Il rinnovo del contratto nazionale di qualsiasi categoria, rischia, negli anni, di assomigliarsi sempre nelle liturgie che lo accompagnano, Nessuna evoluzione particolare all’orizzonte. Il punto è che, se si vuole cambiare, passando da un sistema sostanzialmente rivendicativo/conflittuale ad un’altro, maggiormente collaborativo, le modalità, la comunicazione, le forme di composizione e di dissenso vanno riviste profondamente. Ad esempio come si può pensare di “chiamare alla lotta” per costringere la controparte a forme maggiori di partecipazione? Oppure a costruire e condividere pezzi importanti di gestione del welfare contrattuale? Oppure ad avere uno sbilanciamento dei costi sul livello nazionale e chiedere contemporaneamente un maggiore decentramento della contrattazione? E potrei proseguire con altri esempi. Questa impostazione che lo si voglia o no, è tipica di una cultura che vede nel conflitto uno strumento ancora in grado di modificare sostanzialmente la posizione della controparte (e non è più così da tempo) accompagnata da una comunicazione altrettanto tradizionale che cerca di banalizzare le posizioni di una controparte con cui si vorrebbe costruire una strategia diversa. Tutti sanno che il costo complessivo di un contratto è calcolato minuziosamente dalle imprese. Solo le contropartite, la dimensione delle tranche, le modalità e la durata sono evidentemente mobili e, solo in questo modo, si potrà individuare un bilanciamento con le richieste; per questo condividere la direzione di marcia è più importante delle distanze sui singoli punti. Ed è per questa ragione che, l’unico modo di “mettere in difficoltà” una controparte, resta nella capacità di presentare controproposte credibili e praticabili che rispettino una strategia complessiva. Quando si trovano queste soluzioni parziali, di solito, il negoziato fa degli utili passi in avanti. Credo sia evidente a tutti che i rapporti di forza sono cambiati. Così come è evidente che la piattaforma prevalente, sulla quale il confronto avviene, è sempre più spesso quella datoriale. Quindi è solo la capacità propositiva e non la minaccia del conflitto in sé che può modificare i comportamenti. Soprattutto quando questi scontano anche elementi esterni al tavolo negoziale. A volte prendere tempo non è perdere tempo. Soprattutto quando continuano ad esistere profonde differenze strategiche nello stesso sindacato. Una strategia unitaria esclusivamente difensiva è destinata a non percorrere nuove strade ma di portare tutti su di un binario morto. Occorre indicare con chiarezza dove si vuole andare, con chi e con quali obiettivi. E questo non lo si ottiene sommando le rispettive debolezze o illudendosi di poter riprendere uno spazio sociale messo definitivamente in crisi dalla globalizzazione e dal contesto sociale e politico. Occorre ben altro. La contrattazione, è evidente, resta comunque la ragion d’essere di un sindacato. I suoi contenuti e le modalità con cui vengono sviluppati e realizzati caratterizzano la qualità dei dirigenti e la loro capacità di interpretare e accompagnare il cambiamento preparando il futuro. In entrambi i campi quindi non solo tra i sindacati dei lavoratori. E, di questa qualità, lungimiranza e convergenza il nostro Paese, oggi, ne ha un gran bisogno.
Tacchini e scoiattoli
Maurizio Bernava, segretario confederale della Cisl, in un recente confronto sulla vicenda della Reggia di Caserta proponeva di affrontare i problemi della PA attraverso una maggiore partecipazione dei lavoratori, una valutazione del merito, della professionalità in un contesto di innovazione. Una ricetta per certi versi interessante ma, come cercherò di spiegare, di difficile realizzazione nel contesto attuale. “È possibile insegnare a un tacchino a salire in cima a un albero, però per quel lavoro sarebbe meglio assumere uno scoiattolo” ci ricorda spesso Giampaolo Montali. In ogni azienda, privata o pubblica, un manager deve sapersi misurare con le risorse umane che gli vengono affidate, anche perché i tacchini sono statisticamente più numerosi degli scoiattoli. Per non restare a Caserta, se prendiamo come esempio la nascente ANPAL (Agenzia per le politiche attive del lavoro) secondo il Senatore Ichino, oltre a evidenti problemi di costruzione e di finalizzazione delle sue attribuzioni e attività rischia di ritrovarsi con molti tacchini e pochi scoiattoli. Se così fosse, è evidente che non sarebbe certo un buon inizio. Secondo la sua valutazione mancherebbero le competenze necessarie a ricoprire quei ruoli nei potenziali candidati. Però il segreto del successo di ogni azienda sta proprio nel saper costruire una squadra in cui i “tacchini” possano essere motivati, allenati, sostenuti, per andare oltre i propri limiti e raggiungere risultati che nemmeno loro, in partenza, pensavano di essere in