La contrattazione aziendale, è bene tenerlo presente, coinvolge una parte assolutamente minoritaria delle aziende italiane. Da oltre vent’anni, dove si realizza, è spesso “concessiva” da parte sindacale per le crisi grandi o piccole che si sono succedute nelle singole imprese o, addirittura, “restitutiva” nel senso che alcune cosiddette “conquiste” ottenute in momenti di forza dai sindacati sono state via via cancellate, congelate o limitate ai soli lavoratori più anziani. Quando comprende elementi economici legati ad obiettivi aziendali questi sono, nella quasi totalità dei casi, decisi dalle imprese. Nei casi concreti dove si può parlare di vera e propria “contrattazione” abbiamo, o una tradizione negoziale positiva in particolari imprese, o una situazione sindacale dove i rapporti di forza in campo sono ancora un elemento in grado di influire sul contesto. A fronte di questa realtà, mi sono domandato perché molti, e da versanti opposti, invocano il ritorno alla contrattazione aziendale come la “soluzione” senza porsi il problema di una necessaria evoluzione condivisa del contesto sociale e sindacale del nostro Paese. Il modello oggi in crisi, ha sempre fatto perno su un sistema “circolare” di natura sostanzialmente conflittuale. Il contratto nazionale di categoria ne ha costituito, per anni, l’elemento portante. La contrattazione aziendale integrava specificità e salario e innovava materie che poi avrebbero costituito elementi di proposta da estendere a tutti nella successiva contrattazione nazionale. Le crisi che si sono via via succedute hanno inevitabilmente modificato i rapporti di forza consentendo alle imprese, prima di depotenziare questo meccanismo, poi di volgerlo a proprio favore e, infine, di neutralizzarlo definitivamente. Nella proposta sindacale c’è un tentativo legittimo, ma di difficile accettazione, di ritorno a formule che, di fatto, sommano benefici tra i diversi livelli. E questo costituirà inevitabilmente un primo elemento di scontro. Perché va bene l’apprezzamento per lo sforzo unitario che sicuramente connota la proposta ma occorre considerare anche che, il conto di questo sforzo, non può essere semplicemente scaricato sulle imprese prima a livello nazionale e poi in azienda. Da questo punto di vista il negoziato sarà più importante, come sempre, delle intenzioni o dei desideri contenuti nella piattaforma. Così come lo scenario che un accordo vero su un tema così delicato può aprire in termini evolutivi del sistema. Alcuni osservatori sottolineano che è stata solo la forte preoccupazione di un intervento a gamba tesa del Governo a spingere i sindacati all’unità. Personalmente non ci credo. I segnali della necessità una ripresa del percorso unitario c’erano tutti. L’amico Massagli, un po’ malignamente, la definisce, però, una unità costruita “contro” e non “per”. Io penso, al contrario che, la ripresa del confronto, fosse comunque inevitabile. Così come la sua forte caratterizzazione difensiva e, in parte, tradizionale. Soprattutto dopo la “sortita” di Federmeccanica e la mancata chiusura di molti contratti nazionali. I risultati delle divisioni identitarie di questi anni sono sotto gli occhi di tutti e nessuna organizzazione, in termini complessivi ci ha guadagnato nulla. La ragione è che nessuno dei tre sindacati confederali è riuscito a proporre una strategia in grado di produrre benefici misurabili oltre i propri confini tradizionali. Il vecchio schema sindacale:”obiettivo-lotta-risultato” non funziona più e quindi il punto vero non è rappresentato da una piattaforma unitaria “contro” o “per” ma nella definizione di una strategia di lungo periodo. E questo comporta tempo che, sia chiaro, è una risorsa scarsa.
Se la riforma della contrattazione sarà, o meno, un primo snodo verso la costruzione di relazioni industriali innovative, collaborative e propositive allora il confronto avrà comunque avuto un senso importante. Se nessuno si fida di nessuno è difficile immaginare un sistema con oltre quattro milioni di imprese che, improvvisamente, si converte ad un “nuovo” modello a cui sono state storicamente estranee (o spesso contrarie) limitandosi a riconoscere quanto definito dal proprio CCNL di riferimento. Nelle imprese italiane vige un paradosso. Nelle piccole aziende (che sono la stragrande maggioranza) l’imprenditore generalmente non vuole avere a che fare con i sindacati preferendo un rapporto diretto con i suoi collaboratori. Semmai per la gestione di alcune problematiche tende ad affidarsi agli strumenti messi a disposizione dalla bilateralità. Nelle grandi imprese industriali i sindacalisti sono, al contrario, spesso presenti e coinvolti nelle strategie aziendali come o più degli stessi lavoratori dipendenti. Quindi esiste un problema di fondo che non è facilmente superabile. Nessuno, Governo compreso, può imporre nulla a nessuno. Il sistema attuale ha retto per oltre cinquant’anni perché i ruoli sono sempre stati chiari e condivisi sostanzialmente da tutti. Sfasciarlo è pericoloso perché aprirebbe ad una situazione di dumping tra imprese difficilmente governabile in un Paese come il nostro. Il mondo però è cambiato. La competizione, la tecnologia e la globalizzazione impongono a ciascun Paese organizzazioni e sistemi più coesi, moderni e aperti dove ciascuna parte in causa condivida rischi e opportunità. La partita sulla contrattazione è lo strumento ideale per cominciare a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali dei prossimi anni. Per questo avere sul tavolo una proposta unitaria (condivisibile o meno) del sindacato è comunque importante. Certo non è risolutivo perché i problemi da affrontare restano ancora molti. Ma i negoziati servono proprio a questo. Ma questo, credo sia chiaro a tutti.
Ma è davvero solo colpa dei sindacati?
