Il trivio necessario…

Nessuno ha notato la concomitanza tra due eventi apparentemente opposti. L’8 aprile, al teatro Brancaccio di Roma l’attivo dei delegati della CGIL mentre, a Ivrea il movimento 5 stelle ha scelto lo stesso giorno in un luogo simbolico e la figura di Adriano Olivetti per lanciare Sum01 “Capire il futuro”.

Da una parte un pezzo comunque importante del Paese, rappresentato dalla CGIL, che cerca di ricostruire intorno ad un’idea, condivisibile o meno, di centralità dei diritti, dignità del lavoro e una diversa distribuzione del reddito il proprio futuro politico e sociale. Una parte che individua nella globalizzazione più i rischi che le opportunità.

Dall’altra un movimento eterogeneo che sa di poter vincere politicamente perché è riuscito ad intercettare sia la protesta che la voglia di cambiamento che sta crescendo nel Paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Un movimento che ha, nel cuore della base e dei militanti, i tassisti ma ha Uber nella testa dei suoi ispiratori.

Non è un caso che il mov 5 stelle ha scelto Olivetti e la sua Ivrea. Immagine rassicurante di un imprenditore visionario lontano dagli stereotipi manageriali e imprenditoriali ” sempre bravi a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite” di cui il nostro Paese resta uno dei principali produttori.

C’ė, nei vertici del movimento, la certezza assoluta della vittoria e quindi la volontà di rassicurare il Paese che conta. Ma anche di spiegare alle sue diverse anime interne, invitate in platea, che non c’è spazio per i protagonismi movimentisti della prima ora. Un passaggio difficile. Soprattutto perché il movimento rischia la diaspora di una parte consistente dei militanti “duri e puri” proprio nell’ultimo miglio. La vicenda di Roma è lì a dimostrarlo.

Dall’altra parte la CGIL che vinta la partita dei voucher “a tavolino” sembra aver scambiato, purtroppo, un tramonto per un’alba e cerca di serrare le fila per nuove battaglie contando esclusivamente sulle proprie forze e su quella parte della sinistra esclusivamente impegnata in una rivincita contro Renzi e ciò che rappresenta.

Un dato che li accomuna è la convinzione di potercela fare da soli. Entrambi sicuri di attrarre verso di sé il resto del mondo di riferimento. I primi sul piano sociale, i secondi su quello politico. È il NO che, inevitabilmente, li unisce. Anche se è un NO di segno opposto. Il NO a tutto ciò che cambia il lavoro costruito dai baby boomers (che oggi governano il sindacato) e lo mantiene ancorato ad una tradizionale cultura fordista, per i primi. Il NO a tutto ciò che quelle generazioni hanno costruito nel bene e nel male, in Italia e in Europa, per i vertici dei secondi.

Si elideranno a vicenda? Probabilmente si. Il punto è stabilire chi ne pagherà le conseguenze. A mio parere manca ancora all’appello un terzo soggetto credibile. Sociale e politico.

Paolo Pirani, segretario generale UILTEC, con una battuta felice ha centrato il problema: “Più che un Partito della Nazione occorrerebbe un Patto per la Nazione”. Indubbiamente è l’ultima chance che ha a disposizione questo Paese prima del burrone. Chi non crede nella deriva movimentista o in quella tecnocratica digitale non può stare alla finestra. Non siamo di fronte ad un bivio ma ad un trivio.

È difficile pensare che un Paese come il nostro con differenze territoriali e culturali così profonde e con il nostro debito pubblico possa “salvarsi” mettendo le generazioni l’una contro l’altra o scegliendo strade diverse da tutto il resto d’Europa.

Nel sindacato, nei corpi intermedi più in generale e, probabilmente nel Paese c’è anche voglia d’altro. Lo stesso referendum del 4 dicembre lo ha dimostrato. Che lo si voglia ammettere o meno è da lì che occorre ripartire per ricostruire, insieme, un’altra idea di Paese. Più moderno, inclusivo, unito nei territori, nelle generazioni e nei suoi valori di fondo.

Signore, io sono Irish…

Un vecchio e indimenticato pezzo dei New Trolls negli anni 70 descriveva la domenica di uno schiavo nero che, dopo una durissima settimana impiegata a raccogliere il cotone, il giorno del riposo si trovava costretto a fare 60 miglia a piedi per andare e tornare dalla messa.

Allora la domenica aveva questo duplice scopo: riposare e dedicare a Dio, per i credenti, il settimo giorno. Riposare significava recuperare veramente le forze. E non metaforicamente. Da allora molte cose sono cambiate. Nel lavoro, nel vivere la propria religiosità e nel dare significato al termine “riposo”.

Per il lavoratore coinvolto in una particolare attività economica e per quello che, quel giorno, lo utilizza per trasformarsi anche in consumatore. Sul lavoro festivo, purtroppo, si va da un estremo all’altro.

