Grande Distribuzione e logistica. Il dovere di ricostruire una credibilità reciproca.

Nell’atto prodotto dai Pubblici Ministeri milanesi Marcello Viola e Paolo Storari c’è un lungo elenco di indagini dello stesso genere che hanno portato a sequestri e iniziative giudiziarie nei confronti di aziende della logistica, della grande distribuzione, del facchinaggio e anche della vigilanza privata, tra cui diversi colossi nei rispettivi settori. L’obiettivo contestato a numerose società, è di aver costituito o utilizzato  false cooperative e società schermo per sottopagare il personale della logistica, non aver versato interamente i contributi sociali dovuti ed aver evaso il fisco grazie anche a un “fraudolento giro di fatture false”.

Nell’ultimo caso che ha coinvolto GS-Carrefour, secondo il procuratore Marcello Viola,  sarebbe stato rilevato che i rapporti di lavoro con GS “sono stati ‘schermati’ da società ‘filtro’ che a loro volta si sono avvalse di diverse società cooperative (società ‘serbatoio’), che hanno sistematicamente omesso il versamento dell’IVA, nonché degli oneri di natura previdenziale e assistenziale” ai lavoratori. Una cosa ovviamente gravissima se dimostrata in questi termini.

Quello che, solo il processo potrà accertare, è il grado di coinvolgimento e di responsabilità reale del committente nelle contestazioni. Ho già avuto modo di scriverlo. Con le tensioni della logistica in rapporto alla GDO  ho avuto a che fare fin dal 2005. Sono passati quasi vent’anni. Ed è cambiato poco. Non ricordo la quantità di notti passate a Lacchiarella per certificare  che alcune cooperative con cui avevamo un rapporto, che per noi era assolutamente corretto, sostituissero lavoratori regolari contrattualizzati e certificati con irregolari in nero dopo una certa ora. Cercando di operare a totale insaputa dell’azienda committente con lo scopo evidente di risparmiare sui costi della mano d’opera. La mia cautela di giudizio nasce da qui.

Ci sono responsabilità soggettive e precise che vanno dimostrate. Dire assolute banalità come: ”Non potevano non sapere”, significa non avere nessuna contezza della natura del  fenomeno. E soprattutto di come spesso funzionano gli appalti nella logistica.  Secondo la ricostruzione tra il 2018 e il 2022, in particolare, GS spa avrebbe “fatto largo ricorso all’esternalizzazione dei servizi di logistica, movimentazione merci, facchinaggio e trasporto”.

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Grande distribuzione tedesca. In Assia tutti i negozi devono restare chiusi la domenica. Il caso Tegut.

Premesso che il riposo dei robot non c’entra nulla. Che si tratti di negozi robotizzati o con personale umano, la maggior parte degli esercizi commerciali in Germania deve essere chiusa la domenica. La “sonntagsruhe” (il riposo domenicale) deve essere rispettata anche se, quel giorno,  non ci sono lavoratori in servizio.  Tre giudici del il tribunale amministrativo dell’Assia hanno confermato questo divieto. Per loro il piccolo self-service si qualifica come “negozio” e quindi,  secondo la legge tedesca, deve rispettare la legislazione sugli orari di apertura e di chiusura. Pur valendo solo per l’Assia è una sentenza che fa riflettere.

Stiamo parlando della principale regione finanziaria dell’Europa continentale. Uno dei Land più prosperi della Germania. Negli ultimi tre decenni, la Germania aveva già abbandonato la maggior parte delle restrizioni che, fino al 1996, costringevano i negozi a chiudere alle 18.30 nei giorni feriali. Il divieto domenicale, tuttavia, è stato mantenuto in vigore per la maggior parte delle aziende, ad eccezione di ristoranti, stazioni di servizio, chioschi e farmacie. Altre insegne in altri land hanno  aggirato il divieto proprio con i chioschi. (vedi articolo su Rewe). In Assia, no.

