Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.

Un tempo bastava osservare la quantità di CV che i giovani clienti (o i loro genitori)  lasciavano sul banco della regia del supermercato. O il passaparola tra gli specialisti. Poi si è passati all’interinale. Ragazzi che lasciavano presto la scuola, donne interessate a guadagnare qualcosa con un part time, esuberi delle diverse  ristrutturazioni di altre insegne o dell’industria foraggiavano il turn over o le aperture delle diverse aziende. Trovare personale non è mai stato un problema nella GDO. Tant’è che è aumentato sia il part time involontario che i tempi determinato. Quell’epoca si è però chiusa.

Aggiungo che in  Italia c’è sempre stata una certa ritrosia nella GDO nazionale verso lavoratori provenienti da altri Paesi pur essendo la norma altrove. Più per ignoranza, superficialità e scarso interesse delle insegne che per razzismo, da noi, la presenza di lavoratori stranieri nel punto vendita  è sempre stata vista anche da molti clienti con una certa diffidenza. ALDI, al contrario, dichiara con orgoglio la presenza nel gruppo  di 47 nazionalità differenti.  Così vale per LIDL o Carrefour. La forte ripresa economica  post lockdown ha poi dirottato ulteriori risorse in altri comparti facendo emergere le peculiarità e i limiti di quei  settori, ristorazione e commercio innanzitutto, ma anche quello della GDO, che pur avendo retribuzioni in linea con altri comparti, presenta modelli organizzativi non più particolarmente attraenti per  giovani e meno giovani rispetto a qualche anno fa.

C’è chi cerca di gestire comunque il problema. Ad esempio Tosano nel triveneto aggiunge al CCNL vitto e alloggio per chi vive ad oltre 55 chilometri. 19 ipermercati, tutti in  gestione diretta, 4000 dipendenti. Una realtà di punta del Gruppo Vegè. Le difficoltà a trovare personale sono abbastanza diffuse sul territorio. Altri rimodulano l’orario o vengono incontro alle mutate esigenze delle persone. Qualcosa si muove. L’aspetto economico è solo uno dei problemi. Forse nemmeno il principale. C’è un problema di scarsa attrattività del modello di  prestazione richiesta,  un altro legato alla costruzione delle professionalità specifiche. Un altro ancora legato alla gestione delle risorse umane nei punti vendita. Tanto celebrate durante il lockdown per la loro abnegazione.  Su di loro, oggi, è però calato il silenzio.

Occorrerebbe guardare oltre al proprio naso e ragionare in termini di settore. Costruire con le regioni e i ministeri opportunità di lavoro rivolte anche  ad altri Paesi, strutturare, attraverso i fondi interprofessionali percorsi formativi specifici, garantire inserimenti dopo pur adeguati periodi di prova. In altre parole, passare dal lamento contro i giovani e il contesto cinico e baro ad una politica comune che contribuisca a neutralizzare il problema. Leggi tutto “Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.”

L’ultimo miglio. Un business da reinventare.

C’è un dibattito  in corso  in tutta Europa sui cosiddetti unicorni che popolano l’ultimo miglio. Alcuni chiudono, altri vengono acquisiti da concorrenti. Altri ancora si concentrano su alcuni mercati. Le aziende della GDO, oltre che con i loro negozi di vicinato, cercano sempre di più di coprire in proprio quel tratto di strada per garantire un servizio ai loro clienti. Nel frattempo i ministri del Lavoro Ue hanno raggiunto l’accordo sulle nuove regole a tutela dei rider e dei lavoratori delle piattaforme. Lo ha annunciato la presidenza di turno svedese del Consiglio Ue. Tra i punti principali della posizione comune dei Ventisette vi è l’inquadramento, secondo determinati criteri, dei lavoratori della gig economy come dipendenti, e non più come autonomi.  Una sorta di (difficile) quadratura del cerchio. Ne vedremo gli sviluppi.

Personalmente trovo questa attività  assolutamente utile.  Poter ordinare da casa prodotti o servizi, al di là di ciò che abbiamo dovuto affrontare con il lockdown è un passo in avanti. Va normata meglio, tutelati gli addetti e inserita in un contesto economico che garantisca una redditività.  Ma resta un servizio come qualsiasi altro. È però un lotta contro il tempo. C’è un modello di business da reinventare. Non basta puntare ad incrementare il numero dei clienti come nella fase precedente sperando in un loro consolidamento successivo. I conti devono tornare. E il servizio in sé, per ora, non è  in equilibrio economico.

