A Metà strada. Un libro da leggere di Silvio Moretti

Quando l’amico Silvio Moretti, mi ha detto di aver scritto “A metà strada”, il suo primo libro, invitandomi a leggerlo confesso che mi ha un po’ spiazzato. Il pregiudizio mi ha portato a pensare alla “solita” autobiografia.  Sindacalisti e uomini d’azienda o di associazione arrivati ad una certa età sentono quasi il dovere di raccontarsi. Silvio poi l’ho conosciuto come esperto di relazioni sindacali. Lui in FIPE io, per un certo periodo, in Confcommercio. Anche l’ultimo rinnovo del CCNL, fresco di firma, lo ha visto protagonista.

L’ambiente associativo, per chi lo conosce,  è poi un po’ ministeriale. Non ti aspetti persone e iniziative fuori dagli schemi. Il titolo del libro (A metà strada), poi, mi portava a pensare a quella terra di mezzo dove, nei negoziati sindacali, ciascuno lascia le proprie certezze per comprendere quelle di chi gli sta di fronte. Dove si cerca nell’altro, nell’interlocutore, qualcosa che si sa che ci deve essere. E alla fine lo si trova. In fondo la soddisfazione di chi fa quel mestiere è tutta lì. Lontani, a volte troppo, ma quando ci si riesce, così vicini.  E non è affatto poco.  Quando ho capito che il libro trattava tutt’altre vicinanze, forse per cortesia nei suoi confronti o forse per curiosità gli ho garantito la lettura.

La quarta di copertina non lasciava dubbi sull’argomento. È la storia di un figlio e di un padre che non c’è più ma che, pur a suo modo, continua ad esserci. La storia di un legame che riesce a superare la morte. L’argomento non poteva lasciarmi indifferente. Ho spesso pensato come sarebbe stata la mia vita se non avessi perso, giovanissimo, mio padre. Tra l’altro anche lui molto giovane. Se l’avessi avuto con me quando ne avevo più bisogno. Se, nonostante la sua assenza, mi sarebbe piaciuto incontrarlo, almeno  una volta, per raccontargli cosa ho combinato della mia vita. E se lui, che la morte gli ha impedito di vedermi crescere, avesse voluto sentirselo raccontare.

Silvio nel suo libro racconta che, per i personaggi da lui creati con la delicatezza di cui è stato capace, tutto questo, in qualche modo, è stato possibile. Un incontro caratterizzato da sensazioni, vibrazioni, interlocuzioni che, pur evidentemente a senso unico, riescono a raggiungere il cuore dell’altro. Un padre assente nel rapporto con suo figlio, perché troppo concentrato su di sé da vivo, che si gode finalmente il figlio e la sua vita, anche se morto. E un figlio che ha la sensazione che i suoi monologhi con il padre quando è in affanno, per le vicissitudini della vita, in qualche modo raggiungano  il loro scopo.

Bastano poche pagine per entrare nella storia. Devo ammettere che ho letto il libro tutto di un fiato. E devo ringraziare Silvio per come è riuscito a raccontare una vita, quella del protagonista, riuscendo a restituire a ciascuno ciò che la morte in parte aveva loro tolto e al lettore un approccio delicato che tocca corde sensibili, dense di significato.

Buon 25 aprile!

Ho scoperto, quasi per caso, che il cugino di mia madre, che sapevo essere morto da partigiano, fu un eroe della resistenza romana.

Questa storia è riemersa grazie alla storica Stefania Ficacci e alle donne del Quadraro, delle Fosse Ardeatine, della Garbatella che l’hanno tramandata con i loro racconti. Il Parco dedicato a Giordano Sangalli ha un legame molto forte con gli anni della Resistenza e della lotta di liberazione. Me ne aveva parlato mio nonno di questo giovane coetaneo di mia madre che con gli zii si era trasferito a Roma da piccolo. Anni durissimi. Era un po’ nei suoi racconti, da vecchio socialista, l’eroe di casa. Allora la Resistenza non era, come oggi, un ricordo lontano.

Si sapeva che Giordano aveva fatto il partigiano come tanti altri ragazzi di quell’età ma nessuno sapeva come era morto, né dove, fino a quando l’ANPI sulla fine degli anni 50 del secolo scorso inviò a mio nonno la tessera ad honorem, senza particolari commenti, che finì tra le vecchie foto di famiglia. Racconti familiari a parte e mancati prima mio nonno e poi mia madre, la vicenda del giovane Giordano venne piano piano dimenticata in famiglia.

