Elezioni. Iniziativa politica e sociale

La campagna elettorale sta ormai entrando nel vivo. I diversi schieramenti avanzano le loro promesse. Ciò che appariva impossibile, vista la dimensione del nostro debito pubblico, viene proposto come fattibile e a portata di mano.

Colpiscono tre cose. Innanzitutto la fervida immaginazione pre elettorale dei partiti. La costante sembra essere quella di promettere di abolire ciò che è stato fatto dal Governo in carica e, contemporaneamente, proporre come elemento caratterizzante del proprio agire ciò che non è mai stato fatto.

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Politica e lavoro. Tu chiamale se vuoi elezioni…

C’è solo da scegliere. Si va dall’abolizione della Fornero e del Jobs Act, proposte rispettivamente dalla Lega di Salvini o da “Potere al popolo” all’istituzione del salario minimo da parte del PD. Da una decontribuzione completa per nuovi assunti alle pensioni minime a mille euro proposto da Forza Italia.

Dario Di Vico, nell’editoriale di oggi sul Corriere, (   http://bit.ly/2CVxY4f  ) invita la Politica a prendere sul serio il tema del lavoro. Sembra anche disposto a concedere il beneficio del dubbio alla buona fede di alcune proposte nonostante l’evidente strumentalità della maggior parte delle stesse.

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Giovani e tute blu

Giovani o meno giovani, nessuno pensa al lavoro come maledizione. Sia chi ce l’ha, sia chi lo cerca ma perfino chi se lo immagina, vista la sua giovane età, trova più facile indicare ciò che non vorrebbe trovarsi a fare in futuro.

La pessima performance dei ragazzi in tuta e catene che protestano contro l’alternanza indica esattamente questo. Il mondo degli adulti a questa rappresentazione ha reagito compatto, condannandola. È giusto. Il lavoro, qualsiasi lavoro, non può essere “offeso” o ridotto ad esempio negativo. Soprattutto un lavoro onesto, dignitoso e ancora carico di significato come quello dell’operaio.

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Le organizzazioni di rappresentanza e il rischio di miopia..

A settembre 2017 il CNEL ha certificato 868 contratti nazionali. Probabilmente anche Confindustria riuscirà ad avere il suo contratto del “terziario avanzato”. Sarà il numero 869. Prima o poi toccherà anche a Federdistribuzione. Così saranno 870. E altri verranno poi.

Siamo ormai “alla via così” in gergo marinaro. Tutti sono concordi nel ritenerli troppi. Ovviamente solo quelli degli altri. Ciascuno cerca di delimitare o incrementare il proprio recinto a spese altrui. Nessuno crea le premesse per andare oltre. È una politica francamente suicida.

E questo a scapito anche del sindacato confederale o delle sue categorie che, anziché reagire, abbozzano. Quello che è avvenuto nel perimetro del contratto del terziario lo dimostra in modo inequivocabile.

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Quadro politico e forze sociali. Un passo avanti e due indietro?

Continuando così la prossima legislatura rischia di essere veramente quella del commissariamento del nostro Paese. Da un lato una Politica litigiosa e inconcludente che sembra voler affrontare la prossima contesa elettorale scontrandosi su contenuti tanto popolari quanto improponibili. Dall’altro i corpi intermedi che stanno procedendo in ordine sparso illudendosi, forse, di poter condizionare in modo tradizionale, la Politica.

Il lavoro, le pensioni, le tasse e il reddito dei cittadini diventano in questo modo centrali, seppur posti in modo contraddittorio e superficiale mentre ritornano sullo sfondo la necessità di rimettere in ordine i nostri conti e di ridurre conseguentemente il nostro debito pubblico.

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Se il mismatch tra offerta e domanda di lavoro cambia segno…

Gli anni della crisi e delle ristrutturazioni aziendali hanno portato con sé un mismatch tra offerta e domanda di lavoro di segno opposto a quello lamentato oggi. Bisogna essere obiettivi.