L’outlet di Serravalle Scrivia, suo malgrado, rischia di trasformarsi in una sorta di linea di confine. Finirà come sempre. Da una parte la narrazione dei contrari al lavoro domenicale quasi esclusivamente sui media, dall’altra la realtà di migliaia di lavoratori/consumatori che, quel giorno, come in tutte le altre festività, affolleranno l’outlet per passare una giornata di festa magari con qualche acquisto.

Un outlet, un grande centro commerciale ma anche un supermercato dovrebbero essere aperti sempre. Soprattutto oggi dove i concorrenti sono del livello e dell’aggressività commerciale di Amazon o E Bay. Questi ultimi con negozi virtuali aperti tutto l’anno h 24 con saldi a getto continuo per tutto l’anno. Se non fossero frequentati anche nei giorni festivi non avrebbe alcun senso tenerli aperti. I costi di gestione sarebbero pesantissimi.

Domenica scorsa sono stato al “Centro” di Arese. C’erano decine di migliaia di persone. Famiglie, giovani, un po’ di tutto. Dal 1963 al 2005 c’era l’Alfa Romeo. Poi più niente. Sono cresciuto a due passi dal Portello a Milano. Anche lì fino al 1963 c’era l’Alfa Romeo. Poi il nulla. Il centro commerciale ha rivitalizzato il quartiere e trasformato un luogo degradato in un centro di incontri e di svago tutto l’anno.

A differenza di altre città Milano ha saputo interpretare bene il passaggio da città industriale a città del commercio e del terziario. Ha gestito con intelligenza le contraddizioni tra Grande e piccola Distribuzione. Ha assorbito gli inevitabili contrasti. Questo ha creato occupazione vera. Sopratutto per molti senza alcun titolo di studio, donne e giovanissimi anche provenienti da altri Paesi.

Occorrerebbe prendere atto che come la televisione si è trasformata negli anni in un antidoto alla solitudine per molti anziani questi centri sono diventati accoglienti, pieni di vita e luoghi frequentatissimi tutto l’anno. E non solo per fare acquisti. Negarlo o far finta di non vederlo è un errore.

O meglio è uno di quei residui di atteggiamento fine 900, un po’ snob, che comprende anche il giudizio sui Mc Donald’s, sulla Coca Cola, sul terziario in generale visto come ancillare rispetto ad un mondo che non esiste più. Personalmente poi, lo dico sommessamente,  provo un certo imbarazzo per tutti quei laici che si nascondono dietro il tema religioso esclusivamente per sollevare un inutile polverone..

Per centinaia di migliaia di persone lontane da questi dibattiti sono luoghi dove passare il tempo. Sarebbe ora di comprenderlo e guardare avanti. Anche perché il lavoro sarà sempre più terziario. Povero o ricco di contenuti che sia.

L’amico Giuseppe Sabella centra il problema quando invita a riflettere su di un punto: “Il lavoro futuro passa inevitabilmente per una nuova umanizzazione dei luoghi di lavoro. E, chiaramente, il lavoro festivo va pagato come tale.” Sono perfettamente d’accordo.

Per questo ci sono i contratti di lavoro che devono evolvere proprio perché il lavoro cambia. Aprire 360 giorni all’anno non significa lavorare tutto l’anno. Significa organizzare il lavoro e i riposi e retribuire il giusto. E il giusto lo si deve concordare  nei contratti di lavoro.

Ma il lavoro nel terziario resta profondamene diverso da quello industriale. Ruota intorno al servizio, non al prodotto. Si dice: “ma all’estero non è così”. È vero. Il tessuto distributivo degli altri Paesi e le regole sono diverse. Anche il tessuto industriale, però, è diverso.

Ogni Paese ha le sue regole, i suoi contratti di lavoro e una cultura commerciale differente. Si aggiunge: “C’è molto lavoro povero”. Si. Però  questo fornisce uno sbocco a migliaia di giovani, sopratutto donne che non proseguono gli studi e che possono entrare nel mercato del lavoro e crescere. E, assicuro i più scettici, la formazione messa a disposizione nella Grande Distribuzione è di notevole entità e qualità.

C’è molto da fare sul piano contrattuale. Certo che si. Verso il basso perché il fordismo è entrato nei centri di Distribuzione, nelle attività di consegna e nel lavoro povero della GDO e verso l’alto anche in quegli stessi o in altri settori. C’è da affrancarlo proprio dalla cultura fordista senza però dimenticare che molti di quei lavori saranno presto sostituiti da macchine o direttamente dai consumatori stessi.

Francesco Riccardi sull’Avvenire esagera quando scrive: “I sindacati – e in particolare la Cgil – hanno compreso da tempo, però, che in gioco non c’è tanto e solo una questione contrattuale su orari e retribuzioni, che si possono sempre negoziare, ma qualcosa di assai più prezioso: i diritti di ciascun lavoratore e di tutti…”.

Mi sembra francamente una esagerazione. Non credo che i sindacati si siano mai proposti di bloccare a Pasqua o in altri periodi, Gardaland, i parchi tematici o le multisale cinematografiche. Non c’è molta differenza e anche lì lavorano, pur nel rispetto dei loro diritti, migliaia di lavoratori del terziario.