grado di ottenere. La riorganizzazione della PA è un passaggio obbligato sulla strada del cambiamento del Paese. Pensare di effettuarla senza considerare la quantità e la qualità delle risorse umane disponibili, la riqualificazione necessaria a ricoprire i nuovi incarichi e, infine, la disponibilità dei singoli a rimettersi in gioco a prescindere dall’età e dai problemi personali determinerà o meno il successo dell’operazione. Nei processi di riorganizzazione aziendale del settore privato è sempre stato evidente che non basta spostare le persone e adibirle, forzatamente o meno, a nuove attività. Occorre prepararle professionalmente ma anche lavorare sull’engagement e sulla motivazione. La maggior parte dei processi di merger and acquisition nel mondo hanno comportato enormi sprechi di risorse economiche proprio perché si sono sottovalutate le conseguenze della non gestione delle risorse umane. Nella PA italiana questo elemento si presenta ancora più complesso. E questo per una serie di motivi. Innanzitutto perché non c’è una pratica consolidata di gestione delle risorse umane né in termini di sviluppo individuale e di mobilità professionale tra settori né di valorizzazione dell’impegno e della professionalità. In secondo luogo perché le gerarchie presenti, indipendentemente dalla buona volontà dei singoli, non sembrano essere dotate di metodologie particolarmente innovative e coinvolgenti. Non esistono forme di leadership riconosciute ed esercitabili concretamente in grado di condividere, supportare e coadiuvare scelte e decisioni politiche e organizzative. L’adesione volontaria alla mobilità ritenuta dal sen. Ichino un elemento quasi censurabile, perché mette al centro il dipendente rispetto alle esigenze del cittadino, se in astratto è condivisibile, in concreto rischia di rappresentare uno dei pochi elementi da valutare positivamente. Lavorare sulla motivazione di una persona che ha scelto volontariamente un percorso è indubbiamente più produttivo che coinvolgere chi accetta o subisce una soluzione più o meno “spintaneamente”. Però il difetto principale della soluzione proposta della CISL di decentramento tout court della contrattazione nella PA è che, temo, non sia immediatamente praticabile nel contesto attuale. Come tutti i progetti di riorganizzazione l’operazione di riassegnazione delle risorse umane deve necessariamente comportare formazione e coinvolgimento del personale ma anche evidenti risparmi, efficienza ed efficacia delle nuove strutture create. Oggi nella PA c’è ancora una cultura nella dirigenza e del ruolo dei sindacati locali poco propensa alla responsabilità, alla decisione e alla individuazione del nuovo soggetto di riferimento che è il cittadino utente e non solo il dipendente pubblico. Questa cultura spingerebbe inevitabilmente a compromessi organizzativi locali difficilmente accettabili. Termini come efficienza, merito, trasparenza, rapidità si scontrano con abitudini, modalità applicative, presenza di un pluralismo di sigle sindacali, ricorsi e via discorrendo che determina l’assoluta necessità della definizione di regole chiare e condivise, tipiche di una situazione straordinaria, che incidano profondamente su situazioni personali e di gruppo all’interno di un percorso chiaro. I fatti di Caserta sono lì a dimostrarlo. Due sindacalisti locali non soddisfatti del comportamento del direttore decidono di scavalcarlo con una lettera chiedendo un intervento ad una istanza superiore. È un chiaro atto teso a delegittimare l’interlocutore tradizionale imbrigliandone i comportamenti. In quel caso, fortunatamente, non ha funzionato ma l’episodio certifica la difficoltà di decentrare alcunché senza trovarsi a dover fare i conti in un ginepraio di leggi, procedure e compromessi che continuerebbero a mettere al centro “solo” le esigenze del singolo dipendente pubblico e del rispetto di norme consolidate contro l’assoluta necessità di efficienza e di efficacia. Quindi occorre muoversi in altro modo individuando a monte lo spazio negoziale che può essere assegnato al livello locale. Altrimenti non accadrà nulla di buono. Incidere sulle rispettive “aree di confort” non è semplice. Pensare che lo possano fare dei sindacalisti locali della PA abituati spesso a tutt’altri comportamenti è velleitario. Machiavelli ci ricorda che “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Una riorganizzazione comporta necessariamente disagi personali, incomprensioni e ingiustizie. Il sindacato deve esercitare il suo ruolo di tutela cercando di attutire al massimo queste conseguenze con proposte e alternative praticabili ma alla politica spetta la responsabilità di decidere e alla dirigenza di realizzare concretamente quelle decisioni. Questo è il punto vero. A Caserta o altrove. Altrimenti non si combinerà nulla di buono per il Paese.