Il divieto al lavoro domenicale in Germania  risale a  più di 1.700 anni fa ed è stato decretato dall’imperatore romano Costantino il Grande. Il riposo domenicale  è poi stato sancito nella costituzione tedesca dal 1919 ed è stato confermato dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 2009. Su questo tema si sono trovati in sintonia sia le Chiese protestante che quelle cattoliche  insieme ai sindacati tedeschi del commercio (la Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft (“Unione dei sindacati del settore dei servizi”), abbreviata in VER.DI, l’equivalente dei nostri tre sindacati di settore (Filcams-Uiltucs e Fisascat). Circa 2 milioni di iscritti. Più del triplo dei nostri messi insieme. VER.DI è il secondo sindacato più grande della Germania dopo l’IG Metall (metalmeccanici). Un’insolita alleanza per impedire le   aperture domenicali in generale,  non solo dei negozi automatici. A marzo, l’alleanza ha addirittura incoraggiato i pastori a criticare, nei loro sermoni settimanali, le paventate aperture  in un Paese in cui l’appartenenza alla chiesa è diminuita di un quarto negli ultimi due decenni e solo un cittadino su 20 partecipa alla messa domenicale.

È  probabile che entro pochi mesi la sentenza del TAR  del land dell’Assia venga riformata e il divieto al lavoro domenicale, almeno nei negozi automatici,  sia destinato a rientrare. “La legge attuale è completamente in contrasto con la realtà della vita di oggi”, ha detto Stefan Naas, capo del gruppo parlamentare liberale FDP in Assia che si sta muovendo per aggirare la normativa. La battaglia legale è stata innescata dal sindacato tedesco del settore dei servizi Verdi dopo l’apertura del primo negozio automatizzato a Fulda quattro anni fa. Il sindacato si oppone allo shopping domenicale, sostenendo che il personale di vendita al dettaglio, che deve già fare i conti con orari di lavoro altamente flessibili durante il resto della settimana, ha bisogno della domenica come giorno libero garantito per trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici.
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Riprendere un confronto di Filiera con l’obiettivo di tutelare i consumi.

Un incontro interessante quello proposto da IBC, Associazione Industrie Beni di Consumo che riunisce aziende attive in Italia e all’estero nei settori alimentare, bevande, prodotti per la cura dell’ambiente domestico e della persona, tessile e abbigliamento, arredo, prodotti e accessori per la casa. Oltre 35.000 imprese che generano un fatturato al consumo stimato di circa 450 miliardi di euro. Il numero di occupati (28% del totale dell’industria in senso stretto) è pari a 1,1 milioni, di cui 495 mila nel comparto grocery.

Marta Dassù, senior advisor for European affairs di The Aspen Institute e Veronica De Romanis, docente di European Economics all’Università Luiss,  hanno proposto approfondimenti sul quadro geopolitico ed economico. È toccato all’economista  Veronica De Romanis spiegare il contesto e i margini di manovra per il nostro Paese che restano molto stretti. Una crescita che rallenta e una spesa, per interessi sul debito, che è passata dai 63 Mdi (2021) ai 130 previsti per il 2026 secondo il Nadef. Una cifra enorme se si pensa che spendiamo 70 mdi per la scuola e 130 per la sanità. Due assolute priorità per il Paese.

Flavio Ferretti Presidente Ibc ha giustamente sottolineato che “da una parte la volatilità dei costi dovuta all’incertezza del quadro geopolitico-economico e la debolezza del potere d’acquisto delle famiglie. Dall’altra la difesa dei margini e l’esigenza di continuare a investire nella digitalizzazione e nello sviluppo sostenibile” rendono necessarie politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività, lo sviluppo dimensionale delle aziende, gli investimenti nel digital e per la sostenibilità”. E ha ribadito che: “centrale è il rilancio del tavolo di filiera creato lo scorso autunno. Adesso è indispensabile entrare rapidamente nel merito dei problemi, analizzando le dinamiche e individuando le soluzioni migliori per sostenere e rafforzare la competitività delle nostre imprese a beneficio della crescita e della creazione di benessere nel Paese”.

Le azioni, individuate sulla base di una gap analysis svolta dal Politecnico di Milano e condivise con Assologistica, sono ripartite in tre ampi capitoli d’intervento:

• Normative. In quest’area rientrano: la semplificazione urgente degli iter autorizzativi per la realizzazione di nuove infrastrutture logistiche, l’armonizzazione delle normative locali e la semplificazione dei processi doganali. I contratti di lavoro dovrebbero evolvere per favorire la flessibilità, le assunzioni e garantire il pieno rispetto delle regole a tutela dei lavoratori.

. Digitale. La digitalizzazione avrebbe effetti positivi sulla trasparenza della filiera, sulla concorrenza, sul dialogo telematico tra imprese e sullo svolgimento dei controlli delle autorità competenti. La dematerializzazione dei documenti è considerata un fattore decisivo per la riduzione dei costi. Oggi il 30% delle aziende è concentrato sulla digitalizzazione dei processi e delle documentazioni, manca ancora, tuttavia, un commitment pubblico che acceleri il cambiamento. Per esempio, promuovendo l’automazione dei centri distributivi.