A suo tempo Confcommercio pose il problema della regolamentazione delle aperture cercando di consentire alle Regioni uno spazio di manovra soprattutto quando, nel gennaio del 2012, entrò in vigore la riforma c.d. Salva Italia del Governo Monti, con la liberalizzazione totale degli orari di apertura, 24 ore giornaliere e 365 giorni l’anno.

Non ci fu nulla da fare. Né nessuno (anche di chi oggi protesta) disse nulla. Comunque Federdistribuzione conferma un aumento degli occupati significativo a seguito della liberalizzazione. Che di questi tempi, non credo sia comunque da sottovalutare.

ALI…Taglia?

La domanda che si pone oggi il sempre più interessante Mario Sechi sul Foglio sulla vicenda Alitalia è centrale: “Perché il mercato globale delle compagnie aeree ha registrato nel 2016 profitti netti aggregati pari a 35,6 miliardi di dollari e invece Alitalia sta(va) per fallire?”

Prima dell’arrivo di Luigi Gubitosi il piano era già scritto da settimane sui giornali: duemila esuberi e il taglio del 30 per cento dello stipendio dei piloti. Del piano industriale, intendendo con questo un piano di vera svolta, nessuna traccia.

Anche oggi di quel piano non se ne sente parlare. Ovviamente non un progetto generico scritto per non turbare la politica in altre faccende affaccendata o i sindacati preoccupati per l’insieme dei lavoratori ma un piano vero, oggettivo, utile ad uscire finalmente dalla drammatica situazione in cui l’azienda è costretta. Oppure in grado di annunciare verità ormai non più rinviabili per i costi che il nostro Paese deve e dovrà continuare a sopportare in mancanza di scelte definitive.

Nelle ristrutturazioni aziendali di grande portata la qualità e la competenza del management messo in campo sono fondamentali. Così come la conoscenza del contesto politico/sociale e del comparto economico relativo. Oltre ai freddi numeri che hanno solo lo scopo di delineare il nuovo perimetro aziendale occorre saper proporre una visione, ingaggiare chi deve sostenerla e convincere i sindacati che la strada che si vuole intraprendere è inevitabile ma anche positiva per quella parte dell’azienda che resta è che quindi è chiamata a scommettere sulla prospettiva.

Per poter realizzare tutto questo la missione affidata dal consiglio di amministrazione ai migliori cacciatori di teste è di individuare i manager più performanti sul mercato internazionale che possano dimostrare, nei progetti seguiti e attuati, le loro attitudini e capacità di muoversi in contesti complessi portando qualità e innovazione strategica. A questo dovrebbe seguire un assessment di tutto il management interno con lo scopo di valutarne la qualità e le caratteristiche in relazione al piano industriale da predisporre. Convinta, ingaggiata, resa protagonista e messa bordo la nuova prima linea è l’unica e la sola referente dell’insieme dei collaboratori.

Da qui in poi il confronto con il sindacato, soprattutto se l’azienda è in “zona Cesarini” cioè ad un passo dai libri in tribunale, deve essere costruttivo, serio e trasparente. La vicenda Alitalia non sembra avere nulla di queste caratteristiche forse perché, per alcuni autorevoli osservatori, non esiste già più alcuna possibilità di ristrutturazione e di rilancio anche perché  le scelte fatte fino ad ora, sembrano piu in linea con il passato, che in sintonia con un futuro auspicabile.

Personalmente non ci voglio credere. Un vecchio proverbio arabo recita: “Tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Alitalia non è e non sarà più l’azienda con oltre ventimila dipendenti né la compagnia di bandiera.

È un’azienda che oggi non supera i dodicimila e che perde ogni giorno centinaia di milioni di euro Dispone di una flotta di 121 aerei e, nel 2016 ha trasportato 22,6 milioni di passeggeri Conta circa 8o destinazioni ed ha 6 basi di riferimento sul nostro territorio. Il fabbisogno economico, da qui alla fine dell’anno arriverebbe a circa 900 milioni.

Per banche e creditori vari l’unica soluzione è il taglio dei costi che, da solo, non porta probabilmente da nessuna parte anche perché siamo quasi ad aprile. I ministri dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e dei Trasporti, Graziano Delrio, in un comunicato diffuso al termine dell’incontro con i vertici della compagnia aerea hanno dichiarato: “È un piano molto ampio che contiene numerosi elementi da approfondire e che richiede un’implementazione rapidissima».

Il neo presidente Gubitosi non è Marchionne e l’Alitalia non è la Fiat. E non vedo sindacalisti direttamente coinvolti in grado di assumersi responsabilità in prima persona come hanno fatto FIM e UILM nella vicenda FCA. Inoltre il Governo, oggi, non può permettersi né di avallare un’uscita dal contratto nazionale né un piano indigeribile per i sindacati.

Eppure la vicenda Alitalia è paradigmatica di quello che oggi è il nostro Paese. Ed è per questo che la soluzione marcherà in modo indelebile la qualità di chi si siede fa al tavolo. Politici, sindacalisti, azionisti e banche.