Se i sindacati si rassegnano alla irrilevanza
I segnali, purtroppo, ci sono tutti. Dalla lettera autogol dei sindacati della Reggia di Caserta, al tentativo della FIOM di rientrare in partita sorvolando sul fatto di essersi messa fuori gioco da sola nella vicenda FCA. Ma anche l’idea di presentare una piattaforma unitaria che, pur rappresentando un atto positivo in sé, per il suo valore simbolico, in mancanza di interlocutori interessati rischia di essere ricordato come un esercizio di stile fine a se stesso. Comunicare, come fosse un successo politico, l’incontro con la CONFAPI e la sua presunta disponibilità a proseguire il confronto di merito è un altro segno di grande debolezza. Così come l’irritazione di Gigi Petteni per il mancato coinvolgimento del sindacato sul decreto del Governo previsto per la prossima settimana in tema di detassazione dei premi di produttività. Da questi esempi sembra emergere da più parti una vera difficoltà del sindacato confederale a ridisegnarsi un ruolo propositivo e costruttivo in un contesto diverso dal passato. Dall’altra parte sia il ministro Poletti che il sottosegretario Nannicini in diverse occasioni hanno sottolineato la disponibilità del Governo a confrontarsi con le organizzazioni sindacali a fronte di proposte di merito in sintonia, ovviamente, con un percorso di rinnovamento delle relazioni industriali che sappia superare tutti i suoi limiti attuali. Nell’ultimo confronto tra Tommaso Nannicini, Marco Bentivogli della FIM e Marco Gay presidente dei giovani imprenditori di Confindustria il tema è emerso in tutta la sua portata. Non esiste alcuna volontà di emarginazione ma semmai esiste una indisponibilità a percorrere strade che non porterebbero da nessuna parte. Personalmente credo che il punto vero stia proprio qui. O le organizzazioni sindacali confederali unitariamente decidono di imboccare un percorso nuovo senza sommare le rispettive debolezza e senza nascondere i problemi sotto il tappeto o il rischio di auto condannarsi alla irrilevanza è molto concreto. L’esempio della FIOM è paradigmatico. Dura e pura, minaccia fuoco e fiamme ma non riesce a toccare palla. Sotto questo punto di vista il rinnovo del contratto dei metalmeccanici sarà un grande banco di prova. La tentazione in entrambe le delegazioni di utilizzare lo specchietto retrovisore è ancora forte e, ad alcuni di loro, suggerirà avvincenti scorciatoie, toni sopra le righe e metafore guerresche tipiche della tradizione classica. Ma quello che è successo in FCA e che rischia di succedere altrove è lì a dimostrare che solo dove esiste un sindacato che comprende la profondità del cambiamento in atto e lo accompagna nell’esclusivo interesse dei lavoratori c’è un futuro per la rappresentanza altrimenti c’è solo lo spazio per una sterile quanto miope difesa dell’esistente. Finché dura. Ma, come abbiamo visto, in questo contesto, è un atteggiamento che rappresenta solo l’altra faccia dell’irrilevanza.
Contratto metalmeccanici. È il tempo della riflessione.
Personalmente trovo un errore agevolare una deriva tradizionale nel rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. L’intervista di Rocco Palombella sembrerebbe andare in questa direzione. Infatti sostenere come ha fatto il dirigente sindacale che l’analisi proposta da Federmeccanica del contesto economico è sostanzialmente corretta ma questo non può avere conseguenze sul costo del rinnovo contrattuale mi sembra una forzatura. Comprendo benissimo l’esigenza di inviare messaggi chiari alla controparte e contemporaneamente di rassicurare i propri militanti sulla determinazione messa in campo ma questo non può comportare l’inevitabile effetto collaterale di spingere Federmeccanica sulla barricata opposta. Innanzitutto perché il Paese non credo abbia bisogno di barricate in questo momento. In secondo luogo perché il rinnovo dei vertici confindustriali spinge inevitabilmente alla radicalizzazione e quindi, chiunque abbia in testa una svolta più partecipativa dovrebbe perseguire con maggiore determinazione una strategia negoziale di valorizzazione continua degli elementi costruttivi evitando di evocare tra i militanti il ricordo del “bel tempo che fu” quando il conflitto poteva porsi l’obiettivo di modificare posizioni intransigenti o strumentali. Oggi non è più così. Ci sono comparti senza contratto da anni e questo non provoca nessuna reazione né solidaristica né da parte delle istituzioni. Oggi occorre avere delle solide buone ragioni per convincere e creare alleanze perché la posta in gioco è molto alta. Lo è per le persone, lo è per l’intera comunità nazionale, lo è ovviamente anche per i corpi intermedi. L’idea di sommare gli effetti economici dei due livelli di contrattazione non è perseguibile. Tra l’altro è il vero motivo sul quale la proposta unitaria confederale rischia di non fare nessun passo in avanti. Occorre al contrario trovare come renderli integrabili offrendo al primo un compito ma lasciando al secondo la