Fastweb. Come si perde un cliente…

Ci sono tanti modi per valutare un’azienda. C’è chi guarda i bilanci, chi la pubblicità, chi come reagisce quando un cliente pone una richiesta. Come un’azienda affronta il problema, come lo gestisce e come cerca di risolverlo. Vale per tutti ma soprattutto dovrebbe valere con clienti che hanno un livello di fidelizzazione importante .

Sotto questo punto di vista Fastweb non c’è proprio. Sono cliente da oltre dieci anni e ricevo ogni giorno offerte dalla concorrenza. Avendo una mail Fastweb tengo duro. Non mi va di cambiarla. Succede però un fatto inusuale che mi costringe a pormi un problema.  Decido di traslocare da Corbetta a Milano. Circa trenta chilometri. Chiedo a Fastweb  il trasloco della linea. Non mi sembrava una richiesta complicata.

Il primo tecnico dell’azienda con cui ho parlato ha  cercato in tutti i modi di convincermi a non fare il trasloco della linea ma a chiudere il contratto e farne uno nuovo. “L’azienda non ama i traslochi di linea, preferisce i contratti nuovi”. Ho subito pensato che il sistema premiale aziendale sia costruito sui nuovi clienti e non a mantenere quelli che già ci sono.

Dopo una discussione infinita capisce che il  numero di telefono e la mia mail per me sono importanti e si rassegna. “Però sappia non sarà una cosa breve” sembra dirmi “io te l’ho detto, adesso fatti tuoi”…. Dopo un mese mi ricontattano per convincermi ad annullare la prima richiesta di trasloco. “È da rifare” sentenzia un secondo responsabile. Argomenta tecnicismi sulla presenza della fibra (la casa è nuova e la fibra c’è). Leggi tutto “Fastweb. Come si perde un cliente…”

Esselunga. Ipotesi di futuro dopo l’addio del CEO

A differenza di molti altri più fortunati ho avuto la possibilità di incontrare Bernardo Caprotti solo in due occasioni. A Bruxelles quando il patron di Esselunga era riuscito a convincere l’intera compagine delle aziende di Federdistribuzione a battersi contro la Coop anche a livello europeo e, se ricordo bene, a Pioltello, accompagnando  il CEO di REWE italia di  allora, Francesco Rivolta, ad un incontro riservato in cui Caprotti ha lasciato intendere una generica disponibilità a discutere della cessione della sua azienda alla multinazionale tedesca.

A Bruxelles Caprotti comprese subito che la partita era in mano alle multinazionali e che la sua autorevolezza forte in Italia e in Federdistribuzione, in quella sede non sarebbe stata  sufficiente. A Pioltello dove, dopo aver sottolineato la grande stima personale nei confronti di Francesco Rivolta e l’apprezzamento per l’offerta tedesca, fece capire che quel tempo non era ancora arrivato. E che lui non avrebbe mai venduto. Però ci teneva ad essere corteggiato. Soprattutto dall’estero. Nulla di più.

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La Grande distribuzione italiana deve puntare ad essere protagonista nella filiera nazionale

Se fossimo ancora nel novecento e se l’avversario della grande distribuzione fossero i piccoli esercizi commerciali tradizionali  ci si potrebbe accontentare dell’obiettivo di una  semplificazione della rappresentanza nella Grande Distribuzione. La “guerra” è finita e un’associazionismo disperso in più sigle in competizione tra di loro non è certo una buona cosa.

Nel tramonto del secolo che abbiamo alle spalle  i margini di protagonismo consentivano un pluralismo che di fronte alle nuove sfide si sta  trasformando in un lusso inutile e difficile da manutenere. La firma di uno specifico contratto nazionale era, di fatto, l’obiettivo di ciascuna federazione. E così, intorno al “contratto madre” quello firmato da Confcommercio, ne sono nati nel tempo  altri tre in dumping tra di loro, soprattutto sui costi, ma con un’occhio alle esigenze di competizione associativa. Tutto questo ha poi generato, più o meno inconsapevolmente,  un’infinità di pseudo contratti creati ad hoc a livello locale che, a lungo andare, intaccheranno il sistema.