La fase della pandemia ha illuso che la strada sarebbe stata solo  in discesa. Secondo McKinsey (https://mck.co/43MasAr) il mercato globale della consegna dell’ultimo miglio nel mondo  avrebbe dovuto raggiungere i 66 miliardi di dollari entro il 2026, dai 39.5 miliardi del 2020.  La mancanza di domanda per la consegna di generi alimentari in 30 minuti in Europa occidentale, l’aumento dei costi operativi e l’inflazione stanno rendendo difficile  la redditività costringendo startup come Getir a rivedere la loro strategia nei diversi Paesi per cercare di rilanciarsi. Da noi Gorillas e Sezamo hanno chiuso. I rispettivi Head Quarter hanno deciso di ritirarsi dai mercati ritenuti meno profittevoli o dove la ricerca della redditività sarebbe stata per lungo tempo più un miraggio che un obiettivo. 

La principale startup europea di quick commerce, Getir, sta considerando di chiudere tutti i suoi dark store in Francia oltre a quelli situati a Parigi dopo aver acquisito il rivale Gorillas nel dicembre 2022 per più di 1 miliardo di dollari. Il declino del quick commerce sta iniziando a sembrare veloce quasi quanto il suo successo iniziale. Sembra passato un secolo da quando Getir è stata lanciata, a metà del 2021, in Francia. Anche lì  aveva beneficiato di un contesto favorevole. I vari lockdown avevano reso la consegna rapida una risposta interessante. La startup turca era stata lanciata anche a Londra qualche mese prima.

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Grande Distribuzione e scarso peso politico. Bisogna guardare avanti…

Fino alla nascita del Governo di centro destra le diverse lobby, sempre molto attive, interagivano con la politica attraverso canali conosciuti e riconosciuti. La difesa dei legittimi interessi di parte era affidata a professionisti, o alla diverse associazioni di categoria, che veicolavano, a ciascun partito rappresentato in Parlamento o in altre situazioni,   le proprie determinazioni sulle differenti iniziative che la politica o le diverse istituzioni coinvolte  si apprestavano a mettere in campo. Era quindi la politica a dover trovare le mediazioni e le conseguenti sintesi necessarie.

L’equilibrio è di fatto saltato con il nuovo esecutivo. Innanzitutto perché alla base del successo elettorale dei partiti che compongono la sua maggioranza c’è l’impegno, più esplicito che in passato, di buona parte dell’associazionismo imprenditoriale dell’agricoltura, dell’industria e del commercio. Non prenderne atto è da ingenui. Affrontati  i due temi fondamentali sotto lo sguardo attento  del Presidente della Repubblica e attraverso un’assunzione di responsabilità diretta del Presidente del Consiglio sulle compatibilità economiche in rapporto con l’Europa e il nostro sostegno all’Ucraina nel quadro delle nostre alleanze militari il resto delle determinazioni, dall’agricoltura all’industria nazionale, dal commercio e dal turismo le scelte o le “non scelte” sono frutto di un lavoro di concerto con le rispettive associazioni di categoria.

Quindi le contraddizioni interne ai vari comparti o tra comparti, se non trovano una ricomposizione win win, vengono schiacciate da questi equilibri determinati dalla nuova situazione politica. La Grande Distribuzione, prima della nascita di questo Governo, contava sull’ascolto guadagnato dal mondo cooperativo e dal suo tradizionale rapporto con il centro sinistra che, a vario titolo, ha sempre partecipato direttamente o indirettamente al governo del Paese beneficiandone della sua attività di lobby oppure dei rapporti diretti che, a partire dai territori le diverse insegne si erano costruite con la politica, di destra o di sinistra che fosse, per far arrivare le proprie istanze. Il cambio di Governo e il riacutizzarsi dell’inflazione hanno spazzato via questi elementi di raccordo lasciando qualche  spazio ai rapporti diretti dove la convenienza reciproca ha giocato un ruolo determinante ma ha reso irrilevante   alle lobby principali il peso e le istanze della GDO.

