Quando un rinnovo contrattuale resta al palo

Succede sempre più spesso. La tanta auspicata sigla sul rinnovo dei contratti non c’è. E quindi i contratti non si rinnovano. Da molti anni il fondamento teorico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) era già in crisi. La stagione delle grandi ristrutturazioni aziendali, le crisi che si sono via via succedute hanno messo in discussione e poi definitivamente accantonato parte delle liturgie. Sempre più spesso le cosiddette piattaforme preparate con cura nelle assemblee si sono trasformate in accordi che parlano d’altro. Si è passati, nel tempo, da negoziazioni incrementali per i lavoratori a situazioni win win fino a rimettere in discussione in tutto o in parte quelli che erano ritenuti diritti acquisiti e quindi non negoziabili. La fase finale di quel ciclo è stata caratterizzata da un azzeramento più o meno deciso di tutto ciò che non faceva parte della contrattazione nazionale. In altri termini in una sorta di “legge del pendolo” non dichiarata i rapporti di forza, che nel frattempo si erano spostati a vantaggio dell’impresa, consentivano di rimettere in discussione tutto ciò che, fino al giorno prima veniva dato per consolidato in azienda. Questo segnava (almeno in termini concettuali) il fondo del barile. La globalizzazione, le crisi aziendali, la concorrenza sui costi ha spinto molti settori e aziende a non fermarsi ad una sorta di “pulizia” di vecchie situazioni costruite negli anni ma le ha spinte a rimettere in discussione lo stesso contratto nazionale di categoria rifiutandone il rinnovo. La scarsa reazione dei sindacati ha fatto il resto creando una situazione nuova. Il settore o il comparto in perenne fase di rinnovo contrattuale senza alcuna possibiltà di concludere il percorso. Apparentemente questo potrebbe essere apprezzato da molte imprese. Risparmiare sui costi è importante. Come e dove farlo è spesso secondario. E se addirittura una situazione del genere permette alla singola azienda il “fai da te” contrattuale, questo è ancora meglio. I vantaggi, che nel breve sono evidenti però si fermano qui. È vero che il CCNL ha perso nel tempo parte del suo valore simbolico e che, per molti lavoratori i risultati non sono stati ritenuti significativi o che, ad esso, sono seguiti accordi di tipo personale (come nei dirigenti) però il contratto ha un valore in sé che comprende e legittima chi lo sottoscrive e fornisce le coordinate fondamentali alla base dei rapporti di lavoro. È un punto di riferimento. Una base a disposizione dell’azienda e del lavoratore sulla quale costruire un rapporto fatto di correttezza, professionalità e reciprocità. Senza è la giungla. Da entrambe le parti. E, nel lungo periodo si sta peggio tutti. Ma questo fenomeno è causato solo dalle imprese o dalle loro rappresentanze vecchie e nuove? No. Spesso è provocato più o meno inconsapevolmente anche dai rispettivi sindacati. Rifiutarsi di firmare per mere questioni di bandiera, pretendere di decidere che i propri punti di caduta debbano coincidere con quelli della controparte sono i segnali evidenti del contributo sindacale al declino dello strumento. Non esistono più pregiudiziali, tabú, materie indisponibili. Esistono scambi. È ciò che è ritenuto irragionevole da una parte dimostra buone ragioni dall’altra. Chi lo comprende contribuisce a costruire le nuove regole del gioco mentre chi non lo comprende accompagna al declino lo strumento che così perde inevitabilmente valore.