È abbastanza ovvio ma anche singolare che la pubblicazione della proposta unitaria di Cgil, Cisl e Uil di riforma della contrattazione abbia suscitato reazioni essenzialmente negative. Pochi hanno colto la volontà di chiudere un’epoca di divisioni e l’intenzione comune di avviare una nuova stagione. È come se fossimo in presenza di un forte pregiudizio a prescindere su tutto ciò che proviene da quel mondo. Il paradosso è che molti tra coloro che chiedono, a parole, al sindacato di cambiare lo hanno già riposto in soffitta tra i ricordi del ‘900 e quindi non sono disposti a rimettere in discussione le proprie consolidate convinzioni. Io penso sia un errore grave perché il sindacato, pur ancora diviso, in crisi di strategia e di credibilità, provato da molte battaglie è in campo con i suoi milioni di iscritti, il suo radicamento nel mondo del lavoro e i suoi legami nei territori. Considerarlo sconfitto o marginale nella costruzione del futuro del nostro Paese in nome della disintermediazione non porterà a nulla di buono. Un altro aspetto curioso è che la stessa severità utilizzata da molti per giudicare la proposta sindacale non esiste sul fronte opposto. Non c’è alcuna proposta datoriale unitaria. Confcommercio ha la sua strategia confermata nella recente firma del CCNL del terziario che fa perno su flessibilità, derogabilità del CCNL a livello locale, rafforzamento della bilateralità e del welfare contrattuale. Non a caso il tanto citato accordo di Treviso ne è una dimostrazione evidente. Nello stesso settore Federdistribuzione si accontenterebbe, al contrario, di una semplice, quanto improbabile, “resa” dei sindacati. Nell’industria Federmeccanica ha una proposta compiuta, pur di difficile attuazione ma Federchimica ha un’altra impostazione vista la recente firma del CCNL di comparto. Potrei continuare con molti altri esempi. Confindustria sta per sedersi ad un tavolo dove, nella migliore delle ipotesi, si limiterà a mettere in discussione la proposta di Cgil,Cisl e UIL sperando che la minaccia di un possibile intervento governativo costringa a miti consigli i negoziatori sindacali. Direi un modo curioso di aprire una fase nuova. Ma questo è probabilmente dato dal fatto che tutti vorrebbero cambiare un sistema che ci ha accompagnato per oltre 50 anni ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di indicare la vera direzione di marcia. Se il Paese ha bisogno di condivisione e coinvolgimento si sceglie una strada altrimenti se ne sceglie una opposta. Oggi tutto questo non c’è ancora. Di Vico ha ragione: non è più tempo di riti e liturgie. Occorre muoversi. Per le parti sociali è fondamentale il riconoscimento e il rispetto reciproco. Se qualcuno, nei sindacati o nelle organizzazioni datoriali, pensa che una parte possa decidere nell’interesse di tutti, sbaglia perché è interesse di tutti crescere, confrontarsi e trovare nuovi equilibri positivi. Le sfide che abbiamo di fronte si vincono con un sistema di relazioni industriali moderne ma soprattutto condivise. Questo è il compito che hanno di fronte i negoziatori. I giudizi lasciamoli alla fine.
Per un “capitalismo dei partecipanti”
Severino Salvemini sul Corriere ha rilanciato un dibattito importante. Il suo assunto di partenza è chiarissimo:” ..bisogna dare vita ad una nuova dinamica di governo aziendale dove i diversi portatori di interesse possano far sentire di più la propria voce”. E così il tema che fa riferimento alla partecipazione o, in altri termini, alla collaborazione, al coinvolgimento dei collaboratori, ritorna in primo piano. Il “campo da gioco” è l’impresa di domani. Il clima interno, i processi di condivisione del rischio e delle opportunità dell’impresa, i soggetti da coinvolgere, le modalità e i limiti del coinvolgimento segneranno la qualità del lavoro e del nuovo ruolo che le rappresentanze sindacali potranno avere dentro e fuori le aziende. Per questo occorre saper guardare avanti. Oggi più che mai. La proposta di Cgil, Cisl e Uil, la stessa proposta di Federmeccanica, pur muovendo da presupposti ben diversi, secondo me, potrebbero convergere in quella direzione. E questo sarebbe indubbiamente il vero fatto “nuovo”. Anche un’eventuale legge sulla rappresentanza dovrebbe puntare a favorire questa direzione di marcia. C’è un grande bisogno di condivisione nel nostro Paese. L’esperienza della crisi, che sembra non finire mai, ha fatto implodere i sistemi di relazione ereditati dal passato: in un capitalismo iper-frazionato come il nostro, tutto si è sfilacciato anche attraverso il (poco responsabile) gioco del cerino.
Se ciascuno cerca di passare agli altri il cerino acceso che ha in mano, sperando che a scottarsi siano loro, è facile capire come le relazioni tra committenti e fornitori, banche e imprese, lavoratori e imprenditori, territori e sistemi produttivi in essi insediati si siano logorate e non reggano ormai più alla pressione degli eventi.
Molti anelli della catena produttiva stanno saltando o sono sempre più paralizzati e privi di capacità di risposta. E questo mette in seria di difficoltà anche le strutture della rappresentanza in generale, a cui oggi si pone una opportunità fondamentale quella di contribuire ad arrestare la disgregazione delle filiere produttive, delle relazioni sociali e dei sistemi territoriali, usando la loro capacità di generare senso e legami per invertire l’andamento delle cose, proponendo una logica di collaborazione tra le parti, sia nell’affrontare la crisi giorno per giorno, ma anche nel costruire un futuro comune che possa riattivare il meccanismo dello sviluppo, oggi gravemente inceppato.
Inoltre, occorre considerare che gli strumenti da mettere in campo per affrontare la pressione competitiva dei mercati sono anche altri, e riguardano le parti sociali direttamente coinvolte: bisogna condividere i rischi, le perdite ma anche le opportunità, trovando un criterio ragionevole per ridimensionare certe attività distribuendo i sacrifici tra le molte parti co-interessate alla sopravvivenza di una certa impresa o di una certa fascia di attività.
E’ un processo difficile, in cui la contrattazione sociale può forse fornire la cornice normativa e logica: ma tocca alle singole persone, alle singole imprese, alle singole banche, ai singoli territori dire in che modo possono contribuire alla sopravvivenza ed eventualmente – in prospettiva – al rilancio di attività che non vogliono vedere chiudere o fuggire altrove. La contrattazione aziendale ha già in molti casi trovato formule ragionevoli di distribuzione dei sacrifici che le parti in causa sono disposte ad assumere, in uno spirito di collaborazione mutualistica, di reciprocità, in vista di un interesse comune per la sopravvivenza. Bisogna fare tesoro di queste esperienze anche se il loro contenuto è spesso una rinuncia, una riduzione delle aspettative e delle pretese contrattuali, un’accettazione di sacrifici che aiutano il sistema di cui si fa parte a non soccombere, di fronte alle gravi difficoltà. Ma certo, tutto questo non basta. La collaborazione solidale (redistribuzione politica e contrattuale del reddito, in nome dell’equità) e quella mutualistica (modificazione delle condizioni di lavoro e di reddito di ciascuno, in nome di un interesse comune alla sopravvivenza del sistema produttivo) servono solo ad evitare danni più gravi.