Impegnati a raggiungere i propri obiettivi nessuna organizzazione  si è però attrezzata per navigare in un mondo che stava cambiando. E, il nuovo mondo è rappresentato dalla fine della crescita di un certo modello di consumi e dei formati tradizionali, dalla fragilità di interlocuzione con la politica che si interfaccia con interessi e problematiche molto più complessi dentro e fuori dai nostri confini, dagli investimenti necessari alle imprese per cambiare, dalle dinamiche di filiera e dalla competizione con i giganti della rete.

La pandemia ha solo mostrato, accelerandoli, i processi in corso e le probabili traiettorie future del comparto ma ne ha anche reso evidente la fragilità nell’affrontarli. Tutto questo richiederebbe una visione comune che sappia andare ben oltre la convergenza su documenti unitari che nascondono le contraddizioni sotto il tappeto. Leggi tutto “La Grande distribuzione italiana deve puntare ad essere protagonista nella filiera nazionale”

Dove sono finiti i lavoratori dei servizi?

Federico Fubini solleva oggi il problema della difficoltà a trovare lavoratori nella fase della ripartenza (https://bit.ly/3cbWbUn) La polemica tra chi sostiene che i lavoratori dei servizi non si trovano per colpa del reddito di cittadinanza o dei sostegni del lockdown e chi, al contrario, invoca stipendi più adeguati come rimedio del fenomeno è destinata a durare a lungo.

I negazionisti continueranno a sostenere che il problema non esiste mentre gli imprenditori coinvolti, al netto dei soliti furbetti, continueranno a lamentarsi. È indubbiamente vero che i lavoratori sul piano numerico e professionale ci sono.

Se non si trovano occorrerebbe analizzarne le ragioni più che percorrere facili scorciatoie. A differenza del comparto industriale, il commercio e il turismo hanno continuato ad investire nella formazione professionale di base. In un Paese che è fanalino di coda nella formazione universitaria spesso si sottovaluta che la stragrande maggioranza dei giovani si avvia al lavoro dopo la “conquista” di un diploma o appena conclusa la scuola media.

Confcommercio vanta, un poderoso sistema formativo che coinvolge decine di migliaia di giovani che, dopo la scuola dell’obbligo, si avviano al lavoro nei settori del commercio, del turismo e dei pubblici esercizi. Pochi lo sanno ma stiamo parlando della dimensione di  un’offerta seconda solo alla scuola pubblica. Non solo Lombardia, Emilia Romagna, e Umbria esistono eccellenze formative diffuse in tutto il Paese che mettono a disposizione di piccoli e grandi imprese giovani e meno giovani formandoli alle richieste del mercato del lavoro. Le micro imprese pescano lì.  Leggi tutto “Dove sono finiti i lavoratori dei servizi?”

I Centri commerciali e la fiducia dei consumatori dopo il lockdown..

Nel film “Non ci resta che piangere” del 1984 è emblematica la figura del monaco che esclama ad ogni passo il famoso “Ricordati che devi morire!” costringendo il bravo Massimo Troisi, vista l’insistenza,  al “mo me lo segno” liberatorio. Oggi, finito il ping pong  dei virologi e dei loro epigoni stiamo rischiando di entrare nella fase del “Nun gliela famo”.

Dietro allo slogan “nulla sarà più come prima” si presentano con insistenza scenari da paura e si evocano “bombe sociali” spesso immaginarie pronte ad esplodere da un momento all’altro. Lo stesso Dario Di Vico ha sottolineato la differenza di reazione tra media, famiglie e imprese rispetto al presente ma anche al futuro che ci attende.

I primi pronti ad indicare  scenari foschi e ambigui, i secondi pronti a dimenticare la fase delle scorte di farina, lieviti e pasta, i distanziamenti e le restrizioni imposti dalla pandemia per rimboccarci le maniche e andare oltre. Sta succedendo in tutti i Paesi.