possibilità di sperimentare concretamente forme di partecipazione all’andamento economico aziendale e investendo su reali incrementi di produttività. Non farlo adesso significa rimandare una vera riforma della contrattazione per almeno tutta la durata del contratto. È questo l’obiettivo? Io credo di no. Certo anche Federmeccanica deve fare dei passi avanti. Ha avuto la capacità di proporre innovazione vera sia nel merito che nel metodo. Ha messo sul tavolo una proposta stimolante, ha raccolto consensi in Confindustria e non solo. Ha, di fatto, proposto un orizzonte nuovo che contribuisce a ridisegnare un sistema vecchio e superato. Ma non può farlo da sola. Per non trasformare il tutto in una bandiera deve trovare interlocutori sindacali che “comprendono il nuovo e che guidano il cambiamento”. Non deve sprecare una occasione fidandosi solo della “legge del pendolo”. La forza oggi non serve se l’obiettivo è la condivisione. Occorre, al contrario, favorire la crescita di una cultura nuova. Tutti coloro che sono interessati a farlo devono fare un passo indietro avendo in testa questo obiettivo. E questa è una responsabilità di non poco conto.
Contratto metalmeccanici: insidie e opportunità di un negoziato non tradizionale
Le recenti dichiarazioni di Rocco Palombella della UILM sulla possibilità di ricorrere allo stato di agitazione per superare lo stallo del negoziato indurrebbero a pensare che la trattativa dei metalmeccanici sta scivolando verso una deriva di segno antico. Le stesse preoccupazioni, pur senza tirare affrettate conclusioni, le ha espresse Marco Bentivogli a nome della FIM. Del resto, l’anomalia di una vicenda che vede sul tavolo tre piattaforme diverse alle quali si è sovrapposta in corso d’opera una proposta sindacale unitaria di riforma della contrattazione che individua percorsi difficilmente praticabili, è evidente. Visto da fuori il nodo sembrerebbe sostanzialmente rappresentato dalla proposta economica di Federmeccanica che, a giudizio unanime, coprirebbe solo una fetta modesta dell’intera categoria. E questo non è accettabile per nessuno dei tre sindacati. Quindi lo stallo e le reazioni conseguenti sembrerebbero inevitabili. Se così fosse qualsiasi tentativo di innovazione condivisa di metodo e di contenuto tramonterebbe cedendo il passo alla tentazione di ritornare su terreni noti innescando reazioni e contrasti con il corollario di accuse e contro accuse. Ma questa situazione potrebbe offrire anche interessanti opportunità di cambiamento vero se le parti dimostrassero di essere veramente animate dalla volontà di gettare le basi di una svolta profonda. Innanzitutto è impensabile che, in una categoria che vede, secondo dati sindacali, il 70% dei lavoratori coperti dalla contrattazione aziendale si ipotizzi un aumento nazionale certo solo per il 5% dei lavoratori. Questo significa che per circa il 25% del totale non ci sarebbe nulla per tutta la durata contrattuale. Diverso sarebbe un meccanismo che anziché fotografare il passato prenda in considerazione l’arco di tempo relativo alla durata futura del CCNL ipotizzando eventualmente tranche di copertura laddove non si sviluppi la contrattazione aziendale. Questo meccanismo di spostamento al secondo livello otterrebbe, tra l’altro, l’obiettivo di iniziare a variabilizzare parte del salario legandolo a necessari recuperi di produttività e al coinvolgimento dei lavoratori su obiettivi aziendali certi e misurabili. Quindi renderebbe coerente il salario contrattato sia a livello nazionale che aziendale ad un percorso collaborativo già realizzato, come sembrerebbe, in altre punti del negoziato in corso. D’altra parte l’eventualità di “marciare divisi per colpire uniti” avendo sul tavolo due piattaforme sindacali mi sembra di difficile praticabilità. Così come quella di trovare nelle proposte confederali il bandolo della matassa perché questo troverebbe assolutamente indisponibile la controparte datoriale che non sembra aver alcuna intenzione di sommare i costi dei due livelli. D’altra parte, se i metalmeccanici vogliono realizzare un vero giro di boa del sistema contrattuale del nostro Paese, devono segnalare chiaramente la volontà di rilanciare un contesto collaborativo e costruttivo che sappia integrare (e non sommare) i livelli della contrattazione e i suoi contenuti lasciando alla contrattazione aziendale il compito di consolidare una svolta che farebbe da apripista a quelle categorie dove esiste praticamente solo il CCNL e che non sono ancora attrezzate per un sistema misto. Nella stesso tempo Federmeccanica deve dimostrare che la svolta collaborativa non è strumentale ma è veramente finalizzata a cambiare il sistema delle relazioni sindacali. Su questo credo si giochi molto della credibilità delle parti in causa e della volontà di andare avanti. Per queste ragioni preferisco puntare su di un esito diverso e costruttivo di questa fase di evidente stallo e non mi unisco al coro di chi dà già per persa la partita.