Questo nuovo modello di collaborazione necessaria da costruire insieme nasce dal fatto che, per mantenere i nostri livelli di occupazione e di reddito nel lungo termine, dobbiamo trovare il modo di aumentare di molto il valore co-prodotto dalle nostre imprese e dalle nostre filiere, in modo da compensare gli svantaggi di costo di cui soffriamo nei confronti dei concorrenti emergenti, e delle multinazionali che li utilizzano come parti delle loro filiere globali.
Questo aumento della produttività (valore prodotto per ora lavorata e per euro investito) richiede interventi correttivi importanti, rispetto alle tendenze spontanee del sistema produttivo esistente e dei modelli di business che esso ha espresso sin qui.
È necessario quindi sviluppare una vera collaborazione tra chi sviluppa progetti, investe risorse, assume rischi in vista di un traguardo comune, che riguarda – prima del singolo imprenditore-innovatore – l’impresa (con i suoi stakeholders, prima di tutto i suoi lavoratori), la filiera (con i suoi fornitori, committenti, distributori e consumatori), il territorio (con le istituzioni locali), l’economia della società nel suo insieme (espressa dalle differenti parti sociali). Ed è in questo contesto che l’accordo tra le parti sociali diventa un tassello auspicabile e fondamentale.
Un negoziato difficile ma non impossibile
Le carte sono finalmente sul tavolo. Il negoziato sul nuovo modello contrattuale parte in salita, come è ovvio, ma può iniziare. Ai commentatori, in questi giorni, non resta che riportare la naturale esibizione muscolare dei contendenti. Qualsiasi negoziato comincia così. Entrambe le parti in causa ribadiscono le proprie posizioni di partenza. Sarebbe persino ridicolo il contrario. La predisposizione delle cosiddette “piattaforme” rende necessario un grande lavorio di mediazione. Non solo per quelle sindacali. In questo caso, tra l’altro, non c’è nemmeno sul tavolo una proposta precisa di Confindustria. I chimici hanno firmato il loro contratto nazionale e gli alimentaristi stanno trattando su quelle basi. E non credo si offenda nessuno che quei rinnovi vengano considerati nel solco della tradizione con qualche modesta innovazione qualitativa. Federmeccanica, sulla spinta di FCA e delle esigenze di rinnovamento di un settore dominato dalla conservazione in tema di relazioni sindacali, ha sparigliato le carte con una sua proposta. Quindi non c’è una visione comune nelle categorie industriali sul versante imprenditoriale. Non c’è nemmeno una posizione comune tra Confindustria e gli altri settori che vantano, a buon diritto, la loro autonomia sul tema. Il Governo osserverà, da una giusta distanza, l’evolversi del negoziato. Ed è meglio così. Nessuno vuole lasciare le cose come sono oggi. E questo è già un ottimo punto di partenza. I confederali hanno faticato a trovare un punto di incontro condiviso e quindi è impensabile che lo abbandonino prima ancora di aprire il negoziato. Quindi dobbiamo aspettarci un periodo abbastanza lungo fatto di scambi di accuse, di trincee scavate, da una parte e dall’altra e prese di posizioni ufficiali sui media con conseguente banalizzazione degli argomenti altrui. Qualche politico ha già cominciato definendo “ferro vecchio” la proposta sindacale ed esaltando la proposta di Federmeccanica. Credo che, nelle prossime ore, ci dovremo aspettare analoghi comportamenti da qualche esperto di provocazioni della sinistra politica e sindacale. Niente di nuovo. Anche questo fa parte dei riti e delle liturgie dei negoziati importanti. In entrambi i campi ci sono però esperti negoziatori che sanno dare un giusto peso a queste sortite. Le posizioni sono distanti ma non incolmabili. C’è un tema legato alla quantità di risorse da mettere sul tavolo, con quali tempi e come ripartirle se i tavoli dovessero aumentare. Un altro legato alle modalità di erogazione da utilizzare per consentire al lavoratore di guadagnare il massimo possibile e all’azienda di spendere il minimo possibile. Il tutto condito da forme di partecipazione, più o meno convinta e convincente e di sostegno al welfare aziendale. Il rischio che la montagna partorisca il classico topolino è molto alto. Il 2016 è un anno a “difficoltà progressive” per il Governo. Aprire un altro fronte con la sinistra politica e sociale non serve a nessuno, soprattutto al premier. Quindi fare un accordo serve a tutti. Al sindacato che potrebbe uscire dall’angolo nel quale è finito dove i contratti nazionali o aziendali rischiano di non rinnovarsi mai. Alle imprese perché avere certezze sui costi e una migliore gestione del clima interno possono accompagnare meglio la ripresa. E, infine al Governo, che non si troverebbe a dover pagare il conto come è avvenuto molte volte in passato. Tutto bene, quindi? No. Siamo solo al via. Purtroppo nel nostro Paese non sempre ciò che sarebbe giusto e utile si realizza facilmente. Occorre pazienza e impegno. E questo non credo manchi ai negoziatori.
La proposta unitaria sulla contrattazione: un passo avanti.