Strategia unitaria e deriva identitaria

Chiunque è dotato di un minimo di sensibilità politica e sociale non può non identificare in una nuova stagione unitaria il prossimo percorso che devono compiere le organizzazioni sindacali confederali. Lo dimostrano i tempi, la storia e il contesto nazionale e internazionale con cui occorre misurarsi. È giusto dire, come fa Bentivogli, che senza strategia il sindacato, unitario o meno, non va da nessuna parte ma è anche corretto non dare per scontato che il problema sia rappresentato solo dalla FIOM o dalle tentazioni politiche del suo segretario generale. Anzi, limitarsi a pensare che, rimosso il problema Landini la strada sia in discesa rischia di essere un errore molto grave con nefaste conseguenze. Negli ultimi vent’anni il sindacato (quasi tutto il sindacato) ha rinunciato a pensare al futuro e si è chiuso in un recinto identitario da cui non è più uscito. gli stessi gruppi dirigenti di categoria nazionali e locali hanno costruito piú sull’identità e sul l’appartenenza che sui contenuti. In parte era inevitabile. Dal 1994 in avanti alle divisioni sui contenuti sono subentrate le divisioni e basta. Su tutto. E quando non ci si incontra più né ci si confronta su nulla, difficilmente si costruisce insieme. A parte poche eccezioni tutto si è svolto nei rispettivi recinti. E i nuovi gruppi dirigenti sono stati selezionati e sono cresciuti all’interno di quelle logiche. Chiunque volesse trovare un’analogia con gli anni 60 quando i vecchi gruppi dirigenti furono messi in crisi dall’effervescenza sociale di quel periodo si sbaglia. Il contesto è diverso, gli attori in campo sono diversi e, soprattutto, l’attacco ai corpi intermedi coinvolge anche le organizzazioni datoriali e quindi è in corso un evidente cambio di paradigma economico e sociale che impedisce una semplice riproposizione del passato. Per questo sarebbe fondamentale per il sindacato riprendere il rapporto con gli intellettuali, rilanciare i centri di formazione, riprendere il confronto unitario sui contenuti, e impegnarsi in una nuova strategia riformista. Ovviamente una strategia che fa della collaborazione nel Paese e per il Paese il suo punto di partenza. Lavoro, produttività, merito, condivisione convinta di rischi e opportunità con le imprese, welfare contrattuale e aziendale, politiche attive del lavoro, superamento definitivo del modello antagonista, sono i temi da approfondire. Evitando di limitarsi a segnalare le rispettive posizioni ma individuando alleanze, convergenze e priorità. L’alternativa è condannarsi all’irrilevanza politica e sociale. I segnali positivi ci sono: il contratto nazionale del Terziario e le complesse vertenze chiuse unitariamente con risultati apprezzabili sono lì a dimostrare che si può fare. Occorre andare avanti così.

Il bluff del secondo livello contrattuale: 1+1=1

Il non detto in cui cadono i sostenitori del decentramento contrattuale è sempre quello. Da una parte la Cisl che vorrebbe sommare i benefici di entrambi i livelli e dall’altro chi pensa che, una volta scardinato il CCNL si potrà fare a meno anche del livello aziendale. Due facce della stessa medaglia. Le critiche alla pesantezza e alla mancanza di flessibilità del CCNL si superano concretamente percorrendo il terreno delle deroghe. Il contrario non esiste. Lo vediamo nell’impasse del negoziato tra Federdistribuzione e le OOSS che, di fatto, lascia quasi duecentomila lavoratori senza alcun contratto nazionale senza alcuna reazione, lo vediamo con la disdetta di FIPE che lascia tanti altri lavoratori privi di rinnovo del contratto. Da parte sindacale non c’è alcuna presa di posizione significativa perché questi non sono tempi di mobilitazione. Da parte di molte aziende c’è poi l’idea di poter star fermi un giro o, almeno fino a quando è possibile. È la legge del pendolo. Quando i sindacati erano più forti e combattivi “caricavano” di costi le imprese. Adesso che sono oggettivamente deboli si caricano dei costi delle imprese. E, come un pugile suonato non sanno che fare. Inoltre, in molte aziende, l’idea di non fare alcun contratto nazionale o aziendale comincia a farsi strada. il dibattito aperto sui media su questo tema non comprende quasi mai questi aspetti. Ci si limita a teorizzare lo spostamento della contrattazione più vicino al territorio come soluzione di tutti i mali. È vero il contrario. L’asimmetria dei rapporti di forza si tradurrebbe nell’assenza di contrattazione. A meno che non vogliamo comprendere sotto questo termine tutto ciò che in caso di crisi i sindacati lasciano di tutto sul tavolo in cambio di impegni più o meno generici sull’occupazione. La messa in discussione del CCNL porta con sé molti effetti collaterali. In primo luogo mette in discussione il ruolo di regolatore salariale delle parti sociali. Non è cosa da poco. Oggi il contratto è sostanzialmente rispettato d tutte le aziende in tutto il Paese. Se non viene applicato determina la possibilità di farsi valere in altre sedi. È l’unico antidoto al downgrading salariale in atto in molti settori. in secondo luogo contiene tutti quegli elementi di welfare, gestione organizzativa e di inquadramento che sono punti di riferimento utili sia per le aziende che i lavoratori. In terzo luogo la non applicazione determina situazione di dumping tra aziende che, in un Paese con oltre quattro milioni di imprese, non è da sottovalutare. Infine il cosiddetto salario minimo. Avere un punto di riferimento nazionale e accettato da tutti è importante. Forse sarebbe più utile un nuovo modello che preveda 4 contratti: industria, terziario e servizi, alimentare e agricoltura, pubblico impiego anziché gli oltre 600 previsti oggi. Al proprio interno ciascun contratto potrebbe prevedere le specificità necessarie per singoli comparti. I contratti nazionali potrebbero inoltre gestire importanti quote di welfare nel campo della previdenza, della sanità e della formazione. A questi, infine, si potrebbe aggiungere un contratto unico per i manager (dirigenti, quadri, professional) che non ha senso inquadrare nei contratti di categoria con un welfare specifico. A livello aziendale e/o territoriale basterebbe introdurre il concetto della deroga. Una opzione a disposizione delle parti per gestire situazioni particolari aziendali o territoriali. Personalmente spero si vada in questa direzione. L’alternativa è Darwin. Non credo sia una strada da percorrere.