• Filiera. Ibc sta intensificando la sua azione sugli associati per favorire l’adozione su vasta scala delle soluzioni e dei progetti messi a punto congiuntamente dalle imprese industriali e distributive nell’ambito di GS1 Italy ed Ecr Italia. Negli ultimi dieci anni l’impegno delle imprese del largo consumo nell’ottimizzare e migliorare la logistica ha prodotto: miglioramenti per un valore di circa 160 milioni di euro; 450.000 viaggi evitati ogni anno grazie all’incremento delle unità di carico intere, della saturazione dei mezzi e della percentuale di bilici usati; una riduzione di 97.000 tonnellate di CO2 l’anno. Tra gli obiettivi prioritari GS1 Italy ha identificato l’ottimizzazione delle consegne attraverso attività che vanno dall’adozione di un servizio di Digital Proof of Delivery e della consegna certificata, all’allargamento delle finestre di carico e scarico, alla revisione dei sistemi di prenotazione.

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Contratto Nazionale Distribuzione Moderna. Occorre uscire dall’angolo

L’uscita di Lidl da Federdistribuzione si era consumata da pochi minuti che già si è rimessa in moto la manfrina sulle responsabilità della situazione. Mentre il sindacato di categoria ribadisce la “distanza incolmabile” proclamando nuovi scioperi, Federdistribuzione sottolinea in un comunicato  di “avere già espresso la propria disponibilità a riprendere la trattativa ribadendo  che la propria posizione negoziale è sempre stata costruttiva”.  Così però non se ne esce.

L’occasione di questo  rinnovo avrebbe dovuto confermare un momento di convergenza, di unità e di rilancio dell’intera GDO  sul piano politico e sociale pur essendo ancora “dispersa” in ben quattro contratti nazionali. Ci hanno provato Confcommercio e Confesercenti procedendo appaiate fino alla meta, ci ha rinunciato, purtroppo,  Federdistribuzione.  La cooperazione, considerato il contesto, si è intelligentemente  smarcata riuscendo  comunque a realizzare un contratto dignitoso nonostante ci sia da sempre chi  cerca di tenerla ai margini di un percorso unitario per la sua cultura costitutiva. Un errore grave, visti i tempi, le problematiche gestionali e di mercato,  ormai comuni.

Se consideriamo  una sostanziale condivisione e integrazione del welfare già in atto tra le aziende che fanno capo a Confcommercio e quelle che fanno capo a Federdistribuzione (welfare sanitario,  Quadrifor e Previdenza) il processo di avvicinamento avrebbe potuto continuare sul salario e, appunto, sul welfare, gestiti a livello confederale,  e un sottostante specifico gestito dalle diverse associazioni presenti nei  singoli comparti stessi che, nel terziario, sono vari e molto diversi tra di loro. Per fare questo sarebbe stata necessaria una visione e un gruppo dirigente sia in Confcommercio che in Federdistribuzione che sapesse andare oltre l’orizzonte delle rispettive appartenenze con disponibilità e generosità.  Inutile sottolineare che alcune centrali di acquisto della GDO hanno al proprio interno insegne che applicano contratti di lavoro dell’una o dell’altra associazione senza particolari problemi. Alcune altre, addirittura, accettano, al loro interno,  contratti nazionali costruiti localmente su misura…

In fondo l’entrata di Conad in Confcommercio con la vice presidenza a Francesco Pugliese e l’elezione di Carlo Alberto Buttarelli in Federdistribuzione avevano fatto pensare che i tempi di una convergenza, utile all’intero comparto, fossero ormai maturi. Quasi tutte le grandi insegne, in via riservata, mi avevano confermato questa precisa volontà di puntare ad una prospettiva di riunificazione associativa della GDO. E se questo ha funzionato con l’interlocuzione unitaria su altri temi (vedi ADM) e con il Governo, sull’inflazione,  non è riuscita a decollare sul piano della strategia sociale per la mancanza di lucidità di un intero gruppo dirigente sulla materia che ha preferito continuare a ritenere il sindacato di categoria come un semplice portatore di costi e le relazioni industriali come un “derivato inevitabile”  della gestione del personale delle singole aziende.  Non come un tassello di un contesto  complessivo che andava mutando. 