Misurare la distanza tra la proposta sulla contrattazione di Cgil-Cisl-Uil che verrà ufficialmente presentata giovedì e quella di Federmeccanica serve a poco così come pensare che, in un Paese dove la contrattazione aziendale è un fenomeno assolutamente marginale, il Sindacato potesse abbandonare con eccessiva superficialità le sponde sicure dei contratti nazionali o di vecchi o nuovi automatismi più o meno efficaci. Tre elementi importanti di sfondo caratterizzano la proposta e, per questo, sarebbe utile, oggi, concentrarsi su di essi. Il primo. Un documento unitario sulla stessa ragion d’essere di un sindacato, la contrattazione, non è cosa da poco. Chiude, di fatto, una parentesi durata più di un ventennio. La stagione degli accordi separati, dei contratti non firmati da questa o quella sigla di categoria non hanno pagato. Ed oggi questo è chiaro a tutti. Le divisioni hanno contribuito a indebolire la capacità di iniziativa di tutto il sindacato confederale. E che la CGIL scelga decisamente la strada di un accordo con CISL e UIL in aperto contrasto con la FIOM dimostra la forza e la credibilità nelle sue articolazioni sul territorio e nelle categorie dell’attuale gruppo dirigente confederale. In secondo luogo la conferma decisa sul tema della partecipazione dei lavoratori allo sviluppo delle imprese attraverso un sistema duale. Una sorta di modello partecipativo tedesco adattato alla specificità italiana. In terzo luogo l’esigibilità erga omnes dei contratti nazionali. Il resto è materia di un negoziato che si annuncia complesso, lungo e difficile ma quello che importa è la direzione di marcia. Federmeccanica ha, dal canto suo, presentato una ipotesi stimolante. Difficilmente digeribile dal sindacato dei metalmeccanici ma, non per questo, etichettabile in modo tradizionale o liquidabile con qualche slogan. La cautela nelle dichiarazioni ufficiali espresse fino ad oggi ne rappresenta la conferma. Le carte sono sul tavolo. Le posizioni sono molto distanti ma non inconciliabili. Adesso tocca ai negoziatori. Confindustria dovrà decidere se questa partita sarà chiusa dall’attuale presidenza o dalla prossima. Lo stesso varrà per i sindacati che, su questa impostazione, si giocano i prossimi congressi. Ma non c’è solo Confindustria in campo. Confcommercio resta firmataria del più importante contratto nazionale e altri comparti sono interessati a dire la loro senza subire vecchie egemonie che non hanno più ragioni di esistere. Finalmente si apre una fase nuova per le relazioni sindacali del nostro Paese e soprattutto si chiude quella che ci ha accompagnato dagli anni ’60 del secolo scorso. Era ora che quel modello andasse in pensione. Speriamo sia la volta buona.
Buon Anno!
Ogni anno nuovo è importante. Il 2016 lo è ancora di più perché si capirà se la ripresa c’è ma soprattutto quanti ne potranno concretamente beneficiare. Pur sapendo benissimo che nulla sarà come prima coltiviamo tutti la speranza che, almeno ciascuno di noi, sul piano individuale, possa “tirare il fiato” e togliersi di dosso, almeno in parte, quella preoccupazione per il futuro, per sé e per i propri figli. Forse ha ragione Checco Zalone. L’Italia nella quale siamo nati e cresciuti, un po’, ci manca. Da un lato c’è indubbiamente chi vorrebbe uscirne in fretta ma, dall’altro, si fa strada il rimpianto, giusto o sbagliato, che allora c’era posto per quasi tutti mentre, nel mondo che ci aspetta, non sarà certamente così. O meglio che sarà molto più difficile raggiungere i propri obiettivi e riuscire a mantenerli nel tempo. Sappiamo tutti che non si possono paragonare situazioni avvenute in ere geologiche differenti. In mezzo ci sono l’euro, il muro di Berlino e la globalizzazione. La crisi economica, le guerre e le migrazioni hanno fatto il resto rendendo inadeguati tutti i nostri strumenti di previsione e di riflessione. La Politica, dal canto suo, è deflagrata perdendo autorevolezza e favorendo il ritorno in superficie di malesseri sociali, egoismi individuali, contraddizioni tra territori, categorie, generazioni e ceti sociali che rendono sempre più difficile il compito di ricomposizione che spetterebbe proprio a chi governa la cosa pubblica. Le elites culturali o non dicono più nulla di interessante sul piano sociale, o la buttano quasi sempre in politica. Spesso parlano sottovoce lasciando il campo agli urlatori di professione. La stessa idea di disintermediazione porta inevitabilmente acqua al mulino del “fai da te” economico e sociale che, in un Paese, forte del suo tessuto di piccole e piccolissime imprese, è l’esatto contrario di quello che servirebbe. Il problema non è costruire una nuova immagine del nostro Paese nel mondo. Quella non cambierà tanto presto. Più che preoccuparci di come ci vedono altrove dobbiamo pensare a come ci dobbiamo vedere tra di noi. Ricostruire un senso civico, superare la continua litigiosità politica su problemi dove la concordia nazionale dovrebbe essere scontata, mettere da parte modesti interessi di categoria o di ceto e darsi da fare per rimettere in piedi una comunità nazionale che condivide valori, il cammino da compiere e i sacrifici per realizzarli. Abbiamo un grande Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato la propria vita a questi valori e alla loro concreta realizzazione. Bene, ascoltiamolo questa sera, nel suo primo discorso di fine anno, cogliamo l’essenza del suo pensiero e cerchiamo di trasformare il 2016 in un anno veramente nuovo e innovativo. Innovativo per la qualità dei rapporti tra noi cittadini e lo Stato, innovativo per le relazioni tra le categorie economiche, le organizzazioni di rappresentanza, le generazioni e le singole persone. Solo così faremo, insieme, qualcosa di diverso e di utile per i nostri figli. E infine, Buon Anno a tutti i 6811 visitatori del mio blog che dal 15 giugno 2015 hanno deciso di dedicare parte del loro tempo alle riflessioni che propongo!