La scuola è stata abbandonata al suo destino, il rapporto tra giovani e imprese si è ridotto ad un problema di costo e, spesso, di mero sfruttamento, gli espulsi dal lavoro oggetto di dumping salariale.

Oggi sembra che qualcosa stia cambiando in profondità. Si è ritornato a parlare di centralità delle risorse umane nei contratti nazionali, di alternanza scuola lavoro, di formazione e di politiche attive.

Confindustria lancia l’allarme e chiede di estendere il più possibile i benefici per le assunzioni dei giovani, le imprese manifatturiere lamentano con sempre maggiore insistenza la difficoltà a reclutare laureati in materie scientifiche. Molti giornali si lanciano in campagne a sostegno delle cosiddette lauree utili.

Occorre rimettere in moto un meccanismo che si è inceppato. Evitando, però, inutili manicheismi. È vero, mancano molte figure professionali richieste dal mercato.

Nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese, nei settori più innovativi. Mettiamo però in fila i problemi. Prendersela con la la qualità in sé di una laurea piuttosto che favorire la crescita di percorsi interdisciplinari è un errore in un Paese che rappresenta, in questo campo, il fanalino di coda in Europa.

Sui giovani in azienda non è sufficiente chiedere sgravi contributivi. Occorre prevedere opportunità di inserimento che valorizzino le attitudini e l’esperienza scolastica. Al cambiamento culturale necessario nelle imprese i giovani potrebbero dare molto se non venissero immediatamente risucchiati dalle logiche e dalle dinamiche tradizionali.

È la collaborazione tra culture e generazioni diverse che può arricchire il mondo dell’impresa e prepararlo alla sfida della competizione globale. Se il messaggio che verrà  fatto passare sarà che assumere giovani è solo conveniente, come pensiamo si comportino le imprese?

Così come occorre lavorare sul versante culturale e sociale per i senior che dovranno rimanere in azienda per lungo tempo e che l’attuale cultura nelle imprese considera sostanzialmente “vecchi” e non recuperabili, lo stesso lavoro andrà fatto sul versante dei giovani, sul loro potenziale contributo e sulla loro capacità di portare nell’impresa un originale valore aggiunto. Ma questo lavoro va condiviso  dagli imprenditori e dai manager. Non solo rappresentato sui giornali.

Negli anni della crisi, “giovane” è stato sinonimo di “tappabuchi” come “anziano” di “esubero potenziale”. Questo è il punto da cui partire. Il mismatch non si risolve invitando i giovani ad iscriversi a ingegneria o a matematica se non hanno quelle vocazioni!

Si risolve innanzitutto ridando valore all’impegno e allo studio, avvicinando i due mondi, rispettando il contributo che i più giovani possono portare in azienda e favorendo tutte le forme di tutoraggio, affiancamento e scambio di esperienze tra generazioni differenti.

Ne guadagnerà il mondo delle imprese e quindi anche il Paese.

Welfare aziendale e contrattuale di fronte a nuove opportunità.

Il welfare aziendale sta assumendo una nuova importante dimensione per le imprese e per i lavoratori. Gli accordi si moltiplicano e diventano pratica quotidiana.

Gli sgravi previsti e le opportunità consentite spingono le parti, a livello aziendale, a comprendere nuovi interessi e nuove idee attraverso i quali motivare i collaboratori, dare maggior valore alle risorse disponibili e migliorare così il clima aziendale.

Siamo solo all’inizio, credo, di un fenomeno che produrrà anche inevitabili effetti collaterali sulla cultura del lavoro del nostro Paese. Non solo perché rimette in discussione il concetto stesso di retribuzione totale (costruita nel passato sul salario e sul suo costante e inevitabile aumento) spingendo il lavoratore a considerarne il controvalore effettivo ma anche perché lo predispone a partecipare alla sua definizione complessiva, a cosa destinare al suo incremento e quindi a stabilire una relazione nuova tra impegno personale, produttività, clima aziendale, valorizzazione dell’impresa nella quale lavora. Ma anche un nuovo ruolo del sindacato e della contrattazione aziendale.