Nel frattempo a Roma negli anni del dopoguerra intorno ad un piccolo campo da calcio di periferia si tenevano dei derby molto accesi, come quello tra la squadra del Tor Pignattara e il Chinotto Neri, grandi sfide, del resto anche lo sport partecipava al senso di libertà di allora. Questo campo veniva chiamato dai ragazzi del quartiere il “campetto Sangalli”. Quando è stato poi restaurato il parco, nel 2009, il giardino, situato nei pressi di Largo Raffaele Pettazzoni e attraversato dall’Acquedotto Alessandrino, è stato deciso di intitolarlo proprio al giovane Sangalli. Nel frattempo la storia di Giordano qui a Milano è stata completamente dimenticata. Mi successe però un fatto strano.

Mettendo a posto le fotografie di famiglia ho ritrovato in un cassetto la sua tessera dell’ANPI e vagamente mi sono ritornati in mente i racconti di mio nonno e mia madre di quando ero ragazzo. Una storia ormai lontana. Digito quasi per caso “Giordano Sangalli” in rete e entrò in contatto con un altro mondo. Scopro che Nikolay Pavlyuchkov un figlio di immigrati russi sotto la supervisione del fumettista Alessio Spataro per la Scuola Popolare di Tor Pignattara, ha disegnato un racconto con la storia di un giovanissimo partigiano di Tor Pignattara morto a 17 anni sul monte Tancia. È lì che è nato il fumetto su Sangalli. Leggi tutto “Buon 25 aprile!”

La crisi in Ucraina spiegata in breve… per gentile concessione di Valerio Ricci

In Ucraina ho vissuto quattro mesi meravigliosi, a cavallo fra il 2009 e il 2010, viaggiando in lungo e largo per il paese per motivi di lavoro, finendo poi col trascorrere un’estate splendida in Crimea. Nei miei spostamenti, mi rendevo sempre conto che quel paese aveva (ed ha) due anime, distinte, separate fondamentalmente dal corso di un fiume, il Dniepr. Un’anima russa, propriamente russa, di ucraini che parlano russo, che sono di religione ortodossa e che  sono eredi di quella cultura del Don che non ha mai conosciuto un confine reale fra Russia e Ucraina. Faccio notare che in russo la parola stessa У-край на vuol dire : presso/lungo i confini.

L’altra anima del paese è invece propriamente slava e mitteleuropea, direi quasi asburgica, considerato che a Leopoli furono incoronati ben due imperatori della casata imperiale austriaca. La Galizia, i Carpazi, tutti i territori fra Polonia e Ucraina esprimono infatti una cultura diversa, fondamentalmente cattolici, si parla ucraino, si avverte da secoli, la Russia, come un vicino ingombrante.

In effetti anche se si guarda la mappa dell’Europa, si nota che l’Ucraina ha la forma di un ponte. Ora questo essere ponte fra due mondi, che ha sempre trovato in Kiev, la bellissima capitale,  la sua sintesi ideale, invece di divenire un vantaggio strategico per il paese, è diventato nel tempo la sua grande tara.

Come si è arrivati a questa polarizzazione drammatica?

Facciamo un passo indietro: fine dell’URSS, nascono, nelle repubbliche dell’ex impero, le pseudo-monarchie dei Lukashenko (Bielorussia), degli Aleev (Azerbaijan), dei Nazarbayev (Kazakistan) etc etc.. A Kiev si instaura un governo di incapaci attaccato alla tetta russa, che però di latte, all’indomani del crollo sovietico, ne ha ben poco. Il paese si impoverisce, le infrastrutture non reggono, la gente scende finalmente in piazza chiedendo rinnovamento. Sono i giorni di speranza della rivoluzione arancione, la rivoluzione di Maidan, la grande piazza che si apre sul Kreshatik, la via principale della capitale.

La rivoluzione riesce, il governo in carica di dimette, le elezioni vengono vinte da Victor Yushenko, professore, scacchista, persona onesta, ma pessimo politico, e soprattutto, amministratore incapace. Fra i tanti errori di Yushenko c’è quello di mettersi vicino una pasionaria fascistoide, Yulia Timoshenko, che contribuirà non poco ad avvelenare l’aria del paese. Il governo Yushenko non funziona, la grivna crolla, la gente continua ad impoverirsi, le grandi speranze rimangono disilluse.

Si torna a votare e questa volta, l’esito del voto premia un altro Victor, Yanukovich, espressione della parte russofona e russofila del paese, fra cui il Donbass appunto, essendo lui stesso nato a Donetsk. Ex malavitoso, uomo controllato dal FSB, estremamente corrotto.