Mario Sassi
Proposta Federmeccanica: luci e ombre del “rinnovamento contrattuale”
Nell’incontro ufficiale di ieri si è finalmente materializzata la tanto attesa proposta di “rinnovamento contrattuale” di Federmeccanica. Chi si aspettava la solita strumentale presentazione limitata alle pessime condizioni del settore e alle prospettive altrettanto incerte non è stato accontentato. Ieri, secondo me, è accaduto qualcosa di nuovo che contribuirà, nel bene o nel male, a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese. Mentre mi aspetto un “respingimento” pavloviano dalla FIOM credo che, in queste ore, in casa FIM e UILM prevalga la cautela pur nell’insoddisfazione complessiva. Non essendo presente all’incontro mi posso solo limitare ad una lettura di ciò che è presente in rete. Innanzitutto non è previsto alcun aumento automatico per tutti. Il contratto nazionale diventa il regolatore economico autentico dei minimi di categoria. Solo chi nel periodo precedente di riferimento è rimasto sotto quel minimo potrà percepire l’adeguamento salariale. Ed è questo il punto su cui i sindacati sono in maggiore difficoltà perché sostengono, a ragione, che ci si troverebbe di fronte ad un rinnovo contrattuale che, per la parte economica, riguarderebbe solo una modesto numero di lavoratori. E questo non è positivo. Per Federmeccanica, questo aspetto, va messo però in relazione con una apertura a nuove forme di adeguamento salariale aziendale legata ad obiettivi. Non è chiaro però se, questi adeguamenti avvengano attraverso forme di contrattazione, di che tipo, tra quali soggetti e con quale cadenza. Fino a qui il salario. Il punto vero di svolta è, però, sul resto. Se azienda e dipendenti, attraverso i propri rappresentanti, investono sul welfare, collaborano. Questo è il punto. E decidere di collaborare è il primo gradino verso forme più o meno ampie di partecipazione. Il fatto che la proposta venga da Federmeccanica è una novità importante e significativa. Credo che nessuno possa sottovalutarla. Si può discutere la dimensione della proposta, i suoi limiti, la sua praticabilità in decine di migliaia di imprese piccole e piccolissime. Non la novità che sottende. Non sarà un percorso contrattuale facile. Non lo sarà perché costringerà tutti i soggetti coinvolti a scoprire le proprie carte e a decidere quale strada percorrere. Per certi versi questa proposta rende già un po’ vecchia la stessa posizione di Cgil Cisl Uil sulla contrattazione. Nel migliore dei casi la mette immediatamente alla prova dei fatti. Vedremo quali saranno le reazioni.
Contratto nazionale? Si, no, forse…
Nelle discussioni sui futuri livelli della contrattazione la contrapposizione è ormai chiara: da un lato viene presentata una caricatura di un ipotetico contratto nazionale come uno strumento vecchio, distante dalle aziende e dai problemi reali e dall’altro l’opportunità di negoziare facilmente nei singoli luoghi di lavoro o altrove attraverso uno strumento nuovo di zecca: il contratto aziendale e/o il contratto di settore. Messa così, l’alternativa non si pone. Tra una cosa vecchia, distante, complicata, omnicomprensiva e una nuova, rapida e su misura la scelta sembrerebbe obbligata. Ma è proprio così o siamo di fronte ad una semplificazione furbesca o di chi fatica a comprendere il complesso sistema contrattuale e il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese? La vicenda FCA è emblematica nel suo essere un caso pressoché isolato e difficilmente imitabile. Un’azienda di grandi dimensioni, sostanzialmente unica nel suo settore esce dal CCNL di riferimento per costruirsene uno disegnato sulle proprie esigenze. Nulla di sconvolgente. Se avesse avuto la possibilità di derogare le norme ritenute obsolete e di non subire la reazione dei dissidenti e l’effetto paralizzante dei loro inevitabili ricorsi in tribunale, non lo avrebbe fatto. In quel contesto non era possibile fare altro sia per l’evidente opposizione della FIOM ma anche per problemi di equilibrio complessivo in Federmeccanica e quindi anche in Confindustria. Uscire da tutto ciò che avrebbe potuto ritardare il processo di cambiamento organizzativo in atto è stata una scelta tutto sommato, ragionevole. E, per questo, nessuno l’ha messa in discussione. Anzi, tre importanti organizzazioni radicate in quel contesto (FIM, UILM e Fismic) si sono dichiarate disponibili a seguire l’azienda in quel percorso. E infine, anche i lavoratori, visti gli esiti referendari, hanno approvato sia il percorso che il nuovo contratto. Cosa ha reso possibile quella scelta dunque? La presenza di un’azienda che gioca sul piano globale che rappresenta di fatto un intero settore, tre sindacati convinti e determinati a condividere una scommessa sul futuro e i lavoratori pronti a sostenerla. In altri contesti, però, non ha funzionato. Il caso di Federdistribuzione lo dimostra efficacemente. Una Federazione che raggruppa un numero importante di imprese della GDO (escluso le catene che fanno capo a Confcommercio, Coop e Confesercenti) decide di uscire dal contratto del terziario firmato da Confcommercio proponendo alle organizzazioni sindacali di farne uno specifico. Il quarto CCNL della GDO. Sarebbe bastato questo ultimo dato per fermarsi e riflettere, ma così non è stato. I vertici della Federazione si sono predisposti a impostare una piattaforma “nazionale” sostanzialmente indigeribile e impraticabile per qualsivoglia interlocutore e, infatti, nessun sindacato ha mai dichiarato esplicitamente di volere entrare nel merito. Al massimo qualche apertura generica sull’opportunità di continuare a confrontarsi e questo più per volontà di protagonismo di singoli esponenti sindacali che per reale disponibilità a concessioni concrete. Nonostante ciò si è preferito andare comunque avanti, forzando la situazione, abbandonando i fondi del welfare contrattuale del CCNL del terziario e lanciandosi in un negoziato senza rete sperando in una conclusione che, per come è stata prospettata fin dall’inizio alle imprese, non potrà mai esserci. Quando chi gestiva la trattativa si è accorto che Federdistribuzione non poteva continuare ad