LIDL. La metamorfosi di un discount moderno

Pochi nella GDO tradizionale in Italia hanno compreso le potenziali traiettorie dei discount tedeschi (e non solo) nel nostro Paese. Molti pensavano che si sarebbero accontentati di presidiare una nicchia. Oggi si sarebbe detto che: “non li hanno visti arrivare”. Eppure, prima di trasformarsi nei colossi che sono oggi in Europa e non solo, sono partiti ovunque proprio facendo leva sulla loro ragion d’essere: la pura convenienza.

Come il primo discount della storia che nasce ad Essen, dove Karl Albrecht aprì il proprio negozio di alimentari nel 1913 ben prima di trasformarsi in ALDI. L’altra grande  insegna sbarcata in Italia alla fine del 2017.  Penny Market nasce compartecipata con Esselunga nel 1994 e prosegue in solitaria dal 1999. Anch’essa di proprietà di un importante gruppo della GDO tedesca: REWE. Lidl è una realtà della grande distribuzione organizzata leader in Europa appartenente al Gruppo Schwarz. Quarto gruppo  in assoluto a livello mondiale dietro Walmart e Costco e alle spalle dell’americana Kroger, con un fatturato di 99,2 miliardi. 

L’Insegna attualmente gestisce una rete di oltre 12.000 punti vendita, più di 200 centri logistici in 31 Paesi e conta più di 360.000 dipendenti. Presente in Italia dal 1992, Lidl Italia può contare su 730 punti vendita che impiegano più di 21.000 collaboratori, articolati in 11 Direzioni Regionali che hanno la responsabilità operativa dei punti vendita e delle relative piattaforme logistiche. La Direzione Generale si trova ad Arcole, in provincia di Verona, e conta più di 800 dipendenti.

Quando si parla di multinazionali presenti in Italia c’è sempre il rischio di dover fare i conti con una retorica un po’ datata che ne riduce l’importanza e la portata economica per il nostro Paese. Oppure, nel comparto GDO, spesso le multinazionali vengono relegate, a soggetti che faticano a comprendere la specificità del nostro mercato. La business community  GDO, nel frattempo, continua ad interrogarsi sul considerare o meno i discount supermercati come gli altri, sul loro destino, sulle performance al metro quadro o sull’affollamento territoriale ritenuto foriero di possibili crisi di crescita all’orizzonte in grado di metterne in discussione la marcia trionfale di questi anni. Leggi tutto “LIDL. La metamorfosi di un discount moderno”

Grande Distribuzione. Vince chi punta sulle persone

Frequento numerose insegne della Grande Distribuzione.  Ho sotto casa un comodissimo Carrefour Express. Ho l’Esselunga di viale Cassala a qualche centinaia di metri dove vado spesso. Fino a poco tempo fa preferivo  arrivare fino al Viaggiator Goloso di Buccinasco a non più di un quarto d’ora d’auto. Purtroppo il Comune ha deciso di fare cassa con l’autovelox e alla seconda multa per un millimetrico superamento della velocità consentita, ho rinunciato. Non mi andava di finanziare surrettiziamente il comune in questione.

Quando passo per lavoro mi fermo al Gigante di Lonate Pozzolo o  all’Iperal di Bovisio Masciago. Due insegne  molto interessanti. Recentemente Banco Fresco a Varedo, Tigros in via Giambellino e il Bennet di Viale Corsica. Infine il Destriero a Vittuone e Lidl a Corbetta. In Trentino, la mia seconda casa,  Poli a Malè oppure Aldi a Cles. Al mare, la Coop di Follonica. Mi manca il Veneto dove ritornerò presto e dove mi attirano un paio di insegne  e il sud dove ho avuto la fortuna di aprire numerosi punti vendita e quindi mantengo numerosi contatti. Non ho  preferenze particolari. Dopo tanti anni di frequentazione non è l’insegna in sé che mi cattura. Mi piace entrare nel punto vendita e osservare. Ho partecipato a tante aperture, dalla selezione del personale alla costruzione delle squadre,  che mi basta poco per capire il clima e la presenza, o meno, del cosiddetto “quiet quitting” quella condizione, oggi tanto evocata ma presente da sempre nei punti vendita, in cui le persone riversano nel lavoro solo il minimo indispensabile rinunciando a mettersi in gioco.  Oppure dove non sono gestite correttamente.