Ovviamente le tradizionali divisioni interne del comparto  rendono difficile prenderne atto collettivamente e spesso si preferisce addebitarlo agli usi e alle consuetudini del settore: “È sempre stato così e non cambierà mai” è la risposta a chi lancia un allarme vero. Difficile quindi rimediare una linea comune tra “acerrimi” concorrenti che preferiscono comportarsi come i polli del Manzoni beccandosi tra di loro mentre vengono portati in polleria. La nuova situazione politica e la gestione del perdurare dell’inflazione potrebbero  però aprire uno scenario nel quale sarebbe necessario inserirsi. Per due ragioni. Innanzitutto perché i comparti a monte hanno interesse a spostare decisamente gli equilibri a loro favore. Per l’industria di marca e per l’agricoltura l’inflazione, se gestita con intelligenza, non è di per sé un male. Dopo lo spavento della pandemia e con una guerra all’orizzonte un po’ di fieno in cascina non guasta. Certo non sarà così per tutti. Ma tant’è. E poi è fondamentale esserci per un problema di potere. Se hai un asse forte con il Governo contribuisci ad individuare le soluzioni necessarie e dove spostare le risorse necessarie.  Sia nel primario che nell’industria. E, infine, un nemico facile da individuare serve a tutti. Lo vediamo già oggi in Spagna con le proposte strampalate di Podemos contro la GDO o nei discorsi sull’avidità  delle insegne in Gran Bretagna (la cosiddetta greedflation).

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Associazioni datoriali e imprese del terziario ad un passo dal possibile rinnovo del contratto nazionale

Ormai ci dovremmo essere. Ai primi di giugno ISTAT darà il dato di conguaglio IPCA 2022 (indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea). L’effetto di quel dato preoccupa le imprese che applicano il CCNL del terziario e della GDO per le conseguenze inevitabili sul costo del lavoro in un momento di forte tensione dovuto alla ripresa inflazionistica e alle conseguenze sui livelli di  consumo. Non traggano in inganno i fatturati gonfiati dall’inflazione. Un rinnovo di CCNL guarda necessariamente al futuro, ai prossimi 4 anni. E la storia è  ancora tutta da scrivere. La liturgia e la prassi delle relazioni sindacali non prevedono cambiamenti né adattamenti  al contesto. Al massimo ritardi applicativi. O come nel caso dei fornitori sconti e promozioni. Eppure la logica suggerirebbe una maggiore cautela sugli impegni economici da concordare in tempi di inflazione. I contratti, sindacali o meno, sono impegni economici le cui modalità di erogazione andrebbero modellati sul contesto. Non viceversa. Ma questo presuppone un salto di qualità che non è nelle corde dei giocatori in campo. Ciascuno cerca di difendere come può il proprio perimetro di riferimento.

L’incontro delle delegazioni al massimo livello prevista per i prossimi giorni ha questo scopo. Valutare la possibilità o meno di un affondo conclusivo. Sarebbe sbagliato non auspicare una conclusione. L‘Accelerazione  dovrebbe portare alla firma del contratto nazionale del terziario trascinando in un destino analogo gli altri tre contratti nazionali che ruotano intorno a quello firmato da Confcommercio applicato ad oltre 2 milioni ed 800 mila addetti. L’ultimo contratto nazionale firmato nel 2015 è scaduto  nel 2019. Il 12 dicembre 2022, le diverse associazioni datoriali (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti, Coop) hanno sottoscritto un protocollo di settore con i sindacati di categoria Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs definendo una tantum di 350 euro e un acconto di 30 euro sui futuri aumenti contrattuali a partire da aprile 2023. Un piccolo passo in avanti. Molte aziende oggi spingono per chiudere la partita.

L’accordo è maturo e non sono utili a nessuno i giochi di ruolo  delle diverse associazioni per segnare i rispettivi campi da gioco. C’è un convitato di pietra al tavolo per ora ancora circoscritto: i cosiddetti “contratti pirata” che vengono spesso evocati dall’associazionismo di impresa e dai sindacati come nelle sedute spiritiche ma che, concretamente, nessuno sembra intenzionato ad affrontare sul serio.

Facciamo chiarezza.