È l’anno in cui arrivo a Kiev. Il mio autista è anche un musicista, per la precisione oboista della filarmonica di stato. La quale filarmonica, ogni giovedì, va in casa di Yanukovich, un enorme villa sopra l’Arsenalnaya, a suonare per ialle feste del presidente.

Si ferma l’occidentalizzazione del paese, ci si riavvicina alla Russia.

Tuttavia alcuni impegni come i colloqui per una preadesione all’UE erano stati già presi dal governo precedente. Yanukovich stoppa tutto. Questo scatena la rabbia delle generazioni più giovani e della parte del paese ad occidente del Dniepr. Yanukovich viene rimosso con la forza, da frange organizzatissime dietro le quali fra gli altri c’è la stessa Timoshenko. Ma Yanukovich era stato eletto democraticamente e quella parte del paese che lo aveva eletto, non ci sta.

E’ la contro-rivolta, vengono occupati i municipi di Lugansk, Donetsk, Sebastopoli..  E in questa fase, Il nuovo governo di Kiev non trova di meglio che inviare in quelle zone i carri armati. Contro una parte del proprio popolo. Un’assurdita’. La Russia manda i rinforzi tecnici e paramilitari che l’esercito ucraino non ha la forza di sconfiggere. Putin vede un’occasione unica e si prende la Crimea, senza sparare un colpo.
La situazione si cristallizza e questo status quo viene sancito internazionalmente dagli accordi di Minsk nel 2014.

Considerazioni finali: nelle situazioni così complesse il male e il bene, la ragione e il torto non stanno mai da una parte sola.
La NATO non può pensare di bussare alla porta di territori e paesi che sono al confine dello spazio strategico vitale della Federazione Russa. Ne’ può giustificare la sua esistenza con il solo spauracchio della russofobia.
La Federazione Russa non può pensare di violare la sovranità di paesi che sono comunque paesi terzi e indipendenti, ne’ può continuare ad inquinare il processo di integrazione europeo (l’unico argomento che vede convergere gli interessi russi e americani).

Si può ammettere che l’Ucraina non entri mai nella NATO ma non si può costringere nessuno a firmare un accordo scritto sulla testa di uno stato terzo, come vorrebbero i russi.

Gli USA non possono forzare la mano senza capire che i rapporti geopolitici fra Russia e Europa sono molto più complessi e interconnessi di quello che gli americani stessi vorrebbero. A 6000 km di distanza se ne fottono. Per loro l’energia non è un problema, per noi si.

L’Europa dovrà parlare con una voce sola, e dovrà mediare. Ne va del suo, pardon, del nostro futuro. Il resto lo leggeremo sui giornali….

L’ANNO DEL NOSTRO SCONTENTO di Giovanni Cominelli

Infelicità pubblica e infelicità privata 

Il calendario è spietato, non concede tregue. Così, sospinti verso la fine del 2019, siamo costretti ai bilanci di fine anno. Ciascuno compila il proprio. Nonostante le apparenze, c’è osmosi tra i due vasi: quello delle fortune private e quello delle fortune pubbliche.

Difficile sentire il vento in poppa per la propria privata barchetta, se ci si trova in una palude pubblica non sfiorata da alito di vento. Difficile immaginarsi un futuro individuale in un Paese che guarda all’indietro. Impossibile una felicità privata, se esiste una vasta infelicità pubblica.

La fenomenologia di quest’ultima è piuttosto vasta. L’ultimo Rapporto Censis la descrive compiutamente. Il governo è tenuto su dalle proprie debolezze, sta in piedi solo perché non sa che da parte cadere. Non ha né programma né prospettive. Aumenta la massa degli scontenti, mentre ben il 42% degli interpellati dichiara che si asterrebbe alle prossime elezioni. Come ha ripetutamente segnalato Nando Pagnoncelli, chi, godendo del 30% dei voti, parla a nome degli Italiani, ne rappresenta, in realtà, solo il 18%. E così via in discesa per chi dispone di percentuali più basse…

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È proibito – poesia di Alfredo Cuervo Barrero

È proibito piangere senza imparare,
svegliarti la mattina senza sapere che fare, avere paura dei tuoi ricordi.
È proibito non sorridere ai problemi,
non lottare per quello in cui credi
e desistere, per paura.
Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà.
È proibito non dimostrare il tuo amore,
fare pagare agli altri i tuoi malumori.
È proibito abbandonare i tuoi amici,
non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto
e chiamarli solo quando ne hai bisogno.
È proibito non essere te stesso davanti alla gente, fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.
È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.
È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perche’ le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
Dimenticare il passato e farlo scontare al presente.
È proibito non cercare di comprendere le persone,
pensare che le loro vite valgono meno della tua,
non credere che ciascuno tiene il proprio cammino
nelle proprie mani.
È proibito non creare la tua storia,
non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te,
non comprendere che cio’ che la vita ti dona,
allo stesso modo te lo puo’ togliere.
È proibito non cercare la tua felicita’,
non vivere la tua vita pensando positivo,
non pensare che possiamo solo migliorare,
non sentire che, senza di te,
questo mondo non sarebbe lo stesso.
non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso.