Inquadramenti contrattuali: sarebbe ora di metterci mano.
L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti assegnano livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche. Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina il suo status aziendale e il suo trattamento economico-normativo. I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali e anche livelli intermedi. Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, non la qualità della prestazione. Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivo. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, delle capacità e delle competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando l’aspetto individuale. Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati, linguaggi nuovi e inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire il potenziale, il talento, il merito e il mercato, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile. E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente. In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e della relativa qualità della prestazione. Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la difficile impiegabilità sul mercato del lavoro. Collegato a questo diventa sempre più centrale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, prima o poi, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo. L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il tema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo si è rilevato possibile, concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, costituiscono solo la punta dell’iceberg. Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, in negativo, sul singolo lavoratore. Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare il reddito minimo da ciò che può modificarsi in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sull’andamento economico e far crescere una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi. Senza però lasciare il problema solo sulle spalle della singola impresa. Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.
Una rinnovata vitalità dei contratti nazionali?
Le indicazioni che stanno emergendo in questa stagione di rinnovi dei CCNL nei diversi settori sono sostanzialmente due. Nessuno, né tra i sindacati né tra le organizzazioni datoriali, auspica la messa in soffitta del contratto nazionale e, le parti, sono assolutamente in grado di deciderne autonomamente i contenuti, i tempi, le modalità e gli argomenti da assegnare ai diversi livelli. Questa è certamente una buona notizia ma soprattutto un sintomo di vitalità in controtendenza con le campane a morto sullo strumento in sé che, troppo frettolosamente, qualcuno voleva suonare. Ovviamente nessuna delle parti in causa auspica lo status quo ma tra questo e “gettare il bambino con l’acqua sporca”, ce ne corre. Il differente approccio utilizzato nei diversi settori è la dimostrazione del “pragmatismo bilaterale” che si sta affermando nelle nostre relazioni industriali. Fuori dai riflettori dei media e a tutti i livelli, nel privato, si siglano accordi di reciproca soddisfazione. La crisi e poi il contesto nazionale e internazionale hanno determinato un clima di sano realismo che ha spinto le parti a convergere su richieste o concessioni assolutamente compatibili. Per quanto riguarda la parte sindacale restano fuori pochi casi centrali e locali (seppure socialmente rilevanti) causati da residui di ideologismi o vecchi rancori identitari e organizzativi. Sul fronte datoriale, restano aperte le situazioni dove le rappresentanze hanno preferito illudere i rispettivi rappresentati della possibilità di ottenere risultati mirabolanti costringendo i sindacati a “ingoiare” proposte irricevibili. Su questo, l’imperizia, un inutile strumentalità fuori luogo e la sottovalutazione degli interlocutori hanno infilato interi comparti in situazioni da cui non sarà facile uscirne. Ma non stiamo parlando di tendenza, stiamo parlando di code. Terziario, chimici, alimentaristi hanno tracciato a loro modo una strada preparando scenari futuri. Un discorso a parte meritano i metalmeccanici perché, secondo me, sono impegnati in un vero contratto di svolta. L’importanza di questo confronto è data dai temi posti sul tavolo da Federmeccanica e dalla consapevolezza dell’importanza degli stessi. È un approccio di segno profondamente nuovo sia nelle reazioni sindacali, sempre ragionate e motivate sia nella mancanza di strumentalità della controparte datoriale. Sono i temi, la qualità e la quantità dei contenuti e il modello di relazioni che si vuole affermare da qui in poi al centro del negoziato. Staremo a vedere ma credo che questo possa spingere tutti gli altri comparti economici e le loro rappresentanze a cercare altre strade o a ripercorrere in modo nuovo alcune intuizioni del passato a cominciare dal sistema bilaterale e del welfare contrattuale.
Industry 4.0: un’occasione per discutere di nuove relazioni industriali.