Con il termine “contratti pirata” si intendono contratti collettivi sottoscritti da sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali, a volte poco rappresentative, con l’obiettivo di costituire un’alternativa ai contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni più rappresentative. L’uso del termine “pirata” deriva dal fatto che tali contratti prevedono condizioni normative ed economiche inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali (ad esempio retribuzioni minime inferiori; un minor numero di ferie o permessi, etc). Se volessimo essere pignoli anche i due contratti nazionali , firmati a suo tempo, da Confesercenti e Federdistribuzione con gli stessi sindacati confederali in dumping a quello di Confcommercio potrebbero essere definiti essi stessi una forma di contrattazione “pirata”  per attrarre associati. Ma tant’è. Arrivare a questo punto della vicenda non conviene a nessuno  sottilizzare. 

Tra gli indubbi svantaggi che l’applicazione di tali contratti in dumping sta portando è che si determina una proliferazione dei contratti collettivi. Pirata o meno. Visti dal versante dell’impresa, soprattutto quella piccola e media, “rappresentano la reazione adattiva di un sistema a basso valore aggiunto all’imposizione di continui oneri” come ha scritto recentemente  Mario Seminerio. Per uscirne non basterebbe certo prendersela con  i reprobi. Occorrerebbe, oltre ad un intervento deciso sul costo del lavoro e sulle normative, una legge che certifichi il peso degli aspiranti firmatari e quindi  chi debba essere titolare della contrattazione di categoria.

Ma se fosse così, i 3 contratti firmati da Confesercenti, Federdistribuzione e Confcommercio, che coprono in parte  lo stesso perimetro, come verrebbero “pesati”?  E, aggiungo, Confcommercio, ad esempio,  sarebbe disponibile ad accettare la richiesta di trasparenza prevista sul numero dei suoi  associati nei singoli sottosettori  e delle sue entrate economiche? Soprattutto da quelle provenienti da sottosettori che non si riconoscono nella confederazione di Piazza Belli. Ad oggi nulla è chiaro. Quindi la cosiddetta contrattazione “ pirata”, senza alcun intervento, rischia di proseguire il suo cammino  come prima. Anzi. Tenderà ad ampliare il suo raggio di azione. Sopratutto quando le insegne  operanti  sullo stesso territorio e alle prese con costi crescenti si trovassero ad applicare contratti di lavoro con differenze di costo anche superiori al 15%….

Aggiungo una nota di colore. Per dimostrare di saper gestire  i “malpancisti”  presenti nelle delegazioni di alcune  associazioni datoriali al tavolo negoziale,  Confcommercio  ha  provato  la classica mossa del cavallo: scavalcare i contratti pirata intervenendo in pejus su diritti e tutele del CCNL in rinnovo, in cambio dell’aumento salariale. Un rilancio inutile che più che accontentare i duri del negoziato rischia di trasformarsi, oltre che in una provocazione nei confronti del sindacato, in  un endorsement formale alla bravura dei consulenti del lavoro che, nei territori, si ingegnano a rielaborare i contenuti del CCNL abbassandone le coperture.

Criticare i contratti pirata e mettersi contemporaneamente la benda all’occhio e l’uncino per fingere di  “spaventare” i sindacati non credo sia particolarmente  saggio a questo punto del negoziato. A meno che non si tratti della classica furbata finale per gestire i riottosi seduti al proprio fianco. Vedremo presto se si è trattato del classico ballon d’essai fine a sé stesso da parte di chi tira le fila del negoziato o di una scelta consapevole foriera di conseguenze negative sull’esito finale.

Pur non essendo questo un rinnovo che verrà ricordato dai posteri per i contenuti innovativi, visto il contesto,  i margini per chiudere ci potrebbero essere.  Innanzitutto il sindacato ha ottenuto un primo risultato: il negoziato procede parallelamente con tutte le associazioni coinvolte come fosse lo stesso tavolo. Non è un risultato da poco. È, di fatto, un  passo importante che certifica l’impossibilità di riproporre  fughe in avanti come è avvenuto in passato. Approfittando del recente decreto lavoro, le parti potrebbero lavorare, ad esempio, sulle causali del lavoro a termine e definendo modalità e tranche dell’aumento salariale da spalmare sulla durata del nuovo CCNL.