Abbiamo davanti a noi le vicende che hanno coinvolto compagnie in situazioni veramente critiche come Swiss Air, Iberia, Vueling i cui vertici hanno saputo puntare su piani aziendali innovativi seppur molto pesanti.

Di fronte a questa azienda e ai suoi problemi ci si può rassegnare alla sua fine ineluttabile accettando un piano che va bene a tutti ma che pregiudicherà, posticipandone solo la fine, il futuro per migliaia di lavoratori. Oppure fare ciò che serve.

Il punto, però, non è trovare un accordo a qualsiasi costo. È scontato che lo si troverà. Il punto è che questo accordo segni finalmente una svolta vera utile all’impresa, ai lavoratori che resteranno e al Paese.

Una inutile dimostrazione di forza

Certe notizie non si vorrebbe mai leggerle. Un operaio licenziato per inabilità al lavoro dopo un trapianto è una inutile dimostrazione di forza. In quell’azienda c’è qualcuno che ha sottovalutato l’intera vicenda, l’ha gestita con altrettanta superficialità e ha suggerito ai vertici aziendali una soluzione boomerang.

Solo per questo, dovrebbe essere contestato. Per l’accanimento verso il lavoratore che, giustamente, è costretto a tutelare i suoi diritti nelle sedi opportune, per tutti i collaboratori che assistono indignati ad un comportamento aziendale che domani potrà essere riservato anche a loro, per l’immagine pubblica di un’impresa (soprattutto se multinazionale) che non può permettersi di trovarsi al centro di polemiche di questa dimensione nel 2017.

Solo pochi anni fa, in un’azienda importante della Grande Distribuzione del comparto non food, un dirigente, colpito da una gravissima malattia fu gestito, fino alla fine, con tutta la cautela e gli ammortizzatori necessari ben al di là di ciò che prevede il Contratto nazionale. Dal vertice aziendale, dai colleghi e dai collaboratori. Sono tanti i casi virtuosi che andrebbero sottolineati con altrettanta convinzione.

L’azienda è una comunità che ha il suo punto di forza nel clima interno. Questo è determinato da un insieme di fattori che superano le disposizioni aziendali e i contratti firmati, che vanno certamente rispettati, ma modellati sulle persone. I valori a cui quell’impresa si ispira, il rispetto reciproco, l’ascolto e la comprensione dei problemi che vivono i collaboratori dentro e fuori il luogo di lavoro e i comportamenti concreti dei capi e dei colleghi ne costituiscono la base su cui l’impegno e il coinvolgimento sugli obiettivi aziendali possono o meno realizzarsi.

È certamente vero che ogni azienda ha una sua cultura che determina i comportamenti del management e quindi la coerenza generale degli atteggiamenti che vengono premiati o che inibiscono carriere e qualità del lavoro dei singoli collaboratori ma certi limiti non andrebbero mai superati.

Nelle riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, nei confronti quotidiani tra capo e collaboratori, nei processi di valutazione interni il rispetto reciproco è fondamentale. I casi di gravi malattie sono addirittura normati nei contratti più avanzati.

Nell’ultimo contratto dei dirigenti del terziario, ad esempio, il periodo di comporto ordinario è stato fissato in 8 mesi, mentre la precedente formulazione del CCNL prevedeva un periodo di 12 mesi. Tuttavia, in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, possono essere prolungati fino ad ulteriori 180 giorni, estendendo la precedente tutela fino ad arrivare ad un periodo complessivo di conservazione del posto di lavoro con corresponsione dell’intera retribuzione di 14 mesi. È questa è solo una dimostrazione di come le parti (in questo caso Manageritalia e Confcommercio) affrontano il rischio di abuso di uno strumento abbassandone la copertura ma condividendo una soluzione intelligente per chi ne dovesse avere veramente bisogno.

Nascondersi dietro il fatto che l’inidoneità di un lavoratore rispetto alla mansione giustifichi il licenziamento non assolve l’azienda se esiste una soluzione alternativa. Tra l’altro, in questo caso, l’età del lavoratore e la sua lontananza dalla pensione rende difficile individuare altre soluzioni di natura economica.

Per queste ragioni una impresa attenta al contesto interno ed esterno non dovrebbe mai trovarsi in situazioni cosi riprovevoli né essere costretta a prenderne atto per la reazione dell’insieme dei suoi lavoratori. Il danno di immagine è fatto. Purtroppo. Resta solo l’intelligenza del vertice aziendale nel prenderne atto e nel rimediare immediatamente.

Il lavoro che verrà, è già qui…


La reazione del Ministro dei Trasporti sulla povertà dei contenuti lavorativi dei consegnatari di Foodora è piaciuta al segretario della CGIL Susanna Camusso. In effetti è un lavoretto.

La cosiddetta new economy genera anche modeste attività di consegna. Lavoro povero. Così come la nuova logistica genera, a sua volta, lavoro poverissimo. Vale anche per Uber che trasforma normali pensionati o disoccupati in neo tassisti part time o Airbnb che trasforma la vicina della porta accanto in una affittacamere. Non è tutto oro quello che luccica.