Dopo gli assembramenti post lockdown, i desideri di uscire, riprendere una vita normale, c’è voglia di acquisti. A maggio 2021 l’ISTAT stima un marcato aumento sia dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 102,3 a 110,6) sia dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 97,9 a 106,7) (link ai dati completi in pdf). Nel primo week end post chiusure dei centri commerciali questo si registra. Leggi tutto “I Centri commerciali e la fiducia dei consumatori dopo il lockdown..”

La Yolo economy spiegata da mia figlia….

Quando penso al lavoro, a quello che ha rappresentato per me, alla differenza tra ciò che sognavo da ragazzo mentre studiavo e mi ponevo grandi obiettivi e i mille aspetti della realtà quotidiana che in seguito  ho vissuto concretamente e mi hanno imposto traiettorie imprevedibili ricordo che ho sempre cercato una coerenza complessiva nelle mie scelte mai finalizzate al breve termine o all’aspetto economico. Quello semmai è venuto in seguito proprio per la decisione di procedere per step successivi coerenti.

Michele Tiraboschi ha recentemente rilanciato su Twitter una pagina a me molto cara di Alessandro Pizzorno sul senso del lavoro. Oltre l’importanza della retribuzione. La motivazione che spinge a riconoscersi in una “maglia” ad interagire con gli altri, ad assumersi responsabilità, a gratificarsi per i risultati ottenuti, a gestire la stima di capi e colleghi o a subirne decisioni incoerenti, invidie o mediocrità. A decidere anche quando è il momento di cambiare lavoro perché qualcosa ci dice che l’equilibrio (il senso) che cercavamo ci spinge altrove.

Aubrey Drake Graham, noto semplicemente come Drake è un rapper canadese che dieci anni fa con il suo pezzo “Motto” ha reso celebre la frase “si vive una volta sola” (you only live once) che forma l’acronimo YOLO da cui è nata la cosiddetta filosofia (Yolo Economy) alla base della scelta di molti giovani americani di abbandonare lavori comodi e stabili per dare una svolta alla loro vita.

Dalla generazione dei millenials in avanti nelle numerose indagini emerge la ricerca di lavori che danno maggiori soddisfazioni e che consentono di aggiungere valore e di portare un contributo specifico nel proprio lavoro. C’è una maggiore esigenza di senso e di richieste di contesti diversi da ciò che cercavano le generazioni precedenti indotte non solo dalla precarietà di una parte dell’offerta di lavoro ma anche dalle opportunità offerte dalla tecnologia e dalla influenza che la pandemia e il lockdown conseguente ha impattato sulle persone e sulle modalità di  lavoro. 

Questa necessità di adattamento al contesto spinge molti giovani a rischiare, rivedere le proprie priorità e desiderare di fare altro non solo sui mestieri indotti dal web ma anche tantissimo mestieri anche tradizionali che non hanno nulla a che fare con le tecnologie digitali. Da una riscoperta dei lavori dei propri genitori fino a rivendicare spazi e protagonismi anche nei lavori tradizionali in azienda.

“Costretti” allo smart working, isolati nelle loro abitazioni o preoccupati per il proprio futuro per molti la fase di  lockdown è stato motivo di spinta e riflessione. Parlarne come un fenomeno sociale lontano che riguarda altri, leggerlo negli interventi dei giornalisti specializzati o nei webinar che lo affrontano è molto diverso che viverlo in prima persona. Soprattutto per chi, come il sottoscritto, appartiene ad un’altra generazione che ha le sue radici nel secolo scorso, nella certezza del welfare pubblico e nell’importanza del posto di lavoro a tempo indeterminato.

Da qui la sorpresa e la voglia di capire quando mia figlia mi ha comunicato la sua decisione di lasciare un posto fisso a tempo indeterminato per affrontare un lavoro a tempo determinato della durata di un anno in un contesto particolarmente interessante per lei.

Trentaquattro anni, da sei a Bruxelles, laureata in economia aziendale a Piacenza, due anni di studi in Germania prima a Mannheim poi a Siegen si è sempre gestita e mantenuta lavorando durante gli studi. Innamorata della Germania da sempre, ha lavorato in Italia, in Austria e in Germania.

