e pochi (quattro) contratti nazionali che garantiscano welfare e minimi di riferimento e regole generali con spazi di autonomia per settori e comparti specifici potrebbe essere la soluzione auspicabile di una qualsiasi riforma. Al sindacato quindi spetta scegliere la direzione di marcia. Allo stato è più facile ipotizzare che la montagna partorirà il topolino. I due livelli (nazionale e aziendale) tenderanno inevitabilmente ad elidersi a vicenda. Più risorse sul primo, significano inevitabilmente meno sul secondo. Landini dice che uno più uno deve continuare a fare due. La realtà è che, in futuro, uno più uno rischierà di fare zero virgola nella stragrande maggioranza delle imprese oggi ancora coperte dalla contrattazione nazionale. Con tutti i rischi che comporta una modifica che non consideri l’intero contesto di riferimento.

La tristezza dei numeri…

Nell’intervista a Landini sul Corriere emergono con tutta evidenza i limiti di una strategia che non riesce a dare risposte in grado di proporre traiettorie credibili all’iniziativa sindacale. La Cgil nelle categorie industriali e nel terziario non è affatto ferma al palo. O partecipa insieme alle altre organizzazioni di categoria all’elaborazione e alla definizione di sintesi accettabili o, addirittura, è ritornata, essa stessa, a proporre punti di incontro e mediazioni come nel terziario mettendo in discussione egemonie consolidate. In parte per evidenti difficoltà altrui, in parte per una decisa spinta della stessa Confederazione. Vedere Landini costretto a nascondersi dietro la numerosità dei suoi rappresentanti della sicurezza in FCA in rapporto al peso e alla capacità di iniziativa delle altre organizzazioni lascia perplessi. Soprattutto nella prospettiva di un futuro rinnovo del loro contratto nazionale. Fino ad oggi ci ha pensato Federmeccanica a tenere insieme i tre sindacati con una proposta insufficiente sul versante economico e forse anche su altri temi ma non sarà così ancora per molto tempo. Landini non crede che siamo dentro un cambio di paradigma economico e sociale; che all’interno delle filiere produttive l’alleanza tra capitale e lavoro produrrà una continua metamorfosi dei soggetti in campo e quindi anche della rappresentanza. Che le contraddizioni tra garantiti e non garantiti coinvolgeranno imprese, territori, culture differenti e generazioni e che non saranno più sufficienti risposte semplici a problemi complessi. Tutti i corpi intermedi si stanno interrogando su come ricomporre un quadro di riferimento evitando che le distanze nelle rispettive basi di riferimento siano troppo ampie. Lui no. Attende dentro i suoi non più solidi confini novecenteschi che le contraddizioni esplodano altrove. Da qui nasce il senso di autosufficienza, una grave sottovalutazione degli altri sindacati e del ruolo stesso della sua Confederazione. Un errore analogo lo fece, negli anni ’90 la dirigenza della FIM di Milano che, in forza degli stessi principi, diede vita alla CUB trasformando un sindacato territoriale, ricco di iniziativa, votato alla solidarietà e alla proposta sociale anche avanzata, in un promotore di cause a ciclo continuo inserito permanentemente nel circuito dell’estremismo inconcludente che strizzava l’occhio ai salotti borghesi della città. La FIOM ha sempre evitato, fino ad ora, di seguire concretamente quella strada anche estromettendo ruvidamente chi ha cercato di cavalcare in modo troppo spregiudicato i confini tra opposizione sociale e politica. Ma oggi non basta più. Da un lato quella platea lo reclama come leader “usa e getta” e dall’altro altri compagni di viaggio lo richiamano alla coerenza e lo invitano a rientrare in campo senza spocchia ma nella chiarezza. Quindi dovrà scegliere con chi stare.  