Lidl ci ha messo poco a capire la fragilità e la complessità decisionale di Federdistribuzione. È bastato ascoltare  i CEO delle diverse insegne quando si  misurano  sul lavoro, sul sindacato, sulle prospettive nel comparto  e ha preferito andarsene. Conad, in Confcommercio, vive più o meno la stessa situazione da separato in casa. La differenza è che Conad era ed è più “strutturata” e autonoma  sul piano politico, più considerata in Confederazione per il suo peso a livello locale e quindi più abituata ad assorbire le contraddizioni di un mondo che vuole associare le imprese ma non ne apprezza il protagonismo. Come ho già scritto un contratto nazionale richiede capacità di sintesi complesse.  Non è un contratto aziendale un po’ più grande per cui è sufficiente la competenza dei pur bravi direttori risorse umane. Serve una visione politica complessiva e la conseguente capacità di operare sintesi autorevoli nei passaggi chiave. Altrimenti si pesta l’acqua nel mortaio. Soprattutto non  possono prevalere le tattiche  di singole realtà sugli interessi complessivi dell’associazione.

Federdistribuzione non ha torto quando rivendica  una “distintività” del suo CCNL.  Il suo comitato lavoro (composto  dagli HR)  ha però avuto cinque anni per costruirla e non ha fatto  nulla. Per questo passa dalla parte del torto quando la pretende oggi dal sindacato  senza voler concedere nulla sui temi socialmente sensibili. Così facendo dimostra che non c’è né la volontà condivisa né la capacità di sintesi  politica per chiudere un  contratto nazionale veramente “distintivo” per ENTRAMBE le parti. Scambiare  l’innovazione necessaria con il proprio punto di vista è un po’ poco di questi tempi. In più  deve gestire la contraddizione tra le insegne più impegnate sul fronte dello sviluppo delle loro risorse umane con l’ossessione di altre che vogliono utilizzare la sponda del CCNL per evitare di dover dare risposte nel loro specifico organizzativo, dal franchising al lavoro povero indotto dal part time involontario, alle declaratorie liberamente interpretate fino ai sub, sub appalti. Ed è questo  che ha neutralizzato qualsiasi velleità nel definire una “distintività” condivisa con le organizzazioni sindacali.  Ancora di più, in questa situazione dove,  l’aspetto economico,  è già stato di fatto, individuato da Confcommercio e Confesercenti e condiviso nelle dichiarazioni ufficiali da Federdistribuzione.  Un’impasse nella quale non sarà facile districarsi senza un deciso passo indietro. Come peraltro ha fatto Confcommercio.

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Grande Distribuzione. Famila (Selex) prova a crescere con ritmo…

Spero venga colto anche da altre insegne della GDO alla ricerca di pubblicità particolarmente distintive. Tra quelle cervellotiche che vogliono veicolare messaggi universali, quelle un po’ banalotte che inneggiano al prezzo che più basso non si può, finalmente Selex dopo aver proposto spot ansiogeni in tempi di inflazione, sceglie la leggerezza. C’è troppa pesantezza in giro.

Se anche il piacere di fare la spesa scompare perché siamo costretti ad  una specie di “caccia al tesoro” alla ricerca della convenienza tra facce cupe, uomini mascherati e ragionieri  barbuti ossessionati dal risparmio, è proprio finita. Almeno i discount giocano sulla concessione della patente di  intelligenza ai loro frequentatori, sulla qualità da provare della loro MDD o sulla “Buona Spesa”. Da semplice consumatore che  non ama perdere tempo per fare la spesa preferisco luoghi semplici, trasparenti nelle loro politiche commerciali, con personale disponibile e messaggi positivi.

Famila ha scelto di portare un po’ di  ritmo nei suoi supermercati con “We are Famila – Tutta un’altra musica” (il nuovo spot) adattando  un brano di successo del 1979 delle Sister Sledge. In fondo dopo la pandemia, l’inflazione, la guerra ai confini e i conti che non tornano se anche il semplice entrare in un supermercato diventa un’impresa complicata e dispensatrice d’ansia non se ne può proprio più. In questo spot  nelle corsie, i clienti, diversi per età, etnia, orientamento, genere e comportamento ballano e cantano. Sono sereni.  La spesa può ritornare quindi  ad essere un piacere quotidiano. Almeno nelle intenzioni.