applicare sine die un contratto scaduto di cui non era firmataria e che non sarebbero stati in grado di farne uno nuovo, era ormai troppo tardi. Nel frattempo è stato rinnovato il contratto del terziario da Confcommercio lasciando Federdistribuzione e chi ne ha seguito la linea in una palude fatta di possibili ricorsi, agitazioni, malcontento dei collaboratori e isolamento organizzativo da cui sarà difficile uscire perché il livello di mediazione rischia di diventare sempre più difficile per tutti. E questo, sia chiaro, non è un bene né per le imprese né per i lavoratori. L’idea di farsi ciascuno il proprio contratto in una fase nella quale i contratti nazionali andrebbero ridotti e semplificati si è dimostrata ingenua e impraticabile. Quindi sostanzialmente inutile. Federdistribuzione aveva ed ha un ruolo ben più importante da svolgere nella tutela delle imprese della Distribuzione Organizzata. Si è purtroppo sottovalutato che le aziende della GDO hanno, negli anni, beneficiato dall’essere parte del CCNL del terziario. Addirittura lo hanno sempre condizionato a loro favore “nascondendosi” spesso dietro le difficoltà economiche delle piccole imprese e che, semmai, i guasti sono stati provocati proprio dalla contrattazione aziendale nella GDO stessa dove il rischio di volubili rapporti di forza interni (con minacce di blocco dei centri logistici e dei punti vendita) hanno spinto le DHR ad accordi tattici che, nel tempo, si sono rivelati trappole da cui, oggi, non è facile uscire. Inoltre la sovrapposizione temporale con il contratto nazionale della Cooperazione, che ha una necessità forte di riallineamento dei costi verso le aziende concorrenti che si riconoscono anche in Federdistribuzione, rende ancora più complesso il tutto. “Far da soli” ha senso quando l’obiettivo è quello di marcare un nuovo campo da gioco, insieme, non quello di “declinare crescendo” per riposizionarsi, in perenne lotta tra insegne. Un contratto nazionale senza scambio vero sui contenuti né basato su una scommessa sul futuro né su di un forte riconoscimento reciproco è fuori dalla realtà. Quello che è mancata è una leadership vera e riconosciuta di un’azienda con le idee chiare sulle altre come è sempre avvenuto in passato ma anche e soprattutto un’influenza e un’autorevolezza dei vertici della Federazione stessa sull’insieme delle imprese associate. E, mancando questa determinazione, non è stato trovato nessun interlocutore sindacale disposto a condividere quel disegno assumendosene le relative responsabilità anche perché, quelli che viviamo, non sono più tempi favorevoli ad accordi separati. Questi due estremi (FCA e Federdistribuzione) dimostrano che la strada maestra da percorrere è forse un’altra. Ed è quella già prevista dal CCNL del commercio che, non a caso, è il contratto nazionale più utilizzato dalle imprese italiane di ogni dimensione e di differenti settori del terziario. Quella che, in caso di necessità, possa prevedere delle deroghe di comparto da concordare su casi concreti all’interno di un corpo solido e riconosciuto. Si può fare di più e meglio? Certamente. Ad esempio studiando in futuro materie specifiche, nuovi livelli di competenza, maggiore autonomia, ulteriori deroghe. Ma questo solo all’interno di un CCNL unico, forte e rappresentativo. Questo, tra l’altro, consentirebbe di risparmiarsi “goffe” dichiarazioni sulla presunta insostenibilità di un aumento medio di 85 euro lordi scaglionati, di fatto, in quattro anni che l’insieme della GDO non potrebbe permettersi al contrario delle imprese dello stesso comparto e delle stesse dimensioni aderenti a Confcommercio. Solo una cosa un contratto nazionale o aziendale non può comprendere e cioè che una parte, unilateralmente, possa decidere quello che gli pare. Napoleone sosteneva che: “tutto si può chiedere ai propri soldati meno che sedersi sulla punta delle baionette”. Ecco. Se qualcuno pensa che la contrattazione nazionale o aziendale sia solo una richiesta formale di resa ai sindacati temo non abbia capito il contesto sociale e politico del nostro Paese. C’è una profonda differenza tra ciò che l’azienda può concedere individualmente e unilateralmente al proprio collaboratore e ciò che può o deve negoziare con i sindacati sul piano collettivo. Così come tra un livello aziendale dove può prevalere una esigenza interna o uno scambio anche “tattico” e un livello nazionale dove nessuno può imporre nulla alla propria controparte e tutto assume un rilievo politico e di principio. Per questo occorre un luogo terzo che definisca i minimi contrattuali, le norme generali e le regole del gioco evitando così il rischio di dumping tra aziende. E che si faccia carico del welfare contrattuale. Anche perché dovrebbe essere interesse di tutti il suo sviluppo, integrativo e complementare, al welfare pubblico con la creazione di masse critiche importanti. Inoltre nulla impedisce, ad esempio, di assegnare compiti precisi ai diversi livelli attraverso “clausole di dissolvenza” che lascino il tempo alle imprese che lo volessero di raggiungere accordi alternativi o applicare più o meno integralmente il CCNL di riferimento. Addirittura nulla impedirebbe di identificare un “minimo di garanzia” per ciascun comparto sotto il quale nessuno può scendere lasciando alle parti, nelle singole aziende, la possibilità di integrarlo verso l’alto o di comprenderlo con formule incentivanti o di coinvolgimento su specifici obiettivi aziendali. Ma questa non è una discussione che si può condurre sui media. Occorre che le parti sociali coadiuvati dagli esperti della materia possano confrontare proposte, soluzioni e contropartite accettabili. Modificare un modello contrattuale per renderlo attuale e in grado di rispondere alle necessità di oggi è di domani per le imprese e per i lavoratori non è materia semplice. La dimensione delle imprese, i settori, la loro collocazione nel territorio pesano quanto la cultura dei singoli imprenditori, dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali. Trovare una soluzione non sarà semplice. Sicuramente sarà necessario.
I Quadri del terziario: quali prospettive contrattuali?