Oltre ai prodotti e alle offerte nei supermercati, che registro solo se sono particolarmente interessanti, osservo quindi le persone nel lavoro. Come si muovono, come gestiscono la merce sui  lineari. Come affrontano e supportano (o sopportano)  i clienti. E, ovviamente, mi piace osservare la gente, i clienti  che li frequentano. La fretta di alcuni e la calma olimpica di altri. Il sorriso sardonico quando apre improvvisamente una cassa e si infilano lasciando gli altri basiti per lo scatto di quello che sembrava un pensionato dal passo incerto. Le borse di plastica che segnalano la propensione al nomadismo tra insegne. La soddisfazione del direttore di un punto vendita  minore quando il cliente posiziona la “sua” merce nel sacchetto dell’insegna leader.

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Esselunga. Un passo avanti, due indietro…

Un CEO da solo non va da nessuna parte. E CEO non si nasce. Si diventa. Da una parte attraverso il percorso professionale, le competenze e le capacità affinate negli anni. Indispensabili ma non sufficienti. Dall’altra con la capacità  di circondarsi di collaboratori capaci, esperti nel loro campo e ingaggiati nelle strategie e negli obiettivi. Stimarli, riconoscerne le competenze e la loro esperienza, condividere con loro le traiettorie aziendali, è fondamentale.

Nel mio campo  oltre  ai costi del personale, alla loro evoluzione e il presidio delle problematiche sindacali, non si possono  non cogliere i segnali che accompagnano la vita reale di un’azienda. Il turn over più o meno accentuato dai manager fino agli addetti nei punti vendita, la difficoltà a reperire risorse dal mercato, il grado di soddisfazione presente nelle diverse aree aziendali. 

Ci sono aree aziendali dove obiettivi troppo sfidanti  o valutazioni affrettate  sono pessimi consiglieri.  E rischiano di compromettere il futuro delle risorse migliori e dell’azienda stessa. Occorre poi che il CEO sia in grado di ascoltare, rispettare la professionalità dei manager, capire e proporre sintesi evitando pregiudizi e decisioni sommarie che possano compromettere la gestione futura e quindi i risultati attesi.  Quella che emerge sotto questi punti di vista  è, ovviamente, una realtà ben diversa dai comunicati stampa rivolti all’esterno. Emerge l’azienda per quello che è.

Nel caso dell’azienda di Pioltello i numeri parlano chiaro. C’è poco da discutere. Esselunga chiude il 2022  con segno positivo, come si legge in una recente intervista della Presidente esecutiva Marina Caprotti sul Corriere della Sera. “È stato un anno di impegno verso clienti e dipendenti per proteggere il loro potere di acquisto. Una decisione meditata e contro corrente”, spiega Marina Caprotti. I prezzi dei prodotti a scaffale nell’ultimo anno sono lievitati del 5,5%, a fronte di un’inflazione ricevuta dai fornitori pari a circa il 9%: ciò significa che, in pratica, Esselunga ha assorbito quasi il 4% dei rincari. Questo impegno è però costato caro in termini di margini: nel 2022 l’ebitda è sceso a 501,4 milioni, dai 689,7 del 2021.