Alcune grandi multinazionali “approfittano” delle esigenze di reddito di un ceto medio impoverito per crescere in assenza di regole. Ma questo è un altro tema. I lavoretti sono sempre esistiti. Prima c’era il cassaintegrato in nero che sostituiva l’artigiano o l’universitario trentino che raccoglieva le mele nella Val di Non, oggi sostituito da immigrati rumeni.

Cosa sta cambiando allora nel lavoro? Per tanti lavoratori tradizionali, apparentemente nulla. Ci sono ancora operai, impiegati pubblici e privati, lavoratori dei servizi o della Grande Distribuzione per i quali non è cambiato il contenuto del loro lavoro. Per ora.

È cambiato però completamente il contesto nel quale, anche questi lavori vengono eseguiti. Molte delle loro imprese, se hanno un mercato globale devono cambiare, innovare, riorganizzarsi, comprimere anche i loro costi, impegnarsi in investimenti ad alto rischio per poter competere e rispondere alle richieste di flessibilità imposte dalle filiere globali nelle quali sono inserite.

Le aziende dove lavorano nascono e muoiono con una rapidità sconosciuta fino a poco tempo fa. E quindi, pur impegnati in una attività tradizionale, devono essere preparati a cambiare molto più spesso dei loro genitori.

Se le loro aziende interagiscono nel mercato interno devono competere con nuovi soggetti economici che operano in altri Paesi con regole diverse, controllano funzioni o mercati a monte o a valle, cambiano offerta e domanda di beni e servizi. Condizionano i consumatori.

Anche le imprese manifatturiere tradizionali sanno che, al prodotto, pur innovativo e al processo tecnologico che serve a metterlo sul mercato, devono predisporsi ad un salto culturale e aggiungere una serie di attività che assicurino nuovi servizi per il cliente o per il mercato di riferimento.

La parte di manifattura tradizionale e il lavoro che in essa si svolge, pur evolvendo necessariamente verso modelli non fordisti, perdono di centralità per l’impresa nel suo complesso che deve saper fare anche altro per competere.

La nuova cultura del lavoro nasce da qui. In un mondo che cambia, una parte delle mansioni e dei mestieri, pur necessari e numerosi, normati dalla contrattazione e dalle leggi nella seconda parte del 900, perdono valore economico e riconoscibilità sociale mentre ne nascono altri. Alcuni, pur non normati, sempre poveri come contenuto, altri di maggiore contenuto professionale per le capacità e per le competenze richieste.

Stabilire regole comuni di entrata nel mondo del lavoro, pensare che queste opportunità siano a disposizione di tutti allo stesso modo, definire norme indifferenziate, luoghi di lavoro tradizionali, orari e strumenti di lavoro identici per tutti è una operazione inutile. O meglio è una riproposizione di uno schema che non può funzionare.

A fronte di un “accanimento terapeutico” di norme e leggi prodotte da giuslavoristi, prima e da economisti, poi, la stragrande maggioranza delle imprese ha scelto di “gestire dinamicamente” leggi e contratti cercando di ridurne l’effetto frenante sul business e sull’organizzazione. Sfruttandone le potenzialità o lasciandole in un cassetto. Contando anche sulla sostanziale ritirata del sindacato dalle problematiche gestionali dell’impresa e dalla convergenza che si crea con l’insieme dei lavoratori in caso di crisi o di necessità particolari.

La positività di alcuni contratti sta proprio nella libertà che lasciano alla singola azienda di adattare norme e regole alle esigenze. Non è un caso che il Contratto Nazionale del Terziario lascia, meglio di altri, questa flessibilità ed è per questo è utilizzato da migliaia di aziende di differenti settori merceologici. Così come non è un caso che è proprio l’ultimo residuo di cultura fordista commerciale, la Grande Distribuzione, che spinga per un contratto nazionale dedicato tutto concentrato sul costo.

E qui sta un altro paradosso su cui riflettere. La modernità del modello organizzativo della GDO era tale nel 900. Oggi non lo è più. Deve competere con modelli tipo Amazon che la insidiano sempre di più in termini di organizzazione delle vendite, delle promozioni, degli orari di vendita, del rapporto con i consumatori.

E questo spinge tutta la GDO a continue riorganizzazioni con forti  pressioni e aggressività sui costi, innanzitutto su quello dei fornitori e del lavoro, che si riflette inevitabilmente sulle relazioni sindacali e con i fornitori.

Così mentre molti piccoli esercizi si stanno in parte attrezzando e oggi, attraverso una evoluzione digitale alla loro portata accrescono il loro potenziale di mercato, la GDO si avvita su se stessa senza riuscire ad innovarsi nei format di vendita. Anzi, il modello di riferimento, gli ipermercati, rischia di trovarsi in una crisi irreversibile.