In molti stanno ragionando sul futuro del management nelle imprese del terziario. Quando però si passa dalle mansioni/funzioni aziendali, spesso descritte in inglese, all’articolo 2095 del codice civile la cruda realtà giuslavoristica italiana ci impone di misurarci con il 900 e con due su quattro categorie ben precise: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Non si sfugge. Il simpatico trio Reno a Zelig sosteneva l’alternativa secca:” o moto o ciclista”. È così anche per il codice civile. Non c’è “manager più qualcosa” che tenga. O dirigente o quadro. E i Contratti nazionali seguono necessariamente questo schema rigido. Come sempre sono gli aggettivi a fare la differenza. Il quadro ha funzioni di “notevole” importanza e autonomia, il dirigente ha “ampi” poteri e “rilevante” autonomia. In azienda, al contrario, non è così da molto tempo. Sono due popolazioni che, al loro interno, presentano sfaccettature e responsabilità ormai difficili da separare nettamente. Nel terziario di mercato convivono circa 25.000 dirigenti e 90.000 quadri. In sostanziale tenuta i primi, in crescita i secondi. Se non fosse per il welfare contrattuale, le differenze quotidiane, nelle aziende del terziario, sarebbero minime ad eccezione dei licenziamenti individuali. I benefit sono ormai presenti e diffusi in entrambe le categorie, le retribuzioni (ad esclusione dei top manager) non sono sensibilmente differenti. Addirittura, in caso di passaggio a dirigente, a parità di stipendio, il quadro rischia di perdere circa il 10% della retribuzione diretta pur trovandosi a disposizione un welfare previdenziale, sanitario e formativo, di buon livello. Il Quadro ha a disposizione Quas per l’assistenza sanitaria, Quadrifor e Forte per la formazione e Fonte per la previdenza, il dirigente ha a disposizione FASDAC per l’assistenza sanitaria, Mario Negri e fondo Pastore per la previdenza e Cfmt e Fondir per la formazione. Welfare più costoso, certo, ma di altro livello. I quadri sono stati riconosciuti formalmente come categoria a se stante solo dalla Legge n. 190/1985. I dirigenti hanno un contratto nazionale specifico, i quadri, al contrario, sono inseriti nel contratto nazionale dei dipendenti del terziario al punto massimo della scala parametrale. È però difficile trovare imprese che affrontano in modo differenziato queste due categorie anche perché in azienda si gestiscono risorse, team, progetti e non categorie contrattuali. I piani di crescita e sviluppo, le carriere, il coinvolgimento, quando ci sono, riguardano l’intera popolazione manageriale indipendentemente dall’inquadramento professionale. Nelle multinazionali è spesso difficile spiegare ai colleghi di altri Paesi questi confini esclusivamente “legali” e italiani nati e consolidati nel secolo scorso e che, per loro, non hanno alcuna ragione di esistere. In alcuni settori e specifiche realtà aziendali medio piccole, al contrario, il livello Quadro resta un punto di arrivo. Invalicabile. L’unico approccio possibile se si vuole trovare una risposta è nella segmentazione e nella differenziazione come peraltro avviene già nelle imprese. E allora, che fare? O si interviene nel CCNL dei dipendenti del terziario introducendo una nuova figura di “quadro superiore” come già presente altrove, o si introduce questa nuova figura nel contratto dirigenti. Personalmente propendo per la seconda ipotesi anche perché ritengo un’anomalia concettuale la presenza di una figura manageriale, non impiegatizia o tecnica, nel CCNL dei dipendenti del terziario. Ovviamente questo si potrebbe fare dopo una seria analisi di quale parte della popolazione, oggi di livello Quadro, potrebbe esserne coinvolta, quali ricadute in termini di vantaggi, costi per le imprese e sul sistema di welfare contrattuale dei dirigenti nel lungo periodo. Aggiungo che, secondo me, questa figura professionale introdotta forzatamente nella metà degli anni ’80 per iniziativa dei sindacati confederali che inseguivano una effimera convinzione di rappresentanza generale, non ha giovato né ai quadri né al necessario allineamento tra organizzazione aziendale, funzionalità dell’impresa e articolato contrattuale. Né alla pianificazione delle carriere e delle retribuzioni per le imprese “costrette” ad accettare come inevitabile una forte spinta verso l’alto anche per figure tipicamente impiegatizie; e così si sono trovate costrette a pagare inutilmente anche sul piano del costo del lavoro complessivo. Perché se è vero che ad un’azienda non converrebbe promuovere un quadro a dirigente, è altrettanto vero che avere figure apicali gestite come impiegati sul piano dello standing professionale, della motivazione e della partnership tra singolo e impresa genera non poche contraddizioni. Aggiungo che negli anni 80 le differenze sul piano retributivo, dei benefit e del ruolo erano molto più marcate rispetto ad oggi dove sia il CCNL dei dirigenti che il CCNL dei dipendenti del terziario non hanno portato quasi nulla di significativo a queste categorie se non un tentativo continuo quanto inefficace di difesa di quello che alcuni considerano “diritti acquisiti”. E questo è un errore strategico commesso da tutti i sindacati che, come sempre, piuttosto che affrontare i problemi posti dalle imprese sul piano generale, definendo limiti legittimi ma uguali per tutti, preferiscono chiudere gli occhi e lasciarli alla gestione del singolo e della sua impresa. O dei rispettivi legali.
Consentire alle imprese e ai manager di dotarsi di tutte le opportunità necessarie per affrontare la crisi, le prospettive di sviluppo personale e professionale e il consolidamento di un welfare contrattuale di qualità è un obiettivo raggiungibile. Lo è ancora di più se i contratti nazionali che accompagnano questi passaggi sapranno cogliere le esigenze di chi rappresenta i rispettivi interessi in campo. Pensare che ci sia ancora la possibilità di avere, come dicono in Polonia, “il lupo sazio e l’agnello intero” è una illusione che rischia di far pensare a molti che lo strumento contrattuale non sia più in grado di regolare efficacemente il rapporto di lavoro a certi livelli. O meglio che l’unico modo di regolare il rapporto di lavoro tra manager (siano essi dirigenti o quadri) e impresa è farlo individualmente rendendo così inutili o ridondanti i contratti nazionali di categoria.