Tutto questo mette in moto una maggiore consapevolezza perché spinge a riflettere, a scegliere, a raggiungere gli obiettivi concordati perché, tra le altre cose, la contropartita è chiara, modificabile nel tempo e sempre più personalizzabile. Avvicina, in sostanza, impresa e lavoro e ne favorisce la collaborazione.

Cosa non riuscita, almeno fino ad oggi, al welfare contrattuale definito nella contrattazione nazionale. Innanzitutto perché è stato percepito come calato dall’alto in una fase storica diversa dove non tutto il sindacato lo ha affrontato e proposto con la stessa convinzione.

La preoccupazione che dietro il welfare contrattuale ci fosse l’accettazione di una sorta di smantellamento del welfare pubblico ha frenato soprattutto la CGIL e alcune sue categorie ma anche molte imprese hanno vissuto quelle intese come improprie, come un costo che, in qualche modo sottraesse risorse altrimenti meglio impiegabili.

Questa visione ha impedito una comunicazione positiva e comune, un coinvolgimento utile a migliorare il clima e a rafforzare un sistema di relazioni che non ha certo giovato all’affermazione stessa del welfare contrattuale.

E questo ha trasformato una brillante intuizione, oggi sempre più fondamentale, in una sorta di tassa aggiuntiva per le imprese e per i lavoratori che faticano, se non lo utilizzano concretamente, a considerarlo di grande interesse e valore.

Soprattutto non ha contribuito a cambiare nulla sul piano culturale e partecipativo delle imprese e del lavoro. Da qui, credo, occorra, oggi, ripartire. L’importanza del welfare contrattuale è decisiva sia nelle grandi aziende che nelle PMI. C’è un problema di masse critiche, di governance e di qualità dell’offerta.

Confcommercio e Confindustria, ad esempio, hanno tutto l’interesse a continuare a parlarsi proprio per le prospettive che possono essere messe a fattor comune, così come il sindacato confederale.

Con una governance moderna, una gestione trasparente e una comunicazione condivisa ed efficace il welfare contrattuale può fare un salto di qualità di cui ce ne è assolutamente bisogno. Sia per valorizzarlo nel confronto con il Governo in termini di servizio e di fiscalità, sia per consentire alle imprese e ai sindacati di valorizzarlo all’interno di un progetto comune nazionale e territoriale di rilancio della contrattazione.

Trovare un equilibrio nelle proposte di welfare (contrattuale e aziendale) che valorizzi meglio entrambe le fonti, renda meno facoltative quelle che influiscono sul futuro previdenziale o sanitario degli individui, le integri meglio lasciano al singolo la libertà di scelta attraverso meccanismi (tipo ticket restaurant) flessibili erogabili anche attraverso convenzioni meno aleatorie o parziali di quelle oggi in essere potrebbe rappresentare una nuova sfida per le parti sociali.

Soprattutto perché l’universalità degli strumenti messi a disposizione, la loro efficacia anche in presenza di discontinuità sul mercato del lavoro, deve essere garantita non tanto e non solo dalla applicazione di un contratto specifico o dall’appartenenza ad un’azienda illuminata ma da un sistema che ne favorisca la flessibilità di utilizzo e quindi dia certezze che solo le parti sociali possono garantire in un contesto evolutivo dei nuovi assetti contrattuali.

FCA Group. Est o ovest pari sono?

“Quando escono notizie del genere – osserva Giuliano Noci prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano– è perché la chiusura dell’operazione è molto vicina o perché qualcuno ha interesse a sabotarla”.

Credo vada inquadrata dentro questa alternativa secca la notizia, apparsa sui giornali, che riguarda i cinesi di Great Wall Motor e i loro interesse per FCA. La Borsa l’ha assunta come buona e ha registrato un significativo balzo in avanti.