Così come per alcuni articoli del contratto stesso che si sono usurati nel tempo e sui quali diversi aggiustamenti sono possibili senza alterarne gli equilibri.  e poi ci sarebbero da introdurre sperimentazioni sulle nuove tendenze e professionalità del lavoro nel terziario. Senza dimenticare  i quadri aziendali che in questi anni hanno visto crescere la professionalità richiesta, l’impegno  e il contributo al risultato aziendale. Per il sindacato non si prospetta comunque una partita facile. La pressione salariale sta salendo dal basso  così come le tensioni tra i sindacati potrebbero introdurre variabili imprevedibili allo stesso negoziato. Lo stesso vale per le aziende della GDO che stanno esaurendo tutti gli strumenti messi in campo per tenere sotto controllo il costo del lavoro e che guardano con preoccupazione gli anni di vigenza del nuovo CCNL.

È una partita molto delicata ma che è interesse comune chiudere presto. Non solo nel commercio e nel terziario. Quasi 7 milioni di persone su un totale di 12,8 milioni nel nostro Paese sono senza contratto nazionale rinnovato. Tre milioni gli addetti e le addette di turismo, commercio e ristorazione. Il contratto della vigilanza, è scaduto da sette anni. 591contratti nazionali scaduti al 31 dicembre del 2022. Mentre il costo della vita è in costante aumento, gli stipendi degli italiani non solo non seguono l’incremento dell’inflazione ma addirittura sono scesi nel tempo complice la stagnazione di PIL e della produttività. E questa situazione, se non governata, non promette nulla di buono. A questo punto del percorso non c’è alternativa all’accordo. Alla GDO verrebbe addebitata la responsabilità, oltre a quella strumentale del “caro carrello” pure quella di “irresponsabilità sociale”. Un disastro sul piano dell’immagine pubblica. C’è un vecchio proverbio ebraico che recita: “l’unico ostacolo al compromesso è un po’ di buona volontà”. Questo è il momento di dimostrarla.

Walmart vs. Amazon. La sfida tra i due giganti continua.

“Siamo in una posizione unica per servire i nostri clienti indipendentemente da  come vogliono fare acquisti, il che alimenterà la nostra crescita”, ha affermato Doug McMillon, presidente e amministratore delegato di Walmart Inc. alla riunione annuale con gli investitori. “Mentre cresciamo, miglioreremo il nostro margine operativo attraverso gli incrementi  della produttività e il nostro business mix migliorando il nostro margine operativo, investendo sulle priorità programmate”.

Crescere è il mantra. L’ossessione di chi vuole essere il numero uno. Ogni settimana, circa 240 milioni di clienti visitano più di 10.500 negozi e i suoi numerosi siti web di e-commerce in 20 paesi. Con un fatturato dell’anno fiscale 2023 di 611 miliardi di dollari, Walmart impiega circa 2,1 milioni di collaboratori in tutto il mondo. L’azienda sta reingegnerizzando la sua supply chain.  Il risultato punta a migliorare la fase di preparazione delle scorte, dell’inventario e il flusso, indipendentemente dal fatto che i clienti acquistino nei negozi, ritirino la merce ai loker  o tramite la consegna a domicilio.

Walmart ha presentato l’innovazione della sua  logistica nel suo centro di distribuzione regionale di Brooksville, in Florida. Un sistema che utilizza una combinazione di dati, software e robotica. In questo modo l’azienda ha spiegato come l’aumento dello stoccaggio degli articoli consenta al centro di distribuzione di fornire un servizio di consegna più coerente, prevedibile e di qualità superiore a negozi e clienti e di reagire più rapidamente alla domanda. I negozi si stanno trasformando. Oltre  da luogo tradizionale per acquisti diventano anche centri di evasione ordini e stazioni di consegna. I centri di distribuzione e di evasione ordini contengono un mix di articoli, da fornitori e venditori. Non necessariamente trattati da Walmart. Ciò consente all’azienda di ottimizzare le sue risorse in modo più flessibile ed efficiente.

L’annuncio è stato chiaro: “entro la fine dell’anno fiscale 2026, Walmart ritiene che circa il 65% dei negozi sarà servito dall’automazione, circa il 55% del volume del centro di evasione ordini passerà attraverso strutture automatizzate e le medie dei costi unitari potrebbero migliorare di circa il 20%”. Meno lavoro manuale (con minor costo del lavoro complessivo), più lavoro specializzato e meglio retribuito. Il presidente e CEO di Walmart Inc. McMillion ha dichiarato: “Siamo un grande rivenditore  guidato dalle scelte delle persone e alimentato dalla tecnologia. Le prime costituiscono lo  scopo, i valori, la cultura, le opportunità e la comunità di appartenenza. Serviamo i nostri clienti  creando contemporaneamente opportunità di lavoro. Opportunità che trasformano i semplici posti di lavoro in carriere professionali. Così i nostri collaboratori sono messi in condizione di realizzare il loro potenziale”. Leggi tutto “Walmart vs. Amazon. La sfida tra i due giganti continua.”