La nuova comunicazione porta la firma creativa del Collettivo +m, con la direzione di Giovanni Bedeschi e la casa di produzione Bedeschi Film. La pianificazione è stata seguita da Geotag Milano. “Famila ha incrementato il budget pubblicitario rispetto agli anni precedenti, arrivando a circa 3-4 milioni di euro. Noi, come Selex, stiamo invece investendo circa 12 milioni di euro complessivi in comunicazione su vari canali” ha dichiarato Massimo Baggi Direttore Marketing del Gruppo Selex.

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CCNL Federdistribuzione. Il paradosso del coccodrillo

Uno storico greco antico Diogene Laerzio ci ha lasciato una delle spiegazioni più interessanti del “paradosso del mentitore”. “Sul Nilo un coccodrillo afferra un bambino che gioca sulle rive; la madre del piccolo si dispera e implora il coccodrillo di restituirle il figlio. Il  coccodrillo replica alla madre disperata: “Se indovini quello che farò, ti restituirò il bambino. Altrimenti lo mangerò”. La madre allora dice al coccodrillo: “Mangerai mio figlio”. Se la madre ha detto il vero, se ha cioè indovinato che il coccodrillo mangerà il bambino, allora in questo caso il coccodrillo dovrà restituire il bimbo. Ma se il coccodrillo restituisce il bimbo, significherebbe che non lo ha mangiato, e quindi la donna non avrebbe indovinato e non potrebbe riavere il figlio. Risultato: in tutti i casi, se la madre dice “tu lo mangerai”, non potrà mai riavere il piccolo se il coccodrillo mantiene la promessa. Né il coccodrillo può mangiarlo”.

L’Articolo 258 – condizioni di concorrenza appena firmato da Confcommercio e i sindacati di categoria fa parte di questo filone filosofico. “…Le parti condividono che gli aumenti contrattuali definiti dal CCNL Terziario, Distribuzione e servizi in quanto Contratto nazionale maggiormente applicato nell’intero settore terziario (secondo i dati dei codici contratto INPS e i dati delle iscrizioni ai fondi nazionali di assistenza sanitaria integrativa costituiti dalle parti) sottoscritto tra le parti stesse, debbano costituire una previsione non diversificabile in altri accordi collettivi di pari livello nazionale. La violazione della previsione di cui al capoverso precedente attraverso minori previsioni a valenza economica , contenuta in contratti nazionali di lavoro sottoscritti dalle parti firmatarie del suddetto contratto nazionale che insistano sulla sfera applicativa dello stesso verrà automaticamente recepita dal suddetto contratto nazionale.  Tale recepimento comporta l’interruzione delle obbligazioni retributive rimanenti in caso di maturazione parziale delle stesse fino al riallineamento ai suddetti valori”.

Questa frase è stata “imposta” da Confcommercio per evitare che il sindacato decidesse di fare “sconti” a Federdistribuzione come in passato. Ovviamente non considera che la frase stessa, proprio per le dinamiche che innesca, possa di fatto rappresentare essa stessa uno sconto in bianco sulle tranche future in caso di prolungamento sine die degli altri tavoli. Un banale autogol formale che non ci  si aspetterebbe da chi vanta la rappresentanza dell’intero terziario italiano. Mi spiego meglio.

Federdistribuzione ha deciso, dopo la rottura del tavolo da parte dei sindacati di categoria, di pagare comunque la prima tranche (delle 6 previste) nel prossimo mese di aprile (https://bit.ly/4az31yO) di ciò che prevede l’accordo firmato da Confcommercio. Lo scopo è evidente. “Convincere” i lavoratori delle insegne aderenti a Federdistribuzione della pretestuosità della proclamazione dello sciopero e che la rottura non è causata dalla rigidità delle insegne ma dai sindacati di categoria. Mossa sgradevole vista dai sindacati ma  assolutamente legittima. Leggi tutto “CCNL Federdistribuzione. Il paradosso del coccodrillo”

Federdistribuzione e Sindacati. Perché la vicenda adesso rischia di complicarsi…

“Pretese irrealistiche” per i sindacati, “finalizzate unicamente a far naufragare una già complessa negoziazione”, a dimostrazione della “ritrosia patologica” di Federdistribuzione “a dare il giusto riconoscimento in termini economici ai dipendenti delle aziende sue associate” (https://bit.ly/3vuvg2T). Per Federdistribuzione “la necessità, sempre nel rispetto dei diritti acquisiti, di  andare incontro ai cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nell’organizzazione del lavoro delle imprese e con l’obiettivo di renderne più puntuale l’applicazione” (https://bit.ly/3vmweym).