Un recente studio curato dalla Fondazione Symbola e CNA dimostra che l’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di aziende dove, negli ultimi tre anni, sono state introdotte innovazioni di processo e di prodotto. Di queste, più dell’80% ha meno di 50 dipendenti. Se aggiungiamo che il 95% delle nostre imprese ha meno di 50 dipendenti e meno di dieci milioni di fatturato ci rendiamo conto che il cambio di paradigma imposto da industry 4.0 è decisamente alla portata di una platea ben più ampia della sola grande impresa manifatturiera. Nell’ultimo numero della rivista Sistemi e Impresa è stata pubblicata una survey molto interessante del laboratorio Research & innovation for Smart Enterprises (RISE) dell’Università di Brescia che indaga se e come nel nostro Paese è in corso la rivoluzione digitale in ambito manifatturiero. Settanta imprese, segmentate per dimensione, sono state valutate sotto diversi aspetti evidenziando risultati significativi. È da questa realtà in continua evoluzione che occorre partire per riflettere sull’importanza e sull’impatto di industry 4.0 sulle imprese, sulla loro organizzazione e sulla gestione delle risorse umane. Ma è anche una grande occasione di ridefinizione di una strategia sul lavoro che cambia che non può non coinvolgere anche il sistema stesso delle relazioni sindacali pena una loro definitiva marginalizzazione. Non cambia solo il luogo di lavoro, il modo stesso di lavorare o il contributo che viene richiesto al singolo lavoratore ma industry 4.0 rimette inevitabilmente in discussione tutto un complesso sistema di regole e relazioni consolidate che, avendo i suoi riferimenti passati nel fordismo, hanno sempre determinato l’estendibilità collettiva e quasi automatica di diritti, retribuzioni e inquadramenti e che, nei contratti nazionali, hanno sempre trovato, negli anni passati, una sintesi condivisa. Il vero cambiamento non sta esclusivamente nella produzione materiale: le nuove capacità messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica si inseriscono in funzioni come le decisioni strategiche o la progettazione e in settori come il terziario, l’artigianato o il consumo finale che ne erano rimasti lontani. Sono dunque le organizzazioni che devono sempre più imparare a “pensare” in modo differente. E le organizzazioni sono composte da persone a cui viene richiesto di muoversi in modo diverso dal passato. L’agire e l’interagire tra imprenditori, manager e collaboratori diventerà sempre più strategico quanto la consapevolezza che, nella filiera, cambierà sempre di più il rapporto tra produttori, servizi, distributori e consumatori finali. Con il fordismo era, in fondo, tutto più semplice. Si trattava di fotografare e categorizzare gli “esecutori” e il contratto nazionale serviva bene allo scopo. Industry 4.0 impone, al contrario, capacità di auto-organizzazione e questo a tutti i livelli della gerarchia. Serve quindi sviluppare capacità che appartengono anche al lavoro autonomo e imprenditoriale. Saper prendere decisioni, assumersene i rischi relativi, superare vecchie logiche gerarchiche e funzionali significa investire in nuove competenze. Competenze e capacità da acquisire che abbisognano la “persona” al centro, la formazione necessaria, lo sviluppo professionale, il luogo, il tempo di lavoro e l’inevitabile coinvolgimento sui risultati e sull’andamento aziendale. Al contrario il nostro sistema contrattuale si è retto, per oltre cinquant’anni, su quattro pilastri fondamentali: l’estraneità assoluta del lavoratore dall’andamento aziendale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato come modalità prevalente di accesso, l’inquadramento professionale inteso come scala percorribile solo in salita e un complesso di diritti e doveri (identificanti la totale subalternità del lavoratore) come sistema di valori alla base delle regole del gioco. Leggi e interpretazioni della Magistratura hanno, nel tempo, convalidato e irrigidito questo schema. Per contro la stessa cultura alla base delle principali organizzazioni aziendali nei settori industriali ma anche in molte aziende della grande distribuzione rispondevano a quella logica e quindi quei pilastri ne hanno accompagnato l’evoluzione incanalando il tutto in una liturgia sostanzialmente condivisa. La crisi e la globalizzazione hanno via via inceppato questo meccanismo restituendo, nel tempo, una “dignità” ai percorsi contrattuali che in altri comparti si erano nel frattempo sviluppati riportandoli in primo piano (vedi il terziario nelle ultime formulazioni) e promuovendo anche innovazioni legislative (vedi legge Biagi) con lo scopo sia di influenzare i diversi contratti nazionali che di mettere a disposizione delle imprese strumenti più efficaci. Infine lo strappo di Marchionne fino ad arrivare all’ultima proposta di Federmeccanica. Oggi siamo fermi qui. I pilastri (che andrebbero profondamente rivisitati) restano, tutto sommato, ancora inalterati e la discussione, anziché avvenire sui contenuti del lavoro, si limita a parlare dei livelli, dei luoghi dove il dialogo dovrebbe o potrebbe strutturarsi. Ma senza una profonda rivisitazione dei contenuti è difficile costruire nuove modalità di approccio anche se il confronto fosse portato a livello aziendale. Per questo occorrerebbe che le parti sociali si interroghino sulla “direzione di marcia”. È fondamentale che le imprese abbiano voglia e convenienza ad investire sui propri dipendenti e che questi abbiamo convenienza a investire sulla propria azienda ma anche su se stessi e sul proprio sviluppo professionale e personale. Ma se non c’è una prospettiva condivisa, se non si rimettono al centro del confronto produttività delle imprese e redditi da lavoro, formazione e politiche attive, collaborazione e condivisione dei risultati nell’impresa, non si va da nessuna parte. Poi, insieme, si vedrà cosa ha senso mantenere a livello nazionale e cosa deve essere decentrato. Un vecchio proverbio tunisino afferma:”la differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo”. È dalla centralità della persona che occorre partire. Oggi più di ieri. Ed è questa la vera sfida se crediamo in un vero cambiamento.