Per tutto queste considerazioni il lavoro che verrà è già qui. Intreccia il suo lato povero o tradizionale su cui occorre trovare risposte diverse dal 900 che assicurino diritti di cittadinanza esigibili, un salario minimo, dignità nuove e un welfare contrattuale adeguato. Ma presenta anche nuove opportunità, soprattutto per i più giovani e per coloro i quali vogliono crescere professionalmente. E per le aziende che vogliono investire su se stesse e sui propri collaboratori.

Per queste imprese le regole devono essere lasche, intelligenti, costruite per motivare, coinvolgere e raggiungere gli obiettivi di business. Non legate a modelli superati.

Lavorare a questa nuova impostazione che comprenda gli uni e gli altri con le rispettive differenze dovrebbe essere il compito delle parti sociali e degli esperti della materia. Al centro attraverso leggi e contratti nazionali evoluti, in azienda coinvolgendo i diretti interessati.

Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.

Terziario si, però secondi a nessuno…

Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio, lo ricorda spesso. “Terziario si, però secondi a nessuno”. Più che uno slogan azzeccato è un dato di fatto. Il terziario di mercato, visto sempre con una certa superficialità da chi proviene da una tradizionale cultura industrialista, ha una suo perimetro, un potenziale di crescita sempre più importante, un peso sul PIL del Paese ben superiore a quello di altri settori merceologici. E anche negli anni della crisi ha messo a disposizione un importante contributo per consistenti sbocchi occupazionali soprattutto a vantaggio delle giovani generazioni.

Un importante contratto nazionale firmato da Confcommercio che consente a decine di comparti economici del terziario di mercato, pur diversi tra di loro, di trovare costi ragionevoli e flessibilità necessarie, una bilateralità che sposta, su alcune materie, fuori dalla singola azienda il rapporto tra sindacato e impresa rendendolo utile, funzionale e meno conflittuale, un significativo welfare contrattuale che sostiene centinaia di migliaia di lavoratori sul versante della sanità e della previdenza.

Ai manager del terziario inoltre è riservato un contratto innovativo che consente alle imprese un ottima base sulla quale poter personalizzare il rapporto e ai dirigenti stessi di poter contare su un welfare importante ma anche ad un “diritto soggettivo” alla formazione e quindi una garanzia di maggiore occupabilità, in vigore fin dal 1994. È un perimetro ben presidiato. Così come legittimamente altri presidiano da anni il loro perimetro.

L’inevitabile tramonto della cultura fordista pone un problema di fondo alle imprese manifatturiere. Industry 4.0 segnala la necessità di una terziarizzazione di molte attività, ridimensionando la pur importante parte legata alla classiche attività industriali che sposti sempre più l’attenzione verso il cliente e quindi verso il servizio ciò che era quasi esclusivamente una cultura di prodotto o di processo.

Lo stesso problema permane, seppure con pesi differenti tra le diverse organizzazioni, nella cultura del sindacato di matrice industriale che spesso fatica a comprendere che il ruolo del servizio, del cliente e della persona ritornano ad essere centrali ma questo necessita di nuove forme di coinvolgimento, personalizzazione incentivazione e organizzazione che tendono, per loro natura, a privilegiare il rapporto tra azienda e persona, integrare i processi a monte e a valle dell’impresa stessa, riducendo inevitabilmente ruolo e peso delle rappresentanze sindacali. Oppure a riorientarne l’iniziativa.

I contratti fino ad ora firmati, se togliamo, le intuizioni, le intenzioni e, spero, gli impegni da onorare contenuti nell’ultimo rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, ripropongono sostanzialmente uno schema classico. 

Non sono previsti scambi significativi, derogabilità di istituti anche economici, indicazioni per eventuali esigenze di flessibilità organizzative. Soprattutto quando le imprese intendono investire in aree innovative con i rischi conseguenti o gestire momenti di difficoltà.

La logica tradizionale, tipica delle relazioni industriali mutuata dalla grande impresa manifatturiera fordista, è che i contratti, siano essi nazionali o aziendali, si basano su una scontata omologazione e omogeneità degli accadimenti e delle risorse umane coinvolte lasciando l’eventuale necessità di reagire al contesto e/o la personalizzazione solo all’iniziativa dell’azienda.

Non c’è alcuno spazio definito o da concordare per la specificità dell’impresa, della sua fase economica, del riconoscimento del merito individuale dei collaboratori, della distribuzione del tempo di lavoro nelle fasi di start up di attività, ecc.

Se prendiamo, ad esempio, come viene affrontata la malattia del lavoratore, oggi ritornata di attualità nel Pubblico Impiego, osserviamo in modo plastico la differenza di impostazione tra i contratti. Quelli di matrice industriale considerano il problema solo sul piano quantitativo. Esiste un diritto, uguale per tutti e per un certo numero di giorni. Tutto il resto non riguarda le parti. Semmai riguarda le ASL, i controlli fiscali o l’azienda stessa attraverso premi legati alla presenza.

Nel CCNL del terziario, firmato da Confcommercio, le parti concordano che determinati comportamenti negativi e ripetuti possono cambiare qualitativamente i contenuti concreti di quel diritto. Se ne assumono la responsabilità delle conseguenze modificandone, addirittura, il corrispettivo economico. È quindi il punto di osservazione che cambia.