Ho letto “Contrordine Compagni” di Marco Bentivogli

Marco Bentivogli è un sindacalista serio, ottimista e lungimirante. È nato e cresciuto nei metalmeccanici della CISL. Intransigente sui valori, aperto, curioso e impegnato sui temi dell’innovazione tecnologica e sociale.  Negoziatore intelligente, Bentivogli non nasce a caso nella CISL.

È figlio d’arte. È un prodotto di quella cultura, la respira e la riproduce rappresentando un segnale della volontà e della capacità di rinnovamento dello stesso sindacalismo confederale.  È contemporaneamente punto di arrivo  di una storia importante ma anche di possibile ripartenza.

L’errore che si sta commettendo da più parti  è di contrapporlo pregiudizialmente a Maurizio Landini. Bentivogli è rappresentato come il sindacalista moderato, amico delle imprese, Landini come quello intransigente, amico dei lavoratori. Niente di più sbagliato.

Sono entrambi sindacalisti prodotti originali delle loro esperienze personali. Il primo, avendo capito che la persona è il fulcro nel processo di cambiamento in corso nell’impresa e nel lavoro vede una grande opportunità per il sindacato e la gioca in prima persona in campo aperto. Il secondo coglie anch’esso i rischi di questi cambiamenti epocali ma sceglie di attrezzarsi per difendersi dalle conseguenze percorrendo strade più tradizionali. Almeno per il momento. Leggi tutto “Ho letto “Contrordine Compagni” di Marco Bentivogli”

Comanda chi può, obbedisce chi vuole….

Da il Sestante sito web di cultura e società.

LEONARDO SCIASCIA: ‘IL VERO ITALIANO E’ DON ABBONDIO’
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L’unico che ne esca bene è lui, Don Abbondio. L’unico che incarni la vera anima italiana, il pavido e prono servitore del potente di turno, indifferente alla sua provenienza e al suo casato, è lui.

Non avrà mai tramonto la grandezza e l’intima cifra di questa figura romanzesca, specchio e verità di un carattere, di un’anima, di secoli di storia sociale e politica nostrana.

Quell’umano silente che subisce e accomoda le cose, che ne accetta i dettami purché non portino scompiglio al suo angolino privato, che li gestisce nel taciuto dei suoi adempimenti purché questi non creino pericoli, insidie, trucchi; che vive insomma in omertoso assolvimento dei suoi modesti doveri e alla fine, quali che siano le sponde a cui deve pronarsi, ne esce sempre salvo e come incontaminato.

Perché i veri potenti, ci dice Sciascia, sono quei manutengoli che coltivano l’ordine che viene dall’alto nelle sue maglie intatte, senza disturbi o scossoni, onorandolo e tenendolo saldo con l’eterna arte del servilismo.
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Il futuro del lavoro spiegato a mia figlia di Pino Mercuri

Con Pino Mercuri non condivido la città di nascita ma “condivido” il quartiere. Io a Milano lui a Roma. Entrambi cresciuti  in un quartiere popolare dove la famiglia, l’oratorio e gli amici hanno avuto un peso importante nella crescita personale di molti.

Entrambi DHR, pur di generazioni diverse, entrambi convinti che non esistono competenze astratte di mestiere se slegate dalla capacità di  relazionarsi con le persone, di motivarsi e di motivare e quindi di affrontare il cambiamento continuo con l’apertura mentale di un bambino.

Il suo primo libro (Il futuro del lavoro spiegato a mia figlia ed. Licosia) parla di questo. Non solo e non tanto di tecnologie pur trattate in modo semplice ed efficace ma di come aprirsi alle novità e viverle come opportunità.

L’azienda nella quale Pino lavora si presta molto. In Microsoft si respira un cultura del lavoro aperta e in grado di accompagnare l’offerta di prodotti tecnologici. Il nuovo Amministratore Delegato, Silvia Candiani, rappresenta un valore aggiunto perché ha, essa stessa, una visione del lavoro che mette al centro il merito, l’innovazione, il contributo individuale al risultato aziendale.