Un “NO”, tutto sommato, scontato..
La scelta di presentare una proposta sindacale alla vigilia del “semestre bianco” di Confindustria e con la trattativa dei metalmeccanici che si stava aprendo su basi ben diverse, lasciava intendere che il significato politico e il valore dell’iniziativa unitaria fossero ritenuti, dagli stessi proponenti, più importante dei contenuti della proposta stessa. Il “no” di Confindustria ad accettare quei contenuti come base di discussione era tutto sommato scontato. Così come è prevedibile che a breve seguirà il “no” di Confcommercio che, da poco, ha rinnovato il più importante contratto nazionale del Paese nel quale sono state individuate soluzioni utili alle imprese e ai lavoratori con gli stessi sindacati che oggi sostengono una piattaforma la cui impostazione, di fatto, rischia di essere percepita, da parte datoriale, come un ritorno al passato. Dall’altro lato della “barricata” l’endorsement alla piattaforma della FIOM CGIL e le perplessità di Bentivogli della FIM CISL danno il segno di quanto è complesso il contesto è di come sarà difficile muoversi. Degli “attori” principali in campo mi sembra che solo Gigi Petteni, segretario confederale della Cisl, ha cercato di gettare il cuore oltre l’ostacolo individuando il confronto come un luogo dove innanzitutto condividere un “senso di marcia”, una strategia di riferimento prima di affrontare i contenuti. È chiaro a tutti che il contesto porta inevitabilmente a riflettere sui modelli di collaborazione e di condivisione tra capitale e lavoro e quindi tra manager, imprese e lavoratori. Il punto è se farlo “tra” parti sociali attraverso un nuovo modello di relazioni industriali condiviso o “nonostante” la presenza delle parti sociali. In altri termini la domanda di fondo è se prevarrà un sistema dove i corpi intermedi si impegnano a giocare un nuovo ruolo o, di fatto, accettino di essere condannati alla irrilevanza scavalcati da forme di “collaborazione costruttiva” definite direttamente nelle aziende. Io resto convinto che, fatto salvo il diritto delle imprese e delle loro rappresentanze di tenere la “barra dritta” sui contenuti, puntare alla marginalizzazione del sindacato in sé, sia un errore. Un errore destinato a coinvolgere, nel tempo, anche le stesse organizzazioni datoriali. In gioco, credo ci sia, un modello di società intesa come una comunità in cammino dove dovrebbero esistere pesi e contrappesi, interessi deboli e forti che si ricompongano nel confronto e le contraddizioni del contesto nazionale e internazionale vengano ammortizzate da una rinnovata coesione sociale e politica. Spingere i sindacati confederali su una posizione esclusivamente difensiva e inconcludente è relativamente facile. Sfidarli su un altro terreno lo sarebbe molto meno. Il mancato rinnovo di molti contratti è lì a dimostrare l’assoluta debolezza dei sindacati nel rapporto con i lavoratori e l’incapacità delle loro rispettive controparti di trovare soluzioni condivise. Non credo però sia una buona strategia attendere soluzioni da terzi o proposte che non arriveranno certo da sole….
Il poco auspicabile “pessimismo della ragione”.