Questo dato ha spinto però S&P Global Ratings ha rivedere l’outlook di Esselunga da “stabile” a “negativo”. L’agenzia di rating ha osservato che nel primo semestre Esselunga ha registrato un Ebitda margin quasi dimezzato, pari al 5,5%, a causa dell’aumento della base dei costi legato all’inflazione, in aggiunta a un’aggressiva strategia di pricing e ha aggiunto che potrebbe tagliare il rating se il margine Ebitda dell’azienda non dovesse tornare sopra il 7% nei prossimi 12 mesi. Aggiungo che Massimo Schiraldi ha giustamente  scritto su GDO news: “Esselunga, un’azienda che, nonostante non sia leader di mercato, è da sempre tra i best performers in Europa e la migliore in assoluto in Italia. Questo aspetto è importante perché la qualità del retailer si esprime proprio nel saper costruire assortimenti adatti alle necessità dei consumatori i quali, di conseguenza, scelgono l’insegna come punto di riferimento per la propria spesa”. Quindi, nonostante le turbolenze del contesto, i numeri danno loro ragione. E, questi indubbi risultati sono però frutto del lavoro quotidiano della squadra a tutti i livelli.  Leggi tutto “Esselunga. Un passo avanti, due indietro…”

Ortofrutta e non solo. Apre Fresh; qualcosa si muove anche a Milano.

Una rondine non fa primavera. Però ne potrebbe segnare l’arrivo. L’8 giugno Banco Fresco lascia il suo modello periferico e sbarca in città. Arriva “FRESH”, il nuovo format cittadino della catena. Sorgerà al posto dell’ex Erbert, i cui piatti pronti andranno ad arricchire le tremila referenze Banco Fresco. Innanzitutto il format. È il classico format ZTL tipo Esse. Per ora con i suoi nove negozi milanesi l’azienda di Pioltello, non aveva concorrenti.

Negozi di vicinato ce ne sono già molti, un po’ tutti i uguali. E abbiamo  in arrivo altre multinazionali ma il format un po’ “fighetto” era una  esclusiva Esselunga. Adesso arriva un binomio interessante in via Moscati in zona Sempione. Dall’ortofrutta, elemento distintivo di Banco Fresco a tutto il resto però puntando ad una filosofia fondata su qualità e sostenibilità. Se sarà così credo potrà dire la sua in una città come Milano. La scelta di mantenere la partnership con Erbert è interessante. È presto per capire se è tattica o strategica. Lo vedremo più avanti.

Erbert è stata è stata definita da Michela Becchi di Gambero Rosso  (forse un po’ pomposamente) la Whole Foods di casa nostra. “Certo, botteghe e negozi di nicchia, aziende e modelli virtuosi di cibo sano, etico e rispettoso dell’ambiente erano già presenti un po’ ovunque, ma quello che mancava era un vero supermercato contemporaneo attento alla salute. Una sorta di Whole Foods italiano prima maniera, l’azienda statunitense fondata da John Mackey nel 1976, ben prima del boom del biologico iniziato negli anni ’90, e acquistata da Amazon nel 2017 per quasi 14 milioni di dollari.

Sorge spontaneo il paragone con il colosso di Farinetti, ma i punti Eataly – così come quelli Naturasì – nascono con intenti e modalità diverse. Erbert a Milano, concept store che ha aperto il suo primo punto vendita nel 2020, poco dopo la fine del lockdown, ha invece come obiettivi principali la sostenibilità ambientale e la salute dei consumatori, caratteristiche che accomunano tutti i prodotti selezionati per la vendita”.

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Grande Distribuzione. La lotta si fa dura … se non si punta su frutta e verdura

Croce e delizia della Grande Distribuzione lo spazio dedicato all’ortofrutta in tutte le sue declinazioni è ritenuto, a torto o a ragione da molti, il biglietto da visita di un’insegna. Non a caso è il reparto piazzato all’entrata del punto vendita. Trasmette, anche al cliente distratto e frettoloso, una sensazione di freschezza che lo accoglie e lo accompagna nel suo giro tra i banconi e i lineari carichi di merce.

L’ortofrutta rappresenta il cuore del reparto dei freschi con un’incidenza nelle vendite vicina al 30%, seguita dalla macelleria. dai formaggi e dai salumi, pane, pasta e pasticceria, gastronomia e pescheria. Secondo la recente ricerca di Bain & Company Italia “Net Promoter Store” (https://bit.ly/41NTMGP)  se un supermercato migliorasse il reparto ortofrutta incrementerebbe i ricavi complessivi di oltre il 2%. Quindi il tema è centrale.