La proposta di Federmeccanica, checché ne pensino alcuni esponenti sindacali, nella sua indigeribilità segnala comunque la volontà di mantenere un sistema che prevede ruoli e compiti precisi ai diversi livelli. L’alternativa non sarà un semplice ritorno al “modello classico” ma, piuttosto, il fai da te. Azienda per azienda. La cautela di Bentivogli è quindi più che giustificata. Il punto è come gettare “l’acqua sporca” contenuta nella proposta, senza “gettare anche il bambino”. Chiedere al nuovo Presidente di Confindustria di abiurare la posizione di Federmeccanica è ingenuo e inutile. Meglio farebbe Landini a contribuire all’elaborazione di una proposta alternativa insieme a UILM e FIM che non si basi solo sul rifiuto della proposta datoriale. Altrimenti il rischio è che anziché contare i rappresentanti della sicurezza Landini si troverà costretto a contare i livelli (veri) di adesione alle iniziative sindacali e agli scioperi. E allora non basterà accusare la controparte o le altre organizzazioni sindacali di cedevolezza o di connivenza con le tesi di controparte…

Convergenze interessanti

La nuova stagione sindacale aperta con la presentazione della piattaforma confederale sulla contrattazione, l’annuncio di iniziative comuni sulle pensioni e la firma unitaria nei principali contratti nazionali segnalano il sostanziale rientro in gioco della Cgil e le difficoltà di elaborazione e proposta che sembrano essere presenti in Cisl e Uil. In un recente convegno in Università Cattolica a Milano lo stesso Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha lanciato l’allarme agli intellettuali di area affinché ritornino a impegnarsi nel sociale a supporto del sindacato. Mai come oggi la solitudine dei corpi intermedi non aiuta la loro elaborazione strategica e non porta da nessuna parte. Gli unici segnali di cambiamento e di proposta sembrano provenire da qualche categoria dell’industria e da alcuni territori. L’ultima mossa interessante, in ordine di tempo, è la convergenza della FIM CISL con l’associazione quadri e professional di FCA (AQCF). Una decisione che ha colto impreparati quanti ritenevano che la ripresa dell’iniziativa unitaria sul rinnovo del CCNL comportasse il “sacrificio” di una linea politica vincente quanto indigesta alla FIOM. Quest’ultima decisione dimostra solo che l’unità sindacale provocata dalla posizione di Federmeccanica al tavolo contrattuale comportava una risposta. E questa risposta doveva essere, giustamente, unitaria. Ma, come aveva già fatto notare Bentivogli, tattica e strategia sono due cose differenti. E la strategia della FIM, anche sulle innovazioni che il rinnovo del CCNL può e deve produrre, è ancora sostanzialmente differente da quella della FIOM. E questo, prima o poi riemergerà nel confronto. I ritardi di elaborazione e le posizioni sbagliate non si recuperano con qualche autocritica estemporanea. Per questo servono i congressi, comportamenti coerenti al centro con in periferia e il rispetto delle opinioni diverse e dei luoghi dove queste opinioni si formano. Tutto questo presuppone tanta strada ancora da fare. E credo che sia da apprezzare se la FIOM intenderà percorrerla pur mantenendo la propria cultura e la propria identità. Un sindacato si rinnova solo se intuisce la direzione del cambiamento. Per questo la convergenza con l’associazione dei quadri FCA è strategica. Nei processi di integrazione nelle filiere globali saranno sempre meno le vecchie categorie contrattuali a determinare i confini organizzativi. E quindi anche quelli sindacali. Nell’impresa di nuovo conio, dirigenti, quadri e lavoratori di ogni livello, collaborano. Partecipano insieme al successo o al declino dell’azienda stessa. Ed è solo sperimentando nuovi linguaggi, culture e valori che sarà possibile declinare nuove traiettorie sindacali. La convergenza su alcune tematiche tra associazioni che provengono da un passato differente ma che vivono la stessa realtà arricchirà entrambi. Male fa Fismic a non comprenderlo. E male fanno le altre organizzazioni a restare ancorati esclusivamente a modelli gloriosi, importanti, da cui non avrebbe alcun senso prescindere che però vanno declinati nell’impresa di oggi e di domani. E male fa anche Federmanager a restare chiusa nel proprio recinto. Il futuro non si prevede, si fa. E il futuro va in questa direzione. Per tutti.