Illegittimi controlli a distanza o legittimi controlli di apparecchiature aziendali?

Ci risiamo. Nessuno si è mai sognato di protestare all’assegnazione di strumenti quali il telepass, la carta carburante, il cellulare o il p.c. portatile. Addirittura per un manager, insieme all’auto, costituiscono ciò che vengono  definiti benefit e dati per scontato. Anzi pretesi, come è ovvio che sia. Quasi sempre vengono usati sia per lavoro che per motivi extra lavorativi. Lo sanno tutti. Azienda e collaboratori. L’azienda sa esattamente come vengono usati e il collaboratore sa che l’azienda è perfettamente a conoscenza del loro utilizzo. Dal telepass si ricava dove e quando un collaboratore transita in autostrada. Dalla carta carburante dove, a che ora fa il pieno e se il consumo è in linea con i consumi standard. Cosí è per le telefonate. I gestori mandano con una certa regolarità consumi e numeri telefonici chiamati (pur con modesti accorgimenti a tutela della privacy). L’azienda sa perfettamente dove è stato il suo collaboratore, quanto si è fermato da un cliente, dove ha perso tempo, con chi ha parlato, quanto ha usato il p.c. per cosa e per quanto tempo. Sia quando lavora che quando è in ferie o in malattia. E questo da sempre. Questo ha comportato problemi particolari? No. Se un collaboratore esagera nell’utilizzo qualcuno glielo fa notare. Direttamente o indirettamente. Altrimenti non succede proprio nulla. Se c’è dolo grave scattano provvedimenti disciplinari? Si. Se un collaboratore in malattia ha l’auto in qualche località vacanziera, è normale che nasca un sospetto. Così come se una utilitaria improvvisamente consuma come una fuoriserie. Non c’è nessun grande fratello. È un problema di rapporto fiduciario che non deve mai venire meno. I controlli a distanza non incidono sulle idee o sulle affermazioni del collaboratore. Semmai la rete vene scandagliata prima dell’assunzione di un collaboratore. Quindi fuori dalla portata della legge 300. Che fare? Informare il collaboratore di come l’azienda utilizzerà le informazioni e informare il collaboratore dei rischi che corre in caso di abuso o di violazione delle policy aziendali. Tutto qui. Questi interventi fanno parte di una normale attività di gestione dell’organizzazione che, in forza della tecnologia, si dilata e va oltre i confini tradizionali. E, infine, superare nei testi definitivi le possibili contraddizioni create negli articoli della legge 300. Tutto qui. Non serve complicare la vita delle imprese né far passare l’idea che le stesse passano il tempo a controllare i collaboratori. L’invenzione del semaforo ha reso meno semplice l’attraversamento spontaneo delle strade perché ha certamente ridotto la libertà individuale del pedone. Forse qualcuno all’epoca ha protestato ma una cosa è certa. Se conosci come funziona ti muovi di conseguenza. La protesta dei sindacati è, ovviamente, strumentale. Pensare di affidare a loro un intervento preventivo è pura follia. Sarebbe come se qualcuno avesse pensato di affidare alle Poste italiane un controllo preventivo sul traffico delle mail.  Inutile, burocratico è inefficace. Non c’è mai stata protesta all’assegnazione di questi strumenti e nessuno ha mai rifiutato un benefit con queste motivazioni. In azienda, che piaccia o meno, c’è un livello di rispetto e di democrazia ben diverso da quello degli anni 70. Allora veniva licenziato chi leggeva L’Unità. Oggi chi lavora all’Unità. Non mi sembra una differenza da poco.