Personalmente non l’ho mai ritenuta un “cervello in fuga” ma semplicemente una giovane con l’esigenza di fare esperienze lavorative in paesi diversi dal proprio, vivere il mondo, conoscere nuove lingue e culture differenti. Ha sempre avuto una mentalità aperta. Dalla scuola primaria fino all’università ha sempre privilegiato e vissuto contesti multiculturali aperti al confronto.

La decisione di oggi di lasciare un “posto fisso” credo nasca fondamentalmente da questa aspirazione. Quel “si vive una volta sola” non è una scelta superficiale ma è un’esigenza di cambiamento per misurarsi con un maggiore complessità sociale ma anche per realizzare una esperienza professionale in linea con le proprie aspettative.

Il posto fisso, in questo contesto, perde parte di quello che ha rappresentato per la mia generazione. Da garanzia si trasforma in un recinto che assicura una retribuzione costante ma rischia di reprimere aspettative e desideri.

Ricordo che molti anni fa, un’amica, oggi top manager in una importante multinazionale francese, lasciò una importante banca italiana per affrontare un difficile percorso all’estero ripartendo da zero. Una sfida innanzitutto con sé stessa.

Nei suoi racconti non solo i successi e le conquiste ottenute ma anche le difficoltà incontrate, la solitudine, l’isolamento che porta molti giovani a cedere e a ritornare sui propri passi. Lei ce l’ha fatta. Purtroppo leggiamo e discutiamo più volentieri i successi di chi c’è riuscito. Non le difficoltà, i ritorni indietro, le sconfitte che, purtroppo, coinvolgono la maggioranza dei giovani che ci provano.

Certo il “si vive una volta sola” della Yolo economy è una medaglia a due facce fatta di rischi e opportunità.

Come genitore non nascondo che mi piacerebbe avere mia figlia più vicino, magari in un posto “sicuro” che ne garantisca la crescita professionale nel tempo. Per me, in fondo, è sempre stato così.  Però non me la sono sentita di usare la mia esperienza professionale e di vita  per suggerire a mia figlia traiettorie più tradizionali. Ho ascoltato e accettato le sue esigenze. È la sua vita, il suo futuro non il mio. Io posso solo, come genitore, comprenderne le ragioni  e sostenerla, per quanto è possibile, nella sua scelta.  

La Grande Distribuzione fatica a “schiodarsi” dal suo passato…

La Grande distribuzione italiana è sotto osservazione da parte di alcuni investitori internazionali interessati al nostro mercato. Le difficoltà che hanno incontrato le multinazionali con particolare riguardo al centro sud e poi sull’intero territorio nazionale suscitano però domande a cui non è facile rispondere.

Recentemente mi sono trovato in grande difficoltà a spiegare ad un pubblico selezionato e interessato a capire, specificità regionali, punti di forza di reti locali apparentemente insignificanti, strutture organizzative e manageriali carenti sul piano delle competenze teoriche ma fortemente orientate ai risultati, tipologie contrattuali difficili da inquadrare in un unicum comprensibile, relazioni sindacali a livello locale differenti da ciò che la letteratura ufficiale propone.

Tutto questo in un contesto di regole, controlli da parte degli organi preposti e contraddizioni verticali e orizzontali che richiedono molto tempo e pazienza in chi ascolta soprattutto per chi ha in mente contesti molto più standardizzati.

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Consumo etico e GDO. Alla ricerca di un nuovo homo oeconomicus…

Per Coop la strategia scelta e dichiarata da tempo è la sostenibilità ambientale. La convenienza per chi sceglie di acquistare nei  loro PDV sta nella capacità dell’insegna di interpretare un interesse superiore in nome e per conto anche dello stesso  consumatore. È un tema importante.