Da una parte i sindacati “illusi” che la firma con Confcommercio fosse ritenuta un passe-partout sufficiente ad esorcizzare 45 mesi di attesa e dall’altra, Federdistribuzione che fuori tempo massimo rilancia alla ricerca della sua distintività a questo punto, più formale che sostanziale. Non sarà certo lo sciopero dichiarato, pur legittimo, a preoccupare le singole insegne della GDO. Il punto vero è che Federdistribuzione e le aziende che ne determinano la linea in campo sindacale non accettano il ruolo da “gregario non protagonista” che i sindacati hanno pensato possibile assegnare a loro.

Confcommercio con la firma del CCNL (vedi art. 258) si è “autoproclamata”, con l’avvallo del sindacato di categoria, depositaria esclusiva della titolarità della rappresentatività dell’intero terziario. E quindi ha  di fatto stabilito  che, il CCNL firmato da Federdistribuzione, indipendentemente dal suo peso maggioritario nel settore della GDO, dovrà avere un ruolo gregario e subalterno al suo. E questo oltre ad irritare i titolari ne limita fortemente il raggio di azione. Non va dimenticato che il CCNL scaduto 45 mesi fa era stato firmato addirittura nel 2015. E, non avendo subito modifiche nelle sue normative principali la sua arcaicità risale ad ere geologiche ancora precedenti. Nel frattempo la vita nelle insegne della GDO a differenza dei piccoli negozi di vicinato o nelle realtà del cosiddetto “terziario di mercato”, è cambiata in profondità. Penso all’ inquadramento, oggi completamente stravolto rispetto ad allora, penso alla polivalenza, alle prestazioni richieste e al loro riconoscimento, agli straordinari e al loro pagamento, al peso del PT involontario. Penso ai modelli organizzativi attuali. Lo stesso contenzioso derivato dalla mancata applicazione formale di parti del  testo del CCNL è crollato dimostrando la necessità di un aggiornamento e di una profonda manutenzione del ruolo del contratto nazionale sempre purtroppo rinviata.

Oggi la distanza tra testo contrattuale e realtà è talmente profonda che spinge i sindacati a volgere lo sguardo altrove. Salvo pretendere di lasciare tutto com’è sul piano formale. Un errore. È vero. Il CCNL firmato da Federdistribuzione è, nel testo, una effettiva ricopiatura letterale di quello di Confcommercio da cui è nato ma la sua sovrapponibilità finisce qui. Questo perché lo stesso testo messo a terra in luoghi e/o settori diversi in termini di organizzazione, dimensione e cultura, genera costi, comportamenti e crea contraddizioni diverse.

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Vegan-Rewe apre a Berlino. Un test interessante…

Mentre dall’altra parte dell’oceano alcuni tra i manager più preparati della GDO internazionale stanno  cercando di trovare una soluzione alla mancata presenza dei prodotti CPG in Whole Foods  (tipo Coca Cola, Pepsi, snack salati Frito Lay, detersivo Tide e altri prodotti con ingredienti non naturali ), che spinge molti potenziali clienti alla concorrenza, il secondo gruppo della GDO tedesca prova un  percorso inverso. Tra poco aprirà il primo punto vendita del Gruppo Rewe esclusivamente  vegano in Warschauer Straße 33 a Berlino-Friedrichshain. Il negozio “Vegan-Rewe” (o come si chiamerà) è in fase avanzata di ristrutturazione e riconversione. Il nuovo logo sulla facciata è ancora coperto da un telo.

Rewe,  a mio modesto parere,  resta  uno dei gruppi più innovativi in Germania. Sotto l’impulso di Lionel Souque  e della sua squadra sta sperimentando novità importanti sia sul piano tecnologico che su quello dell’offerta commerciale nei diversi formati. La location scelta è interessante anche perché sede, fino a dicembre, dell’insegna Veganz. “Per questo test ci affidiamo per la prima volta esclusivamente ad alimenti di origine vegetale”, ha affermato un portavoce del gruppo Rewe su richiesta di T-online. “Veganz” ha ceduto il negozio a dicembre. I clienti vegani berlinesi potranno continuare a fare i loro acquisti  nel nuovo negozio  di Rewe.