La foto proposta ieri sul Corriere si commenta da sola. Una delegazione “monstre” nel solco della tradizione militante dei metalmeccanici seduta e in attesa di un improbabile epilogo. Il rito è in pieno svolgimento. La vera novità è che, purtroppo, ci sono tre piattaforme (due sindacali e una datoriale) sul tavolo. E questo non fa presagire nulla di buono sulle modalità, sui tempi di quel negoziato e sulla possibilità che si concluda unitariamente. E questo mentre gli alimentaristi sono al palo e numerosi contratti bloccati. Le reazioni alla piattaforma di Cgil, Cisl e UIL sono state, tutto sommato, comprensibili. La proposta unitaria è probabilmente destinata a non fare molta strada così com’è. Definendola “di vecchia impostazione” o “irricevibile” sia Confcommercio che Confindustria hanno segnalato una disponibilità al confronto ma una indisponibilità di merito che complica ulteriormente il quadro di riferimento. Sull’altro versante, il Governo, sembra solo voler “scaldare i muscoli” a bordo campo minacciando di entrare in gioco. Evitare l’intervento del Governo sembrerebbe essere l’unico punto su cui le parti sociali convergono, almeno per ora. E tutto questo sembrerebbe comporre un quadro non esaltante e destinato addirittura a rendere improduttivo il confronto, quindi sostanzialmente inutile. La stessa pretesa del sindacato confederale di proporre un modello di difficile accettazione dal mondo delle imprese sembrerebbe confermarne il destino. È questa dunque la fotografia della situazione? Il pessimismo della ragione spinge molti a queste valutazioni. Sembra che nessuno senta, in realtà, il bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali. E chi lo sente, non è in grado di imporre il passo necessario per realizzare quella parte di contenuti innovativi che, in parte, sono comunque presenti nella piattaforma sindacale. Senza una intesa, però, non si va da nessuna parte. Questo deve essere chiaro a tutti. Personalmente non immagino un accordo confederale dettagliato che valga per tutti. Penso, però, che un accordo quadro condiviso tra la parti sociali, sulla qualità della direzione di marcia, sia utile per il Paese. Lasciare le cose come stanno, cioè ai semplici rapporti di forza espressi dai rispettivi soggetti sociali in campo o alla buona volontà dei singoli, è un errore. Così come lo è stato in questi decenni. Questa impostazione ha lasciato interi settori scoperti e privi di diritti e di regole, ha consentito soprusi, ha favorito situazioni di dumping tra imprese, ha creato vincoli esagerati e situazioni dannose per molte imprese. I sistemi di “relazioni industriali”, costruiti intorno alla contrattazione, non hanno mai compreso fino in fondo la necessità e la difficoltà che comporta gestire “persone” in un contesto che cambia. Non ne hanno mai assecondato le aspirazioni, le attitudini, i desideri. Hanno pensato sufficiente circoscrivere il perimetro di riferimento tra “diritti e doveri”. Nel taylorismo o con il lavoro vincolato di massa questo poteva avere un senso. Oggi non più. In questo modo si è faticato a comprendere e a seguire l’evoluzione delle politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane delle imprese restando spesso ancorati ad una cultura della difesa di interessi esclusivamente economici e normativi che, una volta neutralizzati, hanno, di fatto, marginalizzato il sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende grandi e piccole. Lo hanno reso estraneo e incomprensibile, non solo ai giovani ma anche a tutti coloro che nel lavoro, nella crescita professionale e nella condivisione delle strategie del management della propria impresa ci hanno investito e si sono impegnati. Ma hanno marginalizzato anche chi di relazioni industriali si occupa nelle imprese e per le imprese, costretti a muoversi tra “diritti acquisiti”, norme e ricorsi alla magistratura in perfetta estraneità e lontananza dalle nuove culture aziendali. Quello che abbiamo di fronte è un contesto interconnesso e molto più complicato rispetto al passato che inserisce le singole aziende in filiere globali. Solo una rinnovata collaborazione tra imprenditori, manager e lavoratori può consentire di costruire un nuovo sistema di relazioni moderno, efficace e di reciproco interesse. E questo interesse lega la qualità, la quantità del lavoro, il suo riconoscimento, lo scambio realizzabile in termini di condivisione di rischi e di opportunità, crescita personale, welfare e integrazione della singola impresa nel territorio che la ospita. Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta di assecondare questa evoluzione o di rallentarla. Che lo si voglia o no, nessuno la potrà impedire. Di Vico ha ragione quando sostiene che: “…non è la rappresentanza in sé ad essere freno al cambiamento ma la sua burocratizzazione, il prevalere degli interessi dei suoi dirigenti sulle rispettive basi sociali”. Da qui il mio “ottimismo della volontà” perché il futuro dei corpi intermedi si gioca proprio su questo.