Lo “scontro” al tavolo negoziale dei metalmeccanici è solo sul salario?

Agli osservatori meno attenti non pare vero. Il negoziato sul rinnovo (o rinnovamento) del CCNL dei metalmeccanici si è fermato, come da tradizione, sul salario. Inaccettabile o insufficiente la proposta di Federmeccanica per i tre sindacati. Posizione, per altro, assolutamente comprensibile. Nessuno, ovviamente, vuole arrivare ad una rottura definitiva, perché la posta in gioco è alta, però l’impasse è evidente. La proposta di Federmeccanica è chiara. L’istituzione di un minimo di garanzia nazionale che consentirebbe l’aumento salariale solo a chi, alla firma, si troverebbe sotto quella soglia. Il calcolo dei sindacati, non smentito da Federmeccanica, conferma che l’aumento verrebbe percepito solo dal 5% della categoria. Quindi, per loro, una proposta inaccettabile. Non mi interessa qui entrare nel merito né fare previsioni. Probabilmente un accordo si troverà, prima o poi. Mi interessa cercare di ragionare sul punto. Ad una recente iniziativa di AREL a cui ho partecipato alcuni relatori hanno preferito mettere l’accento sull’alternativa tra livelli negoziali differenti senza entrare nel merito e su come questo risolverebbe la questione di fondo posta da Federmeccanica. A dire il vero Stefano Franchi ha cercato di inquadrare nel contesto economico e produttivo le ragioni della loro proposta ma, devo ammettere, senza grande ascolto. A parte Franco Martini della Cgil che, invece, secondo me, ha compreso il problema e la criticità delle distanze in gioco. Il punto è che la complessità del contesto economico continuerà a crescere. Per questo le imprese convergeranno, sempre di più, verso modelli a rete dipendendo interamente dalle filiere globali nelle quali saranno inserite. E questo ricorso alle filiere esterne porta con se modelli produttivi e organizzativi flessibili e decentrati, nuove conoscenze e nuovi servizi a monte e a valle. Di fatto il superamento del modello costruito intorno alle leggi, ai vincoli, e ai contratti nazionali o aziendali che ci trasciniamo dalla metà del secolo scorso. Il lavoro di chi partecipa al nuovo modo di produrre valore in tante diverse situazioni va sempre più perdendo le connotazioni facilmente definibili che aveva in passato. Innanzitutto tutti i lavoratori, che lo si voglia o no, saranno sempre più in competizione tra di loro. Tra luoghi e fabbriche nella stessa filiera o di filiere concorrenti e questo spingerà inevitabilmente il singolo lavoratore in una ottica profondamente diversa. In quante imprese in crisi, dipendenti e imprenditori si sono trovati concordi nel cercare soluzioni praticabili ad alcuni problemi determinati dal confronto competitivo globale (i costi, gli orari, la flessibilità, ecc.). In secondo luogo, la distribuzione del reddito nella filiera sopra descritta è sempre meno affidata alla contrattazione tra datore di lavoro e dipendenti sia a livello aziendale che con i sindacati a livello nazionale. E questo è il punto vero. La vera novità sottesa dalla proposta di Federmeccanica. Sono i prezzi dei contratti di fornitura tra fornitori e committenti che lo determineranno. Per cui la vera contrattazione che distribuirà il reddito della filiera (a imprenditori e lavoratori) si farà, sempre di più, ai tavoli che fissano i prezzi delle forniture. Da qui la richiesta di decentramento che se non gestita correttamente porterà inevitabilmente ad una situazione di dumping tra imprese e lavoratori. Infine, la terza questione che si apre per i sindacati, è quella dello status specifico che andrà assegnato al nuovo modello di riconoscimento professionale del lavoro dove sono richiesti autonomia, intelligenza, condivisione del rischio, dei valori dell’impresa e responsabilità. Tutti si rendono conto, ormai, che la figura del “lavoro dipendente” classico, ereditato dalla tradizione fordista, comincia ad essere superata, nei suoi elementi di fondo, rispetto alle nuove esigenze. Ma la cultura e l’ordinamento del lavoro, nel nostro Paese, sono fondamentalmente orientati alla conservazione dei modelli discendenti dai vecchi paradigmi che solo Marco Biagi aveva cercato di superare. Tutti i tentativi di cambiamento vanno avanti tra discussioni, spesso inutili, che si concentrano su aspetti secondari spacciati come innovazioni rivoluzionarie. Quindi, al di là del legittimo diritto di manifestare un dissenso di merito con la propria controparte il punto di svolta che caratterizzerà le nuove relazioni industriali passerà anche dalla capacità di affrontare o meno le questioni di fondo che sottendono alla “provocazione” di Federmeccanica Indipendentemente delle soluzioni che potranno essere individuate. Personalmente credo che la strada sia stata tracciata. Questi temi caratterizzeranno inevitabilmente i prossimi rinnovi contrattuali in ogni comparto. La sfida vera sarà tra chi vorrà giocare, fino in fondo, la partita e chi, al contrario, si limiterà a subirla.