Marco Bentivogli ne ha subito individuato la reale pericolosità se propedeutica ad uno spezzatino degli stabilimenti o dei marchi italiani con possibili gravi riflessi sull’occupazione.

Sergio Marchionne ha annunciato la sua uscita da FCA per il 2019 quindi, per allora, l’azienda dovrà aver risolto il problema della sua collocazione nella competizione globale. Fino ad ora, però, FCA ha incassato più rifiuti che interesse. Le ragioni possono essere molte.

Mi soffermo su una, apparentemente secondaria: le caratteristiche del management. Forte, aggressivo e con una visione internazionale. Il CEO Marchionne lo ha costruito a sua immagine e somiglianza. È riuscito a sostituire una mentalità interna che faceva leva su di una presunta “superiorità sabauda” ormai condannata e in via di estinzione con una cultura della competizione a tutto campo tipica dei modelli manageriali anglosassoni.

Un management che crede in se stesso, che non si sente inferiore a nessuno, coeso e determinato. Un management preparato, scaltro e veloce nel “gioco di gambe” che potrebbe rappresentare un problema per chiunque volesse omogeneizzarlo in valori e culture differenti.

Un management costruito più per inglobare e integrare che per essere inglobato. Difficile da rimuovere senza correre il rischio di far ritornare di nuovo l’azienda italiana sull’orlo del burrone. L’operazione Chrysler, da questo punto di vista, si è dimostrata un successo da manuale. Così come, a mio personale parere, è la pubblicizzazione dell’offerta dell’azienda cinese con annesso scorporo di Alfa Romeo e Maserati.

Sul piano globale rappresenta la possibilità per i cinesi di ottenere le chiavi del mercato automobilistico americano nell’era Trump. O meglio ne segnala il rischio se altri interlocutori non si faranno avanti rapidamente.

Personalmente non so valutare, non avendo le competenze del prof. Giuliano Noci, l’impatto sulla filiera produttiva nazionale di questa come di altre scelte e quindi mi astengo da qualsiasi giudizio di merito.

Segnalo solo che il gioco si fa duro. I cinesi, in questo come in altri campi, sono in grado di far saltare il banco. Possiedono i mezzi necessari e una visione di comparto e di Paese molto più unitaria, interessata e integrata di qualsiasi altro continente. Soprattutto un approccio che tende a inglobare rispettando la professionalità e le culture altrui.

Adesso la parola passa ai player che conoscono la spregiudicatezza nel business di Sergio Marchionne e le ambizioni di Trump sulla centralità dell’industria americana. Personalmente credo che l’idea stessa di togliere dal tavolo Alfa Romeo e Maserati possa servire per rendere ancora più credibile l’intera operazione.

Per il sindacato e per l’intero nostro Paese inizia, però, una fase molto complessa. Per questo Bentivogli fa bene a far sentire forte la sua voce. Fino ad oggi l’interesse di FIAT e quello dell’Italia sono sempre stati fatti coincidere.

Sullo scacchiere globale questo potrà continuare solo se la Politica (quella con la P maiuscola) non si perderà in accuse e contro accuse inutili e fuori tempo massimo e giocherà un ruolo propositivo e innovativo. I futuri assetti di FCA non sono paragonabili per immagine, peso occupazionale e dimensione alle beghe con i francesi sulla cantieristica o sulla Telecom.

Seppure meno che in passato, una parte importante del Made in Italy e della recente crescita del nostro PIL passa ancora da lì.

Grande Distribuzione, consumi, lavoro e nuove sfide

L’invito a passare la festività del Ferragosto ovunque meno che in un centro commerciale testimonia una delle contraddizioni evidenti nelle quali si muove l’intero sindacato del terziario.

Una contraddizione che lo costringe a inutili reazioni pavloviane tipo quella di dichiarare una giornata di sciopero coincidente con la festività per consentire ai (sempre meno) lavoratori del settore che non vogliono lavorare quel giorno, di poterlo fare.