Il primo, di stampo fordista, tende a considerare tutti allo stesso modo perché il comportamento individuale non è  ritenuto significativo. Il secondo, al contrario, lo considera un elemento dirimente di cui le parti se ne devono fare carico.

Ho scelto deliberatamente un argomento su cui permangono profonde differenze di giudizio solo per dimostrare la differenza di approccio. E così vale per la costruzione e la gestione di molti altri istituti contrattuali. La differenza non è marginale. È innanzitutto di atteggiamento culturale.

Il recente contratto dei metalmeccanici, ad esempio, propone significati elementi innovativi che vanno nella direzione di ridurre quel vuoto. Affidando alla contrattazione decentrata questi compiti. Ma il vuoto permane ed è il prodotto di una cultura specifica, di scelte precise decise negli anni e la strada per ridurlo è decisamente più complessa di ciò che può evidenziare un’analisi non approfondita.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…

Giovani e famiglie tra scuola e lavoro..

Il più efficiente head hunter che ho conosciuto è stato don Angelo Recalcati. A Milano da via Mac Mahon e fino al Portello non si occupava solo delle nostre anime.

Gestiva per conto delle laboriose famiglie operaie insediate nei casermoni popolari il rapporto tra loro, i loro figli, le scuole del quartiere e il mondo del lavoro. Per lui valutare le soft skills non era un problema.

Ci vedeva crescere, ci osservava quotidianamente, ci spronava e ci riprendeva. Non aveva bisogno di test di Rorschach o di Assessment. I suoi giudizi valevano una sentenza di Cassazione.

Consigliava i genitori sui percorsi scolastici su cui indirizzare i figli, parlava con i maestri prima, e poi con i professori, telefonava alle aziende preannunciando l’arrivo di CV in preparazione di futuri colloqui di lavoro.

Nei ragazzi valutava due aspetti: merito, inteso come impegno negli studi e nella vita dell’oratorio e comportamento, inteso come qualità della persona. Su queste due “semplici” valutazioni suggeriva ai genitori la continuazione degli studi o proponeva un lavoro in banca, in un negozio o in una fabbrica.

Don Angelo era una figura mitica. Fondamentale per la crescita del quartiere, dei legami comunitari e della formazione di giovani che crescevano in famiglie provenienti da tutta Italia, portatrici di tradizioni e culture differenti, impegnate nel lavoro e quindi poco disponibili, in termini di tempo, a seguire direttamente l’educazione dei propri figli.

Difficile oggi trovare punti di riferimento con queste caratteristiche. La scuola si è ormai chiusa nella sua autoreferenzialità, la parrocchia è sempre meno autorevole e frequentata, il mondo del lavoro è complesso, lontano e non sempre disponibile a relazionarsi con i contesti locali.

Questa situazione contribuisce a disorientare le famiglie sempre meno preparate ad aiutare i figli nelle scelte di studio o di lavoro. Purtroppo tornare indietro è però impossibile.

Adesso ci proverà l’Anpal l’agenzia per le politiche attive del lavoro partorita dal Jobs Act e diretta da Maurizio del Conte. 1000 professionisti da ingaggiare che da qui al 2020 si occuperanno di stabilire un ponte tra i due mondi. Partendo dalle oltre cinquemila scuole superiori e università distribuite su tutto il territorio nazionale.

Anche se una figura come don Angelo non è più rintracciabile non si parte comunque da zero. Molte scuole tecniche e professionali lavorano da tempo con le aziende. Così come alcune università. Questo patrimonio non va certamente disperso né appaltato. Anzi.

Fuori da questo perimetro di impegno e di visione c’è però il vuoto. Non basta la buona volontà di qualche professore a superare una cultura che vuole mantenere muri solidi che impediscano una comunicazione positiva tra i due mondi. Per questo l’impegno dell’Anpal va condiviso e sostenuto.

È ovvio che non basta. Don Angelo non si occupava “solo” di trovare il lavoro, contribuiva a disegnare una comunità, educava a dei comportamenti, cercava di costruire dei cittadini consapevoli. Il punto vero forse sta qui.

Un dialogo positivo e costruttivo tra i due mondi porta con sé delle implicazioni non di poco conto perché rende probabilmente necessario cambiare il senso dell’istruzione attualmente impartita, in modo da trasformarla in un apprendistato “guidato” di vita vera. Non solo aziendale.

Il lavoro, le sue regole e chi dovrebbe riscriverle..

La vicenda dell’arresto di un esponente del SI Cobas a Modena porta alla luce ancora una volta quell’area del lavoro di confine dove non esistono regole né contratti né rispetto per la persona lontano dal controllo delle imprese sane e del sindacato confederale e fondamentalmente in balia di se stesso.

Coinvolge lavoratori immigrati, giovani (soprattutto in certe aree del sud) che abbandonano gli studi, donne che cercano di rientrare nel mercato del lavoro, over 50 espulsi dalle aziende, giovani in attesa di trovare una occupazione. Disoccupati, pensionati o assistiti a vario titolo. Pagati in nero, sottopagati, costretti a subire tagli della retribuzione per “servizi” imposti dal caporale di turno o per restituire all'”imprenditore” parte del guadagno come “ringraziamento” per l’assunzione.