Pur con un peso diverso rispetto ad altri Paesi, inizia a fare breccia nelle nostre scelte. Se, ad esempio, osserviamo la crescita del biologico che ne rappresenta una variante,  l’Italia, pur avendo “una delle maggiori quote di superficie agricola dedicate in Europa (15,8%) è ancora quella che pro capite spende meno per i prodotti bio” come  ha scritto Stefania Aoi recentemente su Repubblica. 60 euro all’anno, contro i 144 in Germania, 174 in Francia, 338 in Svizzera e 344 in Danimarca (dati Fibl & Ifoam, 2021).

La sostenibilità etico-sociale nella filiera agroalimentare, al contrario, non è ancora nel DNA dei consumatori italiani. Eppure secondo l’economista Leonardo Becchetti «La forza decisiva per costruire dal basso un benessere equo e sostenibile sarà il “voto col portafoglio”. Ovvero la sempre maggiore consapevolezza dei cittadini che le loro scelte di consumo e risparmio possono trasformarsi nella principale urna elettorale che hanno a disposizione».
Per ora, però,  la messa a terra di quell’idea è ancora lontana. Però se ne parla sempre di più e si fanno interessanti sperimentazioni.

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Amazon/Esselunga. Alla conquista dello spazio…

Nella Grande Distribuzione i motori del cambiamento e della riorganizzazione sono accesi da tempo. Dopo l’operazione Auchan portata a termine da Conad, Couche Tard ha messo gli occhi sull’intera Carrefour pur scontando il disappunto del Governo francese. Non è però finita qui.

Lo stesso CEO di Esselunga Sami Kahale in una recente intervista si è detto convinto che le acquisizioni nel comparto, subiranno una accelerazione nel 2021 e oltre. Il lancio della notizia di un interesse di Amazon, subito smentita dalla società italiana, potrebbe aprire  nuovi scenari per l’intero settore e provocare comunque interessanti accelerazione dei cambiamenti in atto  (https://bit.ly/3eiHpLC).

Se osserviamo la questione dal punto di vista dell’azienda di Seattle credo che sia innegabile che dovrà  fare, prima o poi, le sue scelte sulla GDO anche in Europa. Per ora si è limitata a diverse partnership con distributori nazionali o locali senza mettere le vere carte sul tavolo. Negli USA l’operazione Whole Foods, pur scontando una serie di difficoltà di integrazione ha confermato le traiettorie di business.

Amazon Fresh, tra le altre cose, deve ancora affrontare e risolvere i due motivi che impediscono ai diversi player in USA ma anche da noi di raggiungere una sostanziale redditività. La mancanza di densità e di domanda nonostante l’exploit del lockdown. L’aumento della copertura geografica non significa necessariamente un aumento consolidato dei clienti e quindi una vera crescita delle vendite. Leggi tutto “Amazon/Esselunga. Alla conquista dello spazio…”

Carrefour. Una riorganizzazione sempre più glocal…

Sono convinto che i vertici di Carrefour (non solo in Italia) abbiano dedicato più di una riunione di approfondimento alla gestione e al rapido epilogo  della vicenda Conad/Auchan. Soprattutto sulla “dissoluzione” della sede centrale di Assago realizzata senza eccessivi contraccolpi sindacali né mediatici.

L’architettura concordata dai francesi per lasciare in silenzio il nostro Paese salvaguardando le restanti attività sul  territorio  senza particolari contraccolpi si è dimostrata azzeccata.

Se Auchan fosse stata costretta a gestire la ritirata in prima persona avrebbe subito un costo molto più alto sia economico che di immagine. E, probabilmente, sarebbe ancora inchiodata tra costi fuori controllo, scaffali semi vuoti, clienti in fuga impossibili da recuperare, blocco dei licenziamenti, accuse e contro accuse sia in Italia che in Francia, probabilmente costretta a cedere a condizioni molto più pesanti e nell’ignominia generale.

Comprendere questo significa comprendere il ruolo complessivamente positivo che ha avuto Conad nella vicenda, la complessità stessa di un’operazione contemporaneamente di crescita aziendale e di salvataggio di una realtà ormai finita, le alleanze necessarie per portarla a termine e gli equilibri economici, politici e sociali fondamentali per gestirla.  

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