Nel 2022 i consumi di ortofrutta si sono attestati su 5,47 milioni di tonnellate. iper, super, discount e superette hanno veicolato circa  4 milioni di tonnellate, il 9% in meno rispetto al 2021. Più o meno il 75% dei consumi sono passati dalla GDO. Il resto dei consumi lo hanno coperto principalmente  i fruttivendoli (11%), i mercati ambulanti e rionali (circa il 10%). I primi hanno perso il 18% sul 2021 e i secondi circa il 20% sempre sul 2021. La GDO ha perso il 9% dei volumi. (Dati tratti da Rivista di Frutticoltura e Ortofloricoltura). L’aumento dei prezzi ha sostanzialmente coperto il calo dei volumi. Hanno comprato meno gli over 65 che rappresentano un terzo degli acquisti e  di più gli under 34 che però ne rappresentano solo il 17% l’unica fascia d’età che ha registrato una variazione positiva.

Sull’esposizione, sulla qualità, sulla redditività e sulla professionalità necessaria o meno per il reparto ortofrutticolo nella GDO si è aperto un dibattito che attraversa il settore da qualche decennio. Decine di convegni dedicati. Modesti i cambiamenti. Tutti concordano che l’obiettivo dovrebbe essere quello di avere un reparto ortofrutta curato, ben disposto e con un buon rapporto prezzo qualità. I clienti vorrebbero anche che il sapore, il gusto di frutta e verdura ritornasse ad essere una vera e propria riscoperta. Soprattutto nella GDO.
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Inflazione. Tutti si smarcano e il cerino resta in mano al consumatore

La situazione sul fronte dei prezzi è surreale. L’inflazione nei prodotti alimentari resta alta. Secondo Nielsen l’indice d’inflazione teorica nel largo consumo risulta pari al 15,4%. Su alcune tipologie di prodotti è ancora più alta. Così come lo è sulle fasce di consumatori con i redditi più bassi. I fatturati delle insegne e dell’industria però schizzano verso l’alto. Ma non è un buon segno. Il Governo sul tema, tace.

Almeno per ora, fortunatamente, non è partita la dinamica già presente in altri Paesi di richieste salariali generalizzate compensative dell’inflazione. Il rischio che il tessuto sociale che fino ad ora ha tenuto, si laceri, è alto. La reazione per ora  resta individuale. Ciascuno taglia i consumi che ritiene meno importanti per sé o per la propria famiglia. In altre parole ci si rassegna. Una situazione che, se prolungata nel tempo, può produrre effetti depressivi sull’andamento dei consumi e sulla crescita dell’economia.

Il Centro studi di Confindustria confida sulla ripartenza dell’economia italiana evidenziando il Pil nel primo trimestre sopra le attese (+0,5%) e con la variazione acquisita per il 2023 a +0,8%. Scommette sulla riduzione dell’inflazione pur ammettendo che sarà lenta e continuerà a frenare i consumi. L’industria di marca punta sul rientro del dato medio in corso d’anno. Quindi mantiene i prezzi alti e mette “fieno in cascina”. La GDO, va detto,  ha intuito il rischio sul lungo periodo e ha  provato a mettere le mani avanti chiedendo un tavolo di confronto. I contratti standard tra industria e GDO tradizionali in tempi di inflazione sono un errore. Lo capiscono tutti ma nessuno fa nulla. Prezzi e rientro da costi seguono dinamiche differenti. Il cosiddetto “tavolo” sarebbe servito a governare il fenomeno almeno per l’anno in corso.