Che lo si voglia ammettere o meno, un terzo della nostra economia, ogni giorno costringe centinaia di migliaia di persone a lavorare sul confine che passa tra legalità formale e illegalità sostanziale. Ben oltre i voucher, ben oltre la gig economy, ben oltre il cosiddetto lavoro povero, seppur contrattualizzato. In questo mondo agiscono intermediari, “scafisti” da terra ferma, imprenditori senza scrupoli, prestanome di attività legali, malavitosi che gestiscono direttamente attività economiche. Ma anche una forma di sindacalismo di confine.

Fatto di minacce, ricatti, strumentalizzazioni. Una forma di sindacato che non si nutre di slogan estremisti né si colloca a sinistra di altri sindacati quando opera concretamente. Funziona sul modello collaudato obiettivo-lotta-risultato. Dove l’obiettivo serve per creare la massa di manovra, la lotta sempre breve ma intensa perché portata anche fuori dai confini della legalità e un risultato che deve essere sufficiente a creare le condizioni per essere riproducibile altrove. Sempre per piccoli gruppi.

È una forma di “guerriglia” permanente dove furti, spaccio, danni e botte ai “crumiri”, minacce ad altre etnie, a capi sono ritenuti effetti collaterali accettabili integrabili con blocchi delle merci e danni di ogni tipo, anche gravi, a terzi. Ovviamente il tutto in orari, situazioni e realtà difficili da garantire un intervento in tempi rapidi dalle forze dell’ordine e dallo stesso controllo delle aziende coinvolte che spesso si piegano a questa logica innescando un meccanismo inarrestabile.

È una terra di nessuno dove avviene di tutto nel silenzio generale. Emerge sempre più spesso nei magazzini della logistica del nord, nelle attività “legali” della malavita organizzata, nell’edilizia, nell’agricoltura ma anche in attività di servizio alle imprese o in piccole attività commerciali danneggiando pesantemente chi opera nel rispetto delle regole.

Al di là di come si concluderà la vicenda di Modena questa è una realtà sulla quale occorrerebbe accendere i riflettori. Innanzitutto perché questo fenomeno non si sta affatto restringendo ma è destinato ad aumentare.

La profondità della crisi, la possibile ripresa senza crescita occupazionale, la ramificazione territoriale dei fenomeni malavitosi, l’affermarsi di attività distributive fondamentali quanto fragili dal punto di vista organizzativo e di gestione del personale, i fenomeni migratori aumentano notevolmente la differenza tra cosiddetti garantiti e non garantiti rendendo sempre meno percepibile il confine tra lecito e illecito così come la necessità di garantirsi un reddito comunque messo insieme.

Se a questo aggiungiamo che (secondo i dati pubblicati ieri dal sole 24ore) “a fine 2016 oltre metà degli occupati dipendenti risultano ancora in attesa di un rinnovo contrattuale (il 50,5% per l’esattezza) e sempre a dicembre, l’attesa media di un rinnovo calcolata sul totale dei dipendenti è di 27,1 mesi, in crescita rispetto ai 22 mesi di un anno fa”. Ci rendiamo conto che la situazione rischia di creare un innesco molto pericoloso al quale non di può rispondere con i timidi segnali di controtendenza emersi sul piano economico e occupazionale.

Pensare di affrontare questa situazione con la “carta dei diritti” proposta dalla CGIL in solitaria o chiamando al referendum su voucher e appalti è come voler affrontare una polmonite con l’aspirina. In un Paese dove oggi un terzo dell’economia reale non rispetta alcunché che senso ha voler continuare a colpire chi, le regole, pur in situazioni di grande difficoltà, cerca di rispettarle? E per colpire quel terzo,  a mio parere, occorrerebbe una convergenza di tutto il Paese.

Le nuove regole andrebbero concordate e proposte insieme, da tutte le organizzazioni di rappresentanza, per essere efficaci.  Non servono fughe in avanti. Pensare di superare le proprie difficoltà organizzative (rinnovi contrattuali, adesioni marginali agli scioperi proclamati nel privato, declino organizzativo, ecc.) lanciando la palla nel campo della sinistra politica e parlamentare aumentandone la confusione serve solo ad aprire ancora di più uno spazio di iniziativa a chi ritiene di poterlo occupare con maggiore diritto perché in grado di reinterpretarlo aggiornandolo e finalizzandolo proprio a disintermediare e quindi mettere in difficoltà le organizzazioni di rappresentanza.

In nessun Paese del mondo si è riusciti a riportare indietro l’orologio del tempo a favore dei “vinti” della globalizzazione con la cultura del 900. Anzi. Bernie Sanders e Jeremy Corbin sono lì a dimostrare cosa succede immediatamente dopo quando si insiste a voler occupare con vecchi discorsi uno spazio politico quando il vento soffia altrove.