Un punto di riferimento importante per chi, come Pino, si occupa di persone, della loro valorizzazione e del loro engagement. Non è facile spiegare ai propri figli cos’è il lavoro. Il proprio, innanzitutto,  così com’è oggi, e le traiettorie che prenderà nei prossimi anni. Pino Mercuri ci riesce molto bene soprattutto perché vive il cambiamento che coinvolge anche il suo lavoro di DHR come un’opportunità. Non con preoccupazione.

Un lavoro che perderà sempre più la necessità di avere luoghi dedicati e tempi predefiniti, dove sarà  il contributo individuale  alla realizzazione degli obiettivi e al risultato a definire le contropartite e dove il percorso professionale sarà costituito da un patchwork di attività e momenti diversi che necessiteranno di un welfare nuovo e specifico.

Dove i percorsi di formazione continua supporteranno i continui cambiamenti richiesti, dove retribuzione,  diritti, doveri, tutele e contenuti si disegneranno sempre più sulla persona nell’arco della sua vita lavorativa. Certo non ci saranno solo lavori ad alto contenuto professionale quindi occorrerà riflettere su come creare lavoro, distribuirlo e riconoscerlo.

Spiegarlo a dei giovanissimi che cominciano già in tenera età  ad utilizzare quelli che saranno i loro futuri strumenti di lavoro, spiegare loro gerarchie e strutture, ambienti e contenuti non è una cosa semplice.

Pino Mercuri è però riuscito a raccontare a sua figlia che il lavoro è cultura, rapporto con gli altri, creatività, impegno, dignità, gioco di squadra. E che la tecnologia non toglie nulla di tutto questo ma, al contrario, esalta ancora di più la necessità che sia la persona, i suoi valori, le sue aspettative ad essere posta al centro di questo cambiamento epocale. Per questo ne consiglio la lettura. 

In ricordo di un grande sindacalista: Pierre Carniti. Di Sandro Antoniazzi

 

Carniti è stato un grande sindacalista, in una grande epoca storica del sindacato.
Ogni grande sindacalista ha propri caratteri e propri meriti che è bene ricordare.

Carniti era un atipico, un eterodosso, uno fuori da ogni schema. In un periodo di tempo fortemente ideologico e politicizzato, dove ognuno veniva classificato per la sua provenienza e appartenenza, Carniti era indefinibile. Era il cruccio dei comunisti che, considerandosi i veri interpreti della classe operaia di cui conoscevano l’ortodossia e tutte le possibili deviazioni da questa, non riuscivano a collocarlo; varie volte hanno tentato di definire la FIM di Carniti come pansindacalista, anarco-sindacalista o altri vocaboli del genere, senza cogliere il vero carattere di questo strano e originale sindacato.

La FIM di Milano e quelle altre vicine che poi formarono la nuova FIM nazionale rappresentavano un caso raro; costituivano un esempio rarissimo di “sinistra sindacale”. C’è tanta sinistra nel sindacato e tanti sindacati di sinistra nel mondo, ma si tratta praticamente sempre di una sinistra politica che opera nel sindacato. La sinistra sindacale è un’altra cosa: parte dai problemi dei lavoratori e con essi agisce e lotta per cambiare la loro condizione. Per trovare qualcosa del genere penso che occorra risalire alle origini del sindacato.

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Il nuovo che avanza…

Pensioni, reddito di cittadinanza, precarietà e crisi aziendali. Il nuovo Governo entra in campo sul lavoro non già come arbitro per mediare tra posizioni altrui ma come protagonista. Probabilmente ascolterà i sindacati che saranno costretti ad aggiornare velocemente le loro rivendicazioni così come le organizzazioni di rappresentanza che, in ordine sparso, cercheranno di non vedersi esautorati delle loro materie specifiche e di non vedersi addebitati un costo insostenibile. Ma questo non basta.

I problemi  legati al lavoro rischiano di non essere più in carico alle parti sociali. Almeno fino a quando non finirà la fase della propaganda e della mediatizzazione legata alla coerenza o meno al “contratto di governo”. Le macchine organizzative dei corpi sociali sono decisamente ingolfate strette da una diffidenza reciproca derivata dalla concorrenza tra di loro accentuatasi sulla fine del 900 e dal desiderio di smarcarsi in solitaria dall’accusa di non essere in grado di “capire il nuovo e guidare il cambiamento”.

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