Grande Distribuzione e lavoro. Il contratto nazionale che non c’è.

Come ho scritto a suo tempo (https://bit.ly/3HE2vV1) la firma del “protocollo straordinario di settore” di dicembre (https://bit.ly/3j0lD5r) è stato un fatto positivo. Rimettere intorno ad un tavolo comune (per i contenuti concordati) le diverse associazioni (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti e Coop) per confrontarsi con il sindacato di categoria sull’esigenza di arrivare nel 2023 alla firma dei rispettivi CCNL è stato un buon passo in avanti per una vicenda che rischiava di trascinarsi nel nulla cosmico per responsabilità dell’intera rappresentanza datoriale.

Certo le incertezze del  contesto e delle prospettive economiche non hanno incentivato il confronto ma qui c’è dell’altro. Innanzitutto la paura delle diverse associazioni del dumping salariale altrui utilizzato per difendere/incrementare la base associativa. Essere titolari di un contratto nazionale conferisce uno standing ambito. Definisce il perimetro rappresentato. Riuscire poi ad ottenere dalla stessa controparte sindacale uno “sconto” sul costo complessivo, definito da altri, convince i propri associati di essere meglio tutelati dalla propria associazione che da altre sigle. Salvo sottovalutare che, al rinnovo successivo (e oggi siamo qui) lo sconto ottenuto da alcuni toglie credibilità a chi lo ha concesso e insinua un clima di sfiducia complessiva sulla capacità  di sottoscrivere e mantenere i patti.

Un errore da matita blu che ne ha innescato un altro altrettanto pernicioso. Alcune imprese, visto la facilità con cui le associazioni principali si scavalcavano l’un l’altra con il beneplacito dei sindacati di categoria e sollecitate dai propri consulenti del lavoro, sono andate ben oltre azzerando i vecchi contratti in essere e modellandosene di nuovi a livello locale sulla propria struttura  organizzativa in modo assolutamente legittimo. Superare questa situazione non sarà facile. Il protocollo di dicembre ne ha rappresentato, però, un primo passo.

Recuperato per quanto possibile un clima di confronto costruttivo nei prossimi appuntamenti sarà necessario entrare nel merito. E qui casca l’asino. Da parte datoriale Confcommercio e Confesercenti, essendo confederazioni,  hanno una competenza tecnica in grado di affrontarne i contenuti per la dimensione politica che li alimenta e ne neutralizza in parte gli effetti concreti più indesiderati presenti in tutti i contratti. Federdistribuzione, no. La “base” delle due confederazioni  sono funzionari associativi esperti e allineati mentre Federdistribuzione ha, come interlocutori diretti, le imprese che notoriamente misurano i risultati rispetto al loro perimetro e alle loro specifiche esigenze. Una differenza non da poco…
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Il 2023 può essere l’anno di una nuova centralità del lavoro?

Il “rischio” che si perdessero molti posti di lavoro ha accompagnato pandemia e ripartenza. Il peso di un comparto si è sempre calcolato per la sua incidenza sul PIL e dal numero di occupati impiegati. Ci sono sempre in gioco “migliaia di posti di lavoro” come conseguenza di ogni in-decisione politica. La “quantità” coinvolgibile  è stata per lungo tempo il termometro del buon andamento o meno della società. Il lavoro purchessia, innanzitutto.

È un criterio di misurazione che viene da lontano. La stessa querelle sulla “congruità”delle eventuali offerte per superare il reddito di cittadinanza ne rappresenta una conferma. Quando si parla del lavoro degli “altri” la qualità dello stesso, la sua remunerazione, il grado di soddisfazione, per chi ne è coinvolto, rischia di passare in secondo piano. Averlo o non averlo ha sempre rappresentato il discrimine sociale principale.

Ma è ancora così? Oggi sembra esserlo sempre meno.