Quale riforma della contrattazione? Una proposta del tutto personale…

Ormai è chiaro. Il confronto sui livelli contrattuali proposto da Cgil, Cisl e Uil non porterà a nulla di risolutivo. Almeno così sembra. La convinzione che bastasse sommare le reciproche posizioni in un rinnovato quadro di iniziativa unitaria si è dimostrata sostanzialmente inefficace. Nessuna controparte significativa pare intenzionata a coglierne lo spirito propositivo e ad entrare nel merito. Certo la tempistica scelta non sembra particolarmente centrata e, a parte i giudizi di merito, tre elementi ne condizionano il percorso. L’elezione del nuovo vertice di Confindustria e il rinnovo in corso del CCNL dei metalmeccanici nel settore industriale e i confronti ancora aperti nel settore del terziario che impediscono a Confcommercio di avviare un confronto utile e reciprocamente costruttivo. Detto questo, credo che alcuni elementi di merito dovranno caratterizzare qualsiasi ripresa di negoziato. Innanzitutto un principio credo, condivisibile da tutti: non si può distribuire ricchezza che non si è ancora creata. Quindi il nuovo modello dovrà necessariamente partire da qui. Non esistono né automatismi né scorciatoie praticabili. Soprattutto in fasi di inflazione bassa o assente. In secondo luogo il ruolo e il peso del welfare contrattuale anche in rapporto con quello aziendale; i suoi confini, le massa critiche necessarie e il conseguente consolidamento. In terzo luogo la formazione delle persone come strumento fondamentale di “ricostruzione continua” della professionalità dei singoli. Infine i luoghi deputati al negoziato, le materie specifiche da assegnare ai vari livelli e le eventuali deroghe. In questo contesto dovrà essere possibile anche prevedere la sospensione temporale di istituti in caso di crisi o in particolari situazioni territoriali. Così come dovrà essere possibile, la definizione di aree contrattuali in settori specifici dotate di relativa autonomia (ad esempio la GDO o la ristorazione nel terziario) che, pur rispettando il CCNL di riferimento per quanto riguarda alcuni istituti, possano derogare su materie specifiche e omogenee del loro comparto. Ottenendo così il risultato di ridurre notevolmente i contratti nazionali e di garantire la gestione delle peculiarità. Infine un tema che non appare mai ma che, personalmente, reputo fondamentale. La riforma del salario e dell’inquadramento. Pensare che si possa parlare di una efficace riforma della contrattazione senza affrontare questi due temi significa mettere in conto che la “montagna partorirà il topolino”. L’inquadramento risale agli anni ’70 del secolo scorso e non sarà certo una delle ennesime commissioni nei singoli contratti a garantirne modifiche significative. Bisogna innanzitutto chiedere al Governo, e quindi al Parlamento, di mettere mano, ad esempio, all’art. 2103 del codice civile e, di conseguenza, all’articolo 13 della legge 300 per affrontare, non tanto il tema del demansionamento, quanto quello della rispondenza effettiva del livello contrattuale (nuovo o vecchio) con la concreta mansione svolta. Senza trascinamenti derivati dall’anzianità aziendale, superando inquadramenti e mansionari obsoleti e limitandosi, ad esempio, a indicare range retributivi da mettere in relazione con nuovi e precisi riferimenti parametrali. La vera riforma passa da questo punto. E, partendo da qui, mettere mano alla struttura complessiva della retribuzione individuando ciò che dovrebbe costituire il minimo garantito nazionale (ad esempio parametrandolo alla CIG), ciò che è salario professionale da legare alle nuove scale parametrali e, infine, ciò che è salario da mettere in relazione all’andamento aziendale o ad obiettivi specifici. In questo modo si avrebbe una