Con i discount che avevano, almeno all’inizio della risalita, le mani libere e l’industria che premeva, la GDO ha eretto la classica linea Maginot che è stata aggirata facilmente. Divisi tra di loro, con alcune insegne certe che sottobanco qualche antico rimedio (vedi sconti e promozioni) avrebbe funzionato come sempre, si sono presentati ai negoziati convinti di poter reggere il confronto. E mentre tutti parlavano del “caro carrello” addossando alla GDO gli aumenti c’è chi ha preferito giocare per sé trasformandosi per qualche settimana in paladino dei consumatori contro il carovita o altri che hanno indossato tute e scudi stellari mentre i prezzi schizzavano verso l’alto e il solito Einstein invitava a farsi furbi e andare nei suoi negozi. Il solito piccolo cabotaggio del marciare divisi per azzoppare il vicino di corsia e provare a vincere la gara. Leggi tutto “Inflazione. Tutti si smarcano e il cerino resta in mano al consumatore”

Il futuro dei negozi di vicinato è in ciò che Kombinano Canada e Giappone?

Tra  pandemia e guerra ai confini dell’Europa sembra passato un secolo dal gennaio del 2021 quando Couche Tard, la multinazionale canadese di mini market collegati ai  distributori di carburante, aveva messo sul tavolo 16 miliardi di euro per acquisire l’intera Carrefour. Più o meno la stessa cifra che Amazon aveva sborsato per Whole Foods. L’operazione fu poi stoppata dal Governo francese. Oggi l’acquisizione di  2.193 stazioni di servizio TotalEnergies in Europa per l’equivalente di circa 4,5 miliardi di dollari canadesi (3,1 miliardi di euro, otto volte gli utili prima di interessi, tasse e ammortamenti).

L’accordo le consentirà di entrare in nuove realtà in Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. L’azienda del Quebèc ha mosso i primi passi nel vecchio continente  con l’acquisizione del rivenditore norvegese Statoil nel 2012. Specificando che circa il 25% delle vendite in Scandinavia proviene dal cibo.

L’idea è quindi di puntare sui minimarket di Total in Europa  adattandoli  al gusto e alle culture locali. Con questa transazione, l’operatore di minimarket e distributori di benzina espande la propria presenza in Europa, dove conta già quasi 3.100 negozi. Prima dell’annuncio di questa acquisizione multimiliardaria, l’acquisto più recente di Couche-Tard è stato di  45 Big Red Stores (https://bit.ly/3Lf3hJz) in Arkansas il 27 febbraio. Quella mossa ha quadruplicato il numero di negozi in Arkansas. L’obiettivo è però il mercato europeo dei minimarket a cominciare da quelli delle stazioni di servizio ma non solo.

L’acquisizione include (https://bit.ly/3KQuWzm) 1.195 sedi in Germania, 566 in Belgio, 387 nei Paesi Bassi e 45 in Lussemburgo. Aggiungendo le 2193 sedi, la sua impronta europea (https://bit.ly/40uLLW1) aumenta dell’81%. Attualmente ha 2.703 sedi in otto paesi: Norvegia, Svezia, Danimarca, Lituania, Estonia, Lettonia, Irlanda e Polonia. Il CEO Brian Hannasch di Couche-Tard spiega che questa operazione aiuterà l’azienda del Quebec a crescere “all’interno delle economie più forti d’Europa. Inoltre, Couche-Tard ritiene di poter aumentare in modo significativo il servizio di ristorazione e le vendite in negozio nelle sedi acquisite. “Crediamo che il nostro modello europeo, sia dal punto di vista del cibo che del merchandising, farà breccia in questi mercati”, ha affermato Brian Hannasch. Quindi un obiettivo chiaro. Puntare ad un convenience store diverso dove ristorazione, prodotti alimentari limitati e convenenti e no food possano trovare nuove sintesi. Magari attraverso una dimensione tecnologica più accentuata, un servizio più accogliente  e una logistica diversa. Leggi tutto “Il futuro dei negozi di vicinato è in ciò che Kombinano Canada e Giappone?”

È arrivato il momento di accendere i riflettori sull’ultimo miglio.