Non lontano dalla nuova sede si trovano altri supermercati della catena: c’è un grande supermercato nell’East Side Mall e almeno un più piccolo “Rewe To Go” nella stazione della S-Bahn Warschauer Straße. La catena  che ha la sua sede centrale a Colonia, si è assicurata una posizione ideale a Friedrichshain, direttamente sul ponte Warschauer. L’acquisizione è una mossa intelligente: insieme al punto vendita viene rilevata la base di clienti esistente e il concetto di un negozio Rewe completamente vegano può essere un test interessante per poterlo eventualmente replicare altrove. Il Gruppo, inoltre, può avvalersi anche dell’esperienza della filiale austriaca Billa. “ “ BILLA PFLANZILLA ” esiste da settembre 2022.  L’obiettivo è guardare al futuro e attrarre principalmente clienti di età inferiore ai 30 anni.

Veganz era  una catena di supermercati 100% vegan molto famosa in Germania, sopratutto a Berlino. Nel progetto del fondatore, Veganz doveva diffondersi in tutta Europa, Italia compresa, ma la realtà è stata un po’ diversa; nata come startup nel 2011, ha riscosso subito un notevole successo, ma durante gli anni il modello di business è cambiato e alcune location sono state chiuse, i prodotti a marchio Veganz hanno continuato a diffondersi e adesso sono presenti anche in molti altri supermercati non solo tedeschi. I prodotti veg rappresentano una delle grandi tendenze alimentari degli ultimi anni, insieme al bio.  È interessante seguire il test Rewe anche perché da noi è ancora un fenomeno relativamente circoscritto. In EU sempre più persone scelgono di ridurre o eliminare il consumo di prodotti animali, soprattutto in considerazione dell’impatto che la produzione di massa di questi alimenti ha sul pianeta, in termini di consumo di acqua ed energia, deforestazione, emissioni e pericolo per la biodiversità. Per questo motivo, oggi tutti i prodotti vegani, come formaggi, cioccolato, insaccati e gelato sono facilmente reperibili nei supermercati tradizionali, accanto ai loro omologhi di origine animale.
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CCNL terziario e servizi. Tanto tuonò che piovve

Per rispondere subito all’amico Garnero, non prevedo nessuna primavera per le relazioni industriali. Siamo entrati da tempo in un cupo inverno nel quale la vicenda del terziario di mercato potrebbe fare addirittura scuola. Ę un sistema complessivamente malato che, se resta imballato per cinque anni per milioni di lavoratori, vuol dire che non funziona più come dovrebbe. Detto questo, è ovvio che la firma di un contratto nazionale dopo una così lunga attesa è comunque da valutare come un fatto positivo.

 

Che le due Confederazioni del terziario (Confcommercio e Confesercenti) abbiano finalmente firmato può significare che settimana prossima ci proverà Federdistribuzione e poi dietro arriveranno i due contratti minori ma non meno importanti degli alberghi e dei dipendenti da aziende dei settori dei pubblici esercizi, ristorazione collettiva, commerciale e turismo. Si potrebbe così chiudere una vicenda che per la dimensione degli interessi coinvolti non ha precedenti nella storia contrattuale del nostro Paese. Le responsabilità di ciò che è avvenuto sono evidenti. La crisi di autorevolezza e di leadership degli attori principali hanno impedito di costruire exit strategy convincenti quando ce n’è stata l’occasione. Il contesto socio economico ha fatto il resto. Il tentativo di Confcommercio di rilanciare a tempo scaduto provando a dividere i sindacati come in passato non ha funzionato così come, per i sindacati, i numerosi tavoli contrattuali aperti, caratterizzati da richieste diverse e difficilmente componibili per gli interessi in gioco, non li hanno certo favoriti. Così ha prevalso la strategia datoriale di spendere il meno possibile per più tempo possibile, come l’ho chiamata in un precedente articolo, la strategia del “braccino corto” https://bit.ly/3TiQtpK). Cinicamente, un risparmio, grosso modo, di  cinque anni sul costo del lavoro per le imprese.

Quello che è certo è l’evidente affanno della gestione politica  della più importante confederazione del terziario sul tema del lavoro. Aggiungo poi che nelle Confederazioni di categoria (datoriali e sindacali) il possibile “rischio”  all’orizzonte del salario minimo è visto, non solo come concorrente diretto al CCNL, ma anche come potenziale grimaldello sull’importante welfare contrattuale che, oltre ad essere positivo per i lavoratori, è fonte di finanziamento per le associazioni firmatarie.