parte fissa e due variabili. La parte fissa e quella professionale di riferimento sarebbero trattate a livello nazionale, l’ultima a livello aziendale insieme all’allineamento di quella professionale alle esigenze specifiche dell’impresa. Le due parti variabili spingerebbero decisamente verso un modello dove la formazione e la crescita professionale diventerebbero un elemento decisamente più importante e condiviso così come un effettivo e non formale coinvolgimento su rischi e opportunità dell’impresa farebbe evolvere in senso collaborativo il contesto delle relazioni industriali. Certo non sono scelte facili. Soprattutto se si crede ancora possibile un ritorno al passato o un semplice aggiustamento della situazione attuale. Ma se riteniamo che l’azienda deve essere sempre più un luogo di creazione di ricchezza e, quindi, di collaborazione tra capitale e lavoro non abbiamo altra strada. Dobbiamo individuare gli strumenti per condividerne l’andamento, i problemi e le prospettive. Da entrambe le parti. Le nuove modalità organizzative da industry 4.0 in avanti e i nuovi modelli organizzativi e di business vanno in questa direzione. Le persone, il loro contributo e la loro qualità (impegno, condivisione, capacità e competenze) ritornano al centro dei valori e degli interessi dell’impresa. Meglio se con nuove relazioni industriali. La cosiddetta “disintermediazione” si impedisce solo se si abbandonano le rendite di posizione con proposte chiare. Per questo occorre che entrambe le parti si attrezzino dotandosi di una strategia e di una visione comune in grado di affrontare il futuro. Strategia che, oggi pare non esserci ancora.

Persone al centro

Bene ha fatto Di Vico a scrivere, oggi sul blog del Corriere, che nella proposta di Federmeccanica c’è una riflessione nuova e, di fatto, molto impegnativa. Innanzitutto per imprenditori e aziende. L’importanza delle persone per una nuova cultura delle imprese. Impostazione che va al di là delle tipiche resistenze sul salario o dei tentennamenti sull’inquadramento tipiche di ogni fase negoziale e che lancia una sfida completamente diversa al sindacato che, a parte la FIM CISL, che proprio ieri ha centrato il tema dello sviluppo dei lavoratori anche attraverso la formazione, sembra non accorgersene. Ma questa è una sfida anche per chi, nel dibattito sulla successione alla guida di Confindustria, si schiera sulla proposta di Federmeccanica senza cogliere in pieno il significato di questa svolta. Purtroppo la stagione che abbiamo alle spalle e che ha caratterizzato le relazioni industriali del nostro Paese non aiuta ad accettare l’idea che sia necessario un vero e proprio cambio di paradigma. Troppe visioni a corto termine, troppe incoerenze e troppe reticenze per nascondere modesti interessi di comparto. Nel secolo scorso, quando l’antagonismo e il conflitto dominavano la scena, le poche innovazioni in chiave partecipativa provenivano da minoranze (sindacali e datoriali) che sperimentavano, in provetta, forme di collaborazione costruttiva. Oggi è diverso. L’incertezza del contesto impone il dialogo. Che lo si auspichi o meno. Che lo si subisca o che, al contrario, lo si proponga. Si affacciano nuovi bisogni, i confini del lavoro si modificano, le imprese si misurano con nuovi modelli di business, i cambiamenti costringono ad accelerazioni imprevedibili e improponibili fino a pochi anni fa. Oggi ce la caviamo ancora continuando a fare cose vecchie in modo nuovo ma, chi si sta affacciando sulla scena, si troverà a fare, sempre più, cose nuove in modo nuovo e, d’altra parte, abbiamo sempre meno esperienza consolidata e utilizzabile per quello che dovremo andare a fare. Su un punto, credo, siamo tutti d’accordo: le persone, nelle imprese, sono e saranno