Un recente studio dell’’INAPP (https://bit.ly/3UNLo88) ci permette di circoscrivere le dimensioni del fenomeno dei platform worker in Italia sul versante degli addetti. Nel 2020/21 rientravano in questa categoria 570.000 lavoratori, così suddivisi: 36,2 % consegna pasti a domicilio (i rider), 14% consegna prodotti o pacchi, 4,7% autisti (tipo Uber), 9,2 % lavori domestici, 34,9% attività on line, 1% altre attività). Se restiamo nel cosiddetto ultimo miglio (quell’ultimo tassello della consegna delle merci che le porta da un centro di stoccaggio al cliente finale) stiamo parlando di circa trecentomila persone che a vario titolo si muovono per trasportare cose nel nostro Paese.

Un mercato in espansione, che ha generato in Italia oltre 2 miliardi di euro di business solo per il settore ristorazione nel 2022 destinato a crescere. Secondo McKinsey (https://mck.co/43MasAr) il mercato globale della consegna dell’ultimo miglio nel mondo  dovrebbe raggiungere i 66 miliardi di dollari entro il 2026, dai 39.5 miliardi del 2020. A Milano e provincia la ristorazione è il settore più attivo indicato dal 62%, seguito dal grocery al 36% e dal retail per il 20%. Oltre 6.000 rider che lavorano per l’online food delivery solo in città. (Secondo una recente indagine Confcommercio/Glovo). Consegne ecologiche quindi? Le loro certamente si.

Il discorso si fa più complesso se alziamo lo sguardo all’insieme del comparto.  I veicoli a motore che fanno consegne rappresentano quasi un terzo del traffico totale delle città. Mezzi che viaggiano spesso semivuoti e che in media rientrano al magazzino con parte delle merci non consegnate. Un contributo  tra il 20 e il 30% all’inquinamento dell’aria nelle aree urbane da non sottovalutare. Altri studi che comparano l’inquinamento prodotto dagli acquisti tramite l’e-commerce con i negozi negozi fisici non alimentari riducono fortemente la percentuale (https://owy.mn/41JSLj0) così come il traffico generato. In generale, quindi, l’ultimo miglio, indipendentemente dalla tipologia della modalità di acquisto è il tratto che impatta maggiormente sull’ambiente rispetto all’intero processo logistico. È quindi un problema serio.

La prima soluzione è legata all’avvento delle consegne con veicoli elettrici, per ridurre l’inquinamento e per decongestionare le strade. Ma la vera rivoluzione arriverà più avanti con i veicoli automatizzati. Ma mentre aspettiamo i droni occorre lavorare per  ottimizzare questo processo. L’ultimo miglio è l’elemento meno efficiente della maggior parte delle catene di approvvigionamento, e comporta una spesa, come parte finale del trasporto, che incide pesantemente (https://bit.ly/3Abnr0K) sul costo totale di trasporto del prodotto. Oltre a questo costo di natura economica, il traffico nelle aree urbane, la distanza tra zone lontane, gli indirizzi non validi o errati, le destinazioni difficili da localizzare e la mancanza di persone che firmino le consegne fanno sì che il processo sia tutt’altro che ottimale. Leggi tutto “È arrivato il momento di accendere i riflettori sull’ultimo miglio.”

Amazon vuole crescere anche nei “brick and mortar”

Noi li chiamiamo negozi fisici negli USA li chiamano “brick and mortar”(mattoni e malta) termine liberamente tratto dal salmo 127 della Bibbia spesso  contrapposto al negozio digitale. In realtà la vera contrapposizione è tra chi ritiene centrale il cliente (a parole tutti) e considera accessori luoghi e strumenti per raggiungerlo, coinvolgerlo  e soddisfarlo e chi  difende il luogo come centro del mondo perché andare oltre significherebbe doversi mettere in discussione. Amazon ha capito che oggi, il cliente, li apprezza entrambi. E mentre nel commercio digitale gode di un vantaggio costruito nel tempo continua a rimanere indietro rispetto a Walmart e altri retailer in termini di quota di mercato generato dai punti vendita tradizionali: 2,6% contro 18%.