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Grande Distribuzione e terziario. La firma unitaria sull’acconto economico per i lavoratori è un buon passo in avanti…

Il 2022 si chiude, purtroppo,  senza il CCNL del terziario e della grande distribuzione rinnovato. Fortunatamente, e dopo tre anni dalla scadenza, è stato concordato una sorta di percorso con un indennizzo parziale e  un acconto sui futuri aumenti contrattuali (https://bit.ly/3j0lD5r) che farà passare il Natale (che resta un momento decisivo  per le vendite) con qualche speranza in più sul rinnovo nei primi mesi del 2023.

Perché siamo arrivati qui?

Inutile girarci intorno, la  responsabilità è delle due associazioni principali: Confcommercio e Federdistribuzione. Confcommercio nell’ultima scadenza (2019) era rimasta “scottata” dalla firma di un altro CCNL firmato tra gli stessi  tre sindacati confederali e Federdistribuzione in dumping al suo. Contratto nazionale interamente copiato salvo nella parte economica dove sindacati e rappresentati della GDO hanno concordato un costo minore.

Un errore, pur comprensibile, per i sindacati che temevano di non riuscire a tutelare la maggioranza dei lavoratori della GDO le cui aziende avevano disdettato il CCNL firmato da Confcommercio e contemporaneamente un errore sia di Confcommercio che di Federdistribuzione che non si sono preoccupati a sufficienza delle conseguenze  che si sarebbero verificate alla scadenza né della presenza di più contratti nazionali nello stesso comparto.

Quella sottovalutazione ha prodotto due effetti dirompenti. Il primo è che diverse insegne ne hanno tratto la convinzione che, dumping per dumping, si sarebbe potuto fare di più adottando contratti ancora più laschi e meno costosi. Il secondo è che le due associazioni hanno inevitabilmente perso autorevolezza con i rispettivi associati. Un contratto nazionale non è un contratto aziendale un po’ più grande come il pennello cinghiale della famosa pubblicità. Leggi tutto “Grande Distribuzione e terziario. La firma unitaria sull’acconto economico per i lavoratori è un buon passo in avanti…”

Duemilaventicinque. Il futuro di Milano è dietro l’angolo…

 

Il 2025 è dopodomani. Ho avuto la fortuna, proprio in questi giorni, di partecipare alla presentazione di un progetto dedicato al Retail Food in MIND nell’ex area EXPO un altro tassello della Milano che verrà. Una sorta di Silicon Valley alle porte di Milano dove sta prendendo forma “un distretto che si sviluppa attorno a quattro presenze di interesse pubblico: lo Human Technopole sulle Scienze della Vita, l’ospedale dell’IRCCS Galeazzi, l’hub sociale di Fondazione Triulza e il futuro Campus scientifico dell’Università di Milano. Insieme a queste realtà trovano spazio aziende private, acceleratori d’impresa, uffici innovativi e luoghi di creatività, e ancora parchi e giardini, abitazioni e servizi – per trasformare l’area che ospitò Expo Milano 2015 in un unico ecosistema contemporaneo a misura di vita”.

Un ‘ecosistema dell’innovazione’ che coinvolge grandi aziende, piccole imprese, startup, università e centri di ricerca e vede già più di 300 attori collegati.  Mind sarà anche un’isola senza combustibili fossili, con l’efficientamento energetico e la mobilità elettrica. Le auto non circoleranno nell’intero perimetro e il materiale utilizzato per la costruzione vede il reimpiego del materiale smontato che viene riciclato. Per quanto riguarda la grande distribuzione l’unica realtà che, per ora, ha colto l’importanza di esserci è stata Esselunga sia con una Esse che con altre attività. Non dimentichiamo che a regime MIND supererà le sessantamila presenze giornaliere collocandosi come dimensione tra i primi cento comuni italiani.

Il 2025 è un anno chiave per la città. L’anno successivo ci saranno le Olimpiadi invernali e Milano deve  correre per recuperare il classico ritardo nei lavori che già nell’EXPO del 2015 ne hanno accompagnato la realizzazione. Non c’è solo MIND.