sempre più importanti. E le persone, nell’azienda di oggi e di domani non vanno solo tutelate nel rapporto di lavoro, vanno ingaggiate, motivate, coinvolte, responsabilizzate. La sfida, è nella formazione, nello sviluppo, nella crescita professionale ma anche nella costruzione di nuove relazioni sindacali. O saranno in grado di accompagnare queste esigenze consentendo alle persone opportunità di crescita, di continua “ricostruzione” professionale per interagire con un mercato del lavoro molto più complesso, di mettere loro a disposizione welfare integrativo e innovativo, di creare opportunità di bilanciamento tra esigenze di lavoro e esigenze di relazione, oppure saranno sempre più marginalizzati e resi irrilevanti nelle aziende e nel Paese. L’impresa non è un luogo di scontro. Non lo è più da molto tempo. L’asimmetria nei rapporti di forza è evidente e condivisa. Pensare di riportare indietro le lancette del tempo per riequilibrarli è una fatica inutile. Però l’impresa del futuro necessità di persone consapevoli, convinte, coinvolte con le quali dovrà essere possibile costruire dei patti chiari, magari a tempo, ma chiari. Quindi rapporti più maturi. Per questo i contratti nazionali sono e restano importanti. Dovranno definire comunque, oltre ai i minimi retributivi di riferimento, la cornice, gli strumenti, le regole di ingaggio, i costi da pagare se, queste regole, non dovessero essere rispettate. Evitando così situazioni di dumping tra le aziende e di concorrenza tra lavoratori di diversa provenienza. Così come i contratti aziendali che si dovranno occupare di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità tra l’impresa stessa e i suoi collaboratori. Il primo passo, importante, è stato quello di decidere che la stagione degli accordi separati si doveva chiudere. Le imprese e le loro rappresentanze hanno compreso che non portava da nessuna parte e i singoli sindacati confederali che non ne avrebbero conseguito alcun rilevante beneficio. Solo nel comparto metalmeccanico, per la persistenza di vecchia logiche, non solo ideologiche ma anche di potere, era e forse, è ancora necessario reggere con forza un distinguo sui contenuti. La deriva identitaria quando è sganciata da una progettualità alta e idee forti però produce solo subalternità. Quindi una nuova stagione di ripresa di iniziativa unitaria era auspicabile ed è importante che sia di nuovo possibile. È evidente che una unità esclusivamente difensiva e intesa come la sommatoria delle reciproche debolezze strategiche è solo destinata ad accelerare il processo di marginalizzazione. Per questo non basta comprendere il cambiamento. Bisogna esserne parte. Da soli non si basta più. L’azienda per reagire al contesto cerca nuovi equilibri, si trasforma da organizzazione in organismo e quindi diventa sempre più trasparente e vissuta da chi ci vive dentro. Per questo rimette al centro le persone. Sempre meno “dipendenti” è sempre più collaboratori con cui si condivide e si concorda. La vera sfida per il sindacato e per le nuove relazioni sindacali sta tutta qui. Certo ci si può sottrarre tornando indietro. Oppure mettersi in gioco. E non saranno le formule o l’esportabilità di un modello a fare la differenza. Quindi, nel sindacato confederale, diventerà sempre più importante che si riprenda a discutere di strategie, obiettivi e contenuti anche della contrattazione in chiave innovativa e non conservatrice. Credo però non sia sufficiente percorrere questa via da soli. Sindacati da un parte e imprese dall’altra. Occorre uno sforzo comune. Ricordandoci sempre che al centro ci sono le persone, la loro vita, il loro impegno e il loro futuro. E in gioco c’è il ruolo che i corpi sociali vogliono giocare nella nostra comunità. Una sfida non da poco.