Nessun punto vendita è mai stato chiuso a seguito di queste singolari proteste e i carichi di lavoro (non essendo un lavoro vincolato) vengono inevitabilmente distribuiti sui colleghi che non aderiscono alla iniziativa. Quindi “zero problemi” per le aziende.

Nessuno però, tra i sindacati del settore, si è mai interrogato sul perché le persone riempiono i centri commerciali durante le festività, qual’è la loro provenienza sociale, l’eta prevalente o il loro reddito disponibile.

Oppure che la stragrande maggioranza dei frequentatori non compra assolutamente nulla o che i messaggi sindacali di opposizione al lavoro festivo vengono accolti o sottoscritti esclusivamente da chi non andrebbe mai in un centro commerciale in quei giorni.

L’ultimo manifesto unitario prodotto, rappresenta, da questo punto di vista, un capolavoro di ovvietà e di sottile umorismo nel suo claim: “Sei sicuro di voler passare il Ferragosto nella solita galleria commerciale?” Un esperto di marketing ci leggerebbe l’invito a cambiare galleria, sceglierne un’altra per permettere un adeguato riposo agli addetti più che valutare se sarebbe preferibile l”alternativa di Capalbio o Rimini…

L’assurdo è che anche Federdistribuzione rinuncia a leggere la realtà di cosa è oggi un centro commerciale limitandosi a rivendicarne l’apertura in nome delle liberalizzazioni ottenute. Così resta un dialogo tra sordi.

Vedere i centri commerciali come semplice luoghi di sfruttamento del lavoro o di consumo esasperato e non come luoghi di relazione, di incontro o di semplice passatempo ne pregiudica il futuro, ne rallenta l’evoluzione ad esempio, di un possibile vantaggio per i centri storici delle città.

Ne limita le potenzialità culturali e sociali che sono enormi. Soprattutto oggi che la crisi del settore e i segnali che giungono dagli Stati Uniti imporrebbero una capacità di riflessione e di visione che sappia andare oltre le beghe da cortile tipiche dei nostri dibattiti sul tema.

C’è un problema di consumi (qualità e quantità), di rapporto tra luoghi fisici e virtuali, di rapporto tra diversi canali di vendita, di ridisegno delle città sapendo che la dislocazione della distribuzione commerciale (grande e piccola) è fondamentale per contribuire a tenere insieme le comunità. Fino ad oggi si è voluto vedere il problema solo dal versante degli operatori economici o del lavoro degli addetti. Oppure dal punto di vista ideologico. Mai cercando di comprendere il contesto, la sua evoluzione e le necessità di un ruolo per tutti gli attori coinvolti.

Oggi la crisi lo impone. Nella Grande Distribuzione ci sono aziende che si stanno aprendo al contesto nel quale sono inserite. Lo stanno facendo con sperimentazioni, nuove idee e proposte. Manca una riflessione comune senza la quale continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia sulle chiusure o sulle liberalizzazioni necessarie.

Per me resta incomprensibile il ritardo culturale dei sindacati di categoria che si ostinano stancamente a proclamare agitazioni fuori tempo per soddisfare pochi seguaci e a concordare gettoni di presenza o assunzioni aggiuntive per il lavoro festivo.

Così come quello delle associazioni di categoria che dovrebbero prendere atto che la guerra tra di loro è, di fatto, finita.

Nessuno ha perso ma, sia chiaro, nessuno ha vinto. Gli effetti collaterali sul sistema e sugli addetti sono sul tavolo ed evidenti a tutti. Si tratta solo di decidere se affrontarli in un quadro evolutivo e intelligente o subirne le conseguenze.

Ma ci sarà anche lo sciopero 4.0?

Negli ultimi dieci anni gli scioperi che hanno fatto cambiare sul serio una decisione, nel settore privato, si contano (forse) sulle dita di una mano. C’è una certa riluttanza sia a minacciarli che ad indirli. Ma soprattutto a parteciparvici.