Il CCNL tra passato e futuro
La “provocazione” del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non va sottovalutata o banalizzata perché punta dritta al cuore di un punto importante dell’impianto contrattuale prendendo a pretesto l’argomento dell’orario di lavoro in rapporto alla retribuzione finale. Il soggetto, però, è l’impianto complessivo ritenuto sempre più costrittivo, non l’orario in sé. Ed è su questo che il Ministro ci invita a riflettere. È indubbio che il rapporto concreto tra CCNL e realtà normativa, giuridica e retributiva quotidiana delle imprese è sempre più distante. E questo sia per il singolo lavoratore che per i manager. Qualche accenno sulla lettera di assunzione (spesso con riferimenti comprensibili solo dagli addetti ai lavori) e il testo appeso in bacheca vicino alla macchinetta del caffè negli uffici o nei reparti. È un po’ come il Vangelo. Molti ne parlano ma pochi lo hanno letto. Vale anche per il CCNL. È argomento da tribunali, uffici vertenze, ispettorati del lavoro. Alcune volte da delegati della RSU che si “azzuffano” con le direzioni del personale nel disinteresse generale. Difficilmente lo è tra lavoratori. Ha perso quella valenza redistributiva che aveva in passato, non genera più alcun trasporto emotivo, senso di appartenenza e partecipazione quando si avvicina la data di scadenza. Anzi spesso le moratorie che si succedono con incessante regolarità rendono vaga anche la durata. Infine i contenuti che non mobilitano più le coscienze né creano particolari aspettative. Anzi. I lavoratori più sindacalizzati vivono spesso il rinnovo come un momento dove rischiano di essere messi in discussione prerogative e diritti ritenuti acquisiti. Le aziende generalmente lo applicano riservandosi di interpretarlo in modo abbastanza lasco, con la “complicità” più o meno consapevole dei diretti interessati. Minimi tabellari esclusi. Mansioni, livelli, straordinari, orari, ferie, permessi, ecc. trovano spesso un equilibrio specifico, azienda per azienda, ben diverso dal testo scritto. Le direzioni del personale non ne parlano volentieri. Non c’è una volontà a disattenderlo c’è un’interpretazione specifica che, generalmente, si è costruita nel tempo sul piano comportamentale e organizzativo che considera marginali e comprese nel costo complessivo le rare rivendicazioni postume. Nessuno, da molti anni, agisce e lavora in azienda con in mano il contratto nazionale. Da entrambe le parti. C’è un equilibrio accettabile o accettato. A volte subito. Ovviamente ci sono le eccezioni. Alcune aziende private in diversi settori (medio grandi), pubblico impiego e cooperazione. Questi ultimi due credo siano ormai gli unici dove il CCNL è applicato alla lettera e con confini invalicabili. Ma non è affatto detto che i lavoratori, in quelle realtà, stiano complessivamente meglio che altrove. Anzi.
Questa situazione si è creata per varie ragioni. Innanzitutto perché l’impianto organizzativo e sindacale tayloristico che lo ha prodotto nella seconda metà del 900 è in crisi e perché qualsiasi contratto non sarebbe comunque in grado di coprire le aree grigie tipiche dell’organizzazione aziendale e del rapporto di lavoro. In secondo luogo perché “l’ossessione” sui costi che ha pervaso le aziende ha spostato il confronto e il controllo sui piani di riorganizzazione/ristrutturazione o sulla preoccupazione che potessero essere messi in atto. Infine perché, in azienda, esiste un approccio diverso rispetto a quello dei luoghi dove i principi e i testi scritti sono l’elemento costitutivo come le direzioni del personale, le parti sociali, i giuslavoristi, gli avvocati del lavoro e i tribunali. Chiunque ha vissuto un po’ di anni in azienda sa che se si vuole complicare un problema occorre chiederne la soluzione dove il problema (organizzativo o individuale) non si è creato concretamente. È sempre stato così.. Queste ed altre riflessioni porterebbero a dire che ha ragione chi vuole sostituire il CCNL attraverso il suo decentramento a livello aziendale o territoriale. Personalmente sono contrario. Ovviamente non basta esserlo in modo acritico o conservatore. Occorre ridefinire il ruolo, i contenuti e i rimandi necessari. È questo, sarebbe opportuno che lo facciano le parti sociali. Ad oggi, il contratto del terziario, è l’unico che ha fatto un grande sforzo in questa direzione. E di questo va dato atto anche alle organizzazioni sindacali. In futuro penso ad un sistema con quattro contratti nazionali: industria, terziario, agricoltura e pubblico impiego contenenti le norme generali (ad esempio: ferie, malattia, inquadramento minimo, orario massimo, riferimento a norme di legge, ecc.), il minimo contrattuale nazionale legato, però, più ad una scala parametrale di ingresso che a livelli specifici) e, ovviamente, il welfare contrattuale. Impostandolo sull’essenzialità dei quattro grandi comparti forse non servirebbero altri contratti di riferimento (artigianato compreso). Questa impostazione, uguale su tutto il territorio nazionale, eviterebbe il dumping contrattuale e stabilirebbe norme generali uguali per tutti. Questo livello dovrebbe essere rinnovato ogni quattro anni. A livello di settore verrebbero stabilite le norme, valide esclusivamente in quel settore specifico. Questo livello potrebbe essere rinnovato ogni due anni. A cascata, a livello aziendale, verrebbero stabilite tutte quelle norme reversibili legate al rapporto di lavoro individuale e i sistemi di coinvolgimento e incentivazione. Perché reversibili? Perché la mansione può cambiare, in meglio o in peggio nel tempo. Così come le attitudini e le esigenze. Sul piano aziendale, poi, sono le commesse, i progetti, la stagionalità, i risultati a definire l’orario, la sua remunerazione e i sistemi premianti collegati. Su questo il ragionamento del Ministro Poletti non c’entra nulla con il cottimo o altro come sostenuto da Bertinotti o da qualche poco avveduto sindacalista. Cerca semplicemente di contemperare ciò che è riconducibile ad un sistema tradizionale con altre esperienze altrettanto importanti. Personalmente ho sempre pensato ad una retribuzione suddivisa in tre parti di cui una fissa (il minimo tabellare nazionale uguale per tutti) e due variabili (una legata alla professionalità espressa i cui riferimenti potrebbero essere di settore) è una all’andamento aziendale). E questo può essere definito in azienda, fatte salve le regole generali. Un sistema collaborativo e moderno non può che prevedere condivisione dei rischi ma anche dei risultati e quindi non può non essere reversibile. Le aziende del futuro sono luoghi dove il valore si crea attraverso il riconoscimento e la collaborazione. Non solo con le norme e i vincoli. Quindi la discussione sui livelli contrattuali non può non tenere conto che il problema fondamentale non è mettere in alternativa un livello all’altro ma creare un sistema che lascia libere le parti di trovare le soluzioni più idonee all’interno di un quadro di riferimento che eviti abusi, dumping tra aziende, sfruttamento e forzature inutili. Le aziende hanno bisogno di muoversi con maggiore rapidità ed efficacia rispetto ad un mercato sempre più globale ma non hanno alcun interesse a penalizzare le loro risorse che sono sempre più fondamentali e in grado di fare la vera differenza competitiva. E, infine, occorre prendere atto che solo un nuovo modello di relazioni sindacali più collaborative, come emerge anche dalla recente ricerca di Federmeccanica, può essere alternativo al sistema attuale che ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e che rischia di essere sempre più inviso alle aziende e sempre meno interessante per i lavoratori.