Onesta Prampolini, quando ha dichiarato “l’individuazione di un salario minimo orario per legge, slegato da un consolidato sistema di relazioni sindacali, andrebbe a discapito della più diffusa applicazione dei contratti collettivi leader, danneggiando la sana concorrenza tra imprese”.  Al di là dei contenuti sul compromesso raggiunto che risente ovviamente del contesto che si è trascinato in tutti questi anni, dagli effetti dell’inflazione e della depressione dei consumi,  va tenuto presente che il costo complessivo del lavoro e quindi del CCNL  (non necessariamente del solo salario) è ritenuto comunque alto per le imprese dell’intero settore del terziario di mercato.

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Grande Distribuzione. Intanto Aldi in Cina…

L’elenco dei retailer europei che si sono ritirati dalla Cina è lungo. Non solo Carrefour. Dalla Germania hanno fatto marcia indietro Metro, Media-Markt, Lidl e Obi. Eppure molti esperti di quel mercato ritengono che la classe media cinese sia il gruppo target con il maggior potere d’acquisto al mondo. Cibo, integratori alimentari, cosmetici, moda, giocattoli: per tutto ciò che è vicino al corpo, i cinesi amano cercare prodotti di provenienza estera. Nell’evento shopping più grande del mondo, il  Singles Day di Alibaba dell’11 novembre che si svolge ogni anno in Cina il valore totale dei beni venduti durante il periodo, noto anche come “Double 11”, è arrivato a 1,15 trilioni di yuan (157,97 miliardi di dollari) secondo i dati della società di consulenza Bain.

A differenza di quanto  avviene in Europa i consumatori cinesi sono abituati a informazioni e consigli molto più completi e a una maggiore rapidità di acquisto. Gli influencer e le recensioni svolgono un ruolo più importante. Aldi Süd si è avvicinato alla Cina attraverso l’online dal 2017 (https://bit.ly/3v3Thh4) e i primi negozi sono stati aperti a Shanghai nel 2019 (https://bit.ly/49LnjoO). L’espansione “brick and mortar” è iniziata con due tipi di punti vendita: negozi di circa 1.000 metri quadrati con un numero relativamente elevato di dipendenti, che si basano sul modello tedesco, e negozi decisamente più piccoli con una superficie da 400 a 500 metri quadrati del tipo minimarket. In Occidente Aldi è nota per i prezzi bassi. In Cina si posiziona come una sorta di discount di lusso con standard di qualità tedeschi. Quando fanno acquisti da Aldi, i consumatori cinesi non si preoccupano del prezzo, ma piuttosto della qualità e della sicurezza dei prodotti.

Dal 2017 la penetrazione di Aldi Süd nel nuovo mercato si è basata su una pura strategia di e-commerce online sulla piattaforma  Tmall Global (https://bit.ly/3T7dpXL), che appartiene al colosso online cinese Alibaba prima di iniziare la sua espansione nella vendita al dettaglio fisica due anni dopo con due negozi pilota a Shanghai. Le sette filiali aperte nell’estate 2023, tutte in centri commerciali, non hanno più molto in comune con Aldi in Germania. Ciò che colpisce è la quasi totale assenza del non food, il pagamento esclusivamente tramite casse self-scanner e il collegamento dei PDV ai servizi di consegna onnipresenti a Shanghai. La quota di fatturato derivante dall’attività di consegna a domicilio  per punto vendita  dovrebbe aggirarsi intorno al 30%. 

Dopo quattro anni, Aldi conta ora 48 negozi a Shanghai. Ma probabilmente è solo l’inizio. Aldi vede il potenziale per centinaia di filiali a Shanghai e nel delta dello Yangtze con città di milioni di abitanti, ha rivelato l’austriaco Roman Rasinger, Managing Director a ALDI CHINA, in un’intervista all'”Handelsblatt”. Il concetto Aldi nella Repubblica Popolare cinese è stato in gran parte sviluppato da Aldi Australia, che rifornisce anche le filiali. I frequentatori cinesi sottolineano la flessibilità e la capacità di adattamento dimostrate da  Aldi in Cina. “Aldi funziona come un normale punto vendita cinese. Quasi tutto ruota attorno al cibo. I cinesi pensano che il retailer tedesco sia sinonimo di premium” riferisce Arvid Schulze-Schönberg il fondo di investimento per i centri commerciali DWS, lanciato nel 1975 e attivo anche in Cina. “Ciò che Aldi ha creato a Shanghai è notevole. Aldi è agli occhi dei consumatori cinesi “alla moda e fresco per gli occhi, ma anche intelligente per il portafoglio”, riferisce. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Intanto Aldi in Cina…”