C’è  Foody dove Cesare Ferrero è stato confermato per il terzo mandato alla presidenza di Sogemi, la società di gestione dell’ortomercato di Milano controllata al 100% dal Comune proprio per portare a termine entro il 2025  il piano Foody 2025 che prevede la realizzazione del nuovo mercato ortofrutticolo (il più grande in Italia) e altri investimenti finalizzati alla realizzazione di impianti di generazione di energia con fonti rinnovabili e di piattaforme logistiche produttive al servizio del mercato.  Un piano di investimenti che permetterà di sviluppare un’area strategica per tutta la filiera agroalimentare nazionale. Progetti che riportano  in primo piano la necessità di collaborazione futura  con la Food Valley emiliana mettendo a fattor comune esperienze e opportunità di concentrazione e sviluppo nell’interesse della filiera stessa.

C’è Santa Giulia  dove è in corso la “realizzazione di uno dei progetti di rigenerazione più estesi d’Europa, nell’ambito del quale ricadono l’Arena per le Olimpiadi invernali e la nuova tranvia, concepita secondo le tecnologie più innovative e sostenibili. E dove sono previste importanti ricadute pubbliche, un parco di 350.000 mq, servizi locali, scuole dell’obbligo di ogni grado, funzioni di scala internazionale come la nuova Arena e la nuova sede del Conservatorio.” E senza dimenticare i 2100 mq a disposizione del Food District.

Anche lì, lo dico per gli amici della GDO che inseguono la prima della classe, Esselunga ci è arrivata dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, che per crescere e per entrare nel sentiment di un luogo non servono solo aperture di nuovi punti vendita di formati diversi ma è fondamentale inserirsi nei grandi progetti di cambiamento che stanno ridisegnando  il volto ad una città come Milano.

Ricerca, industria, logistica servizi vecchi e nuovi, qualità del vita sono i titoli del cambiamento in corso. L’altra sfida è ricollocare gli spazi che la vecchia Milano industriale libera, in modo intelligente, pensando al nostro futuro. L’obiettivo è di creare a Milano nuovi ecosistemi inclusivi, resilienti e capaci di attivare circuiti virtuosi.  Certo Milano non è solo questo. E tutto questo non può nascondere sotto il tappeto i problemi che attengono ai costi della città, alla sua vivibilità complessiva, alle problematiche di povertà e di integrazione che stanno crescendo soprattutto nelle periferie o nell’hinterland.

Ma resta impossibile per chiunque risolvere questa complessità se ci si concentra solo su un tassello del problema. È il filo rosso che lega la Milano che corre a quella che rischia di restare indietro che ne costituirà la cifra della sua qualità complessiva. E, della sua unicità. Ed è lì che occorre guardare. 

Esselunga e Coop Alleanza 3.0, pur in modo diverso, investono sulle loro persone

Le buone notizie passano sempre in secondo piano ma poter sottolineare che due grandi aziende della GDO investono sulle proprie risorse umane è un fatto estremamente positivo. È vero che molte insegne, ciascuna a modo suo, lo hanno sempre fatto, però Esselunga e Coop Alleanza 3.0, per la qualità dell’intervento e per la quantità di risorse messe in campo, indicano due strade molto diverse tra di loro.

La prima, Esselunga,  mette al centro sé stessa. La sua unicità, lo spirito di appartenenza. La seconda, Coop Alleanza,  mette al centro la sua cultura sociale, i suoi valori e l’importanza del coinvolgimento dei lavoratori attraverso il sindacato. Insegne storicamente sempre in competizione oggi impegnate a segnare  il nuovo campo da gioco: le risorse umane e la loro ritrovata centralità per la Grande Distribuzione. Tema tra l’altro trattato in modo completo e sotto diversi punti di vista nel recentissimo Marketing Retail Summit di Milano.
Esselunga, per dirla con il prof. Stefano Zamagni punta sul “totalismo aziendale”. In estrema sintesi, l’azienda ritiene di bastare a sé stessa. Sceglie di produrre valori, cultura, procedure e stili di management che nascono e si consolidano all’interno delle proprie mura. L’azienda di Pioltello  sta per lanciare un progetto importante che cuba dieci milioni di euro di valorizzazione e formazione delle risorse interne e che integra  l’investimento per il welfare vicino alla sede  come accennato dall’AD Marina Caprotti in una intervista al Corriere di cui ho già scritto di recente  (https://bit.ly/3xYzNbZ). Ne seguiremo certamente l’implementazione.

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