Diversi sono i casi come, ad esempio, quelli accaduti alla Reggiani Macchine di Grassobbio o all’Eutron di Pradalunga dove la reazione spontanea dei lavoratori si è manifestata di fronte ad un sopruso inaccettabile contro una collega che rientrava dalla maternità.

O alla Wittur di Colorno contro una decisione improvvida dell’azienda di licenziare un lavoratore gravemente malato. Diversi perché non c’è in gioco una richiesta di aumento salariale o di migliori condizioni di lavoro. C’è in gioco qualcosa di più che ha a che fare con il rispetto delle persone e la dignità stessa del lavoro. Quindi con un connotato fortemente difensivo.

È lo sciopero come rito collettivo, come manifestazione esplicita della presenza di un conflitto tra interessi economici differenti, come strumento di miglioramento della propria condizione, che ha perso di significato. Non c’è un contratto nazionale né aziendale che ha assegnato ai rapporti di forza il risultato ottenuto.

La stessa presenza di milioni di lavoratori senza contratto nazionale dimostra che, laddove i rapporti di forza sono invece stati determinanti, lo sono stati a favore delle aziende.

A questo scenario post conflittuale e post novecentesco le organizzazioni di rappresentanza hanno reagito in modo intelligente innanzitutto rispettandosi e riconoscendosi reciprocamente come portatori legittimi dei rispettivi interessi in campo. Il buon senso, l’accettazione dei rispettivi vincoli e la capacità di individuare sintesi condivisibili hanno via via sostituito nella visione del sindacato l’idea che una vertenza dura o un negoziato difficile dovessero avere anche lo scopo di formare una coscienza collettiva superiore.

Il fatto però che lo sciopero si sia trasformato in un’arma spuntata non significa che non esista la necessità di stabilire nuove regole del gioco. Innanzitutto per evitare la cosiddetta “legge del pendolo” trasferendo semplicemente al solo imprenditore il potere decisionale in materia di lavoro negando alla radice il diritto di tutela degli interessi che restano (su diversi aspetti) divergenti.

Quindi occorre individuare procedure di gestione del conflitto, nuovi luoghi di sintesi e mediazione, tempi e modalità di risposta certi. E occorrerebbe farlo rapidamente. Poi c’è un problema sul lungo termine.

Così come l’industria si è andata via via terziarizzando perché al centro del suo operato c’è sempre meno il prodotto e sempre più il cliente e la sua soddisfazione così per il sindacato il punto di arrivo non può essere quello di rinchiudersi nei reparti di fabbriche sempre più condizionate da vincoli provenienti dalle filiere produttive e distributive nelle quali sono inserite.

E su questo punto credo ritornerà di attualità, rielaborata, l’intuizione di Giorgio Benvenuto, e cioè il “Sindacato dei cittadini” che presentò nei primi mesi del 1986 e che non ebbe lo sviluppo e la fortuna che quell’intuizione avrebbe meritato.

Un sindacato moderno che comprende le esigenze dei lavoratori ma anche nel loro ruolo di consumatori quindi come cittadini. In grado cioè di condizionare con le scelte di acquisto (o di non acquisto) le imprese nella loro decisioni e atteggiamenti.

Non è un caso che, ad esempio negli Stati Uniti, le imprese sono molto attente alla percezione che i consumatori hanno dei loro comportamenti, della loro responsabilità sociale, del loro rapporto con l’ambiente e il contesto socio economico.

La stessa intuizione dell’economista Leonardo Becchetti, assunta anche nello statuto della FIM CISL di “voto con il portafoglio” va in questa direzione. Esprime, in modo concreto e netto la sovranità del consumatore il quale può decidere di usare il suo potere di acquisto e di risparmio per premiare o, punire, aziende responsabili o irresponsabili dal suo punto di vista.

È chiaro che questa è una strategia sulla quale oggi non c’è ancora né una convinzione profonda né una riflessione vera. Ma la strada è, a mio parere, questa. Far crescere una consapevolezza e una maturità nuova nei cittadini e quindi tra