Andy Jassy , CEO di Amazon, nella recente lettera agli azionisti ha ribadito che, per crescere e competere ” abbiamo bisogno di una presenza fisica più marcata, dato che la maggior parte degli acquisti avvengono ancora nei negozi fisici”. C’è una equivalenza necessaria nella competizione. Walmart attacca su tecnologia e digitale, Amazon non può non replicare sul fisico. Whole Food e Amazon Fresh si sono dimostrati una risposta debole. In grado di preoccupare per il  potenziale ma non di contrastare a sufficienza il gigante di  Bentonville. Serve “identificare e costruire il giusto format di massa idoneo per la scala Amazon” ha concluso Jassy. Whole Foods Market sta andando bene. Vendite e redditività sono in crescita. Ma così come è concepito non sembra costituire la base per una risposta sufficiente.

Di fronte due strade percorribili. La prima più tradizionale: acquisire insegne innanzitutto in un mercato, quello USA che cuba circa 800 miliardi di dollari e poi puntare ad altri Paesi chiave. La complessità dell’integrazione della sola  Whole Foods in Amazon è lì a dimostrare che pensare di competere con i best performer del retail concentrando insegne diverse per organizzazione e cultura e mettendosi semplicemente sul loro terreno è un azzardo che rischia di costare molto caro. Andy Jassy accenna la diversità del loro percorso in un passaggio della lettera agli azionisti. “in vent’anni abbiamo costruito una presenza significativa individuando i prodotti presenti sui lineari dei supermercati che non richiedono controllo di temperatura come prodotti di carta, cibo in scatola e in scatola, caramelle e snack, cura degli animali domestici, salute e cura personale e bellezza. Tre milioni di articoli che hanno eclissato le poche decine di migliaia offerti dal retail tradizionale”. Assortimento, consegna a domicilio e scontistica la chiave del successo anche tramite il programma Subscribe & Save molto gettonato negli USA. Una strategia certamente legata al prodotto e alla sua maggiore semplicità di gestione ma costruita anche innovando il processo.

Amazon fresh non sembra essere quindi essere ritenuta una risposta adeguata. Così come pensare che lo possa essere la sola tecnologia. Quella impiegata negli Amazon GO oltre ad essere costosa, facilmente riproducibile e migliorabile  in diverse parti del pianeta è la dimostrazione che la tecnologia non aumenta di per sé il numero di clienti.  Quindi occorre percorrere un’altra strada che affronti l’offerta e il servizio nel punto vendita all’interno di una strategia unichannel. Ed è questa, credo, la ragione principale  per la quale Amazon non ha proceduto con acquisizioni successive a Whole Foods pur avendone prese in considerazione alcune sia negli USA che in Europa.  Leggi tutto “Amazon vuole crescere anche nei “brick and mortar””

Il negozio del futuro non è nato solo a Seattle…

Anche a Rimini fu un ingegnere a mettere a terra un suo grande sogno. Al largo delle coste tra Bellaria e Igea Marina nacque l’Isola delle Rose. Una micronazione  ideata da Giorgio Rosa, un uomo visionario intenzionato a creare un’isola felice in mezzo al mare andando contro corrente rispetto all’epoca. Lì dove è nato, il sogno è tramontato, travolto dalla cultura del tempo e dalla burocrazia. A Terni, pur su scala ridotta, è nata un’idea per certi versi anch’essa  rivoluzionaria ideata dall’ingegnere lecchese Davide Milani, che ha voluto dare vita a una formula commerciale che coniugasse innovazione tecnologica, sostenibilità ambientale, valorizzazione della comunità locale.

L’esperimento ha funzionato pur poi terremotato  dalla pandemia e da una ripartenza con costi pesanti per tutti che ha travolto start up tecnologiche importanti e azzerato decine di iniziative per mancanza di risorse economiche. Il caro bollette poi ha messo in ginocchio molte piccole imprese compreso  il percorso che ha generato Vivogreen ma non certo l’idea e la sua possibile prospettiva futura. Il supermercato, primo store a Terni e in Italia privo di casse e imballaggi, si caratterizzava  per tecnologia, sostenibilità ambientale e collaborazione con le scuole, nell’arco di pochissimi mesi ha visto aumentare del 300% le bollette elettriche. Difficile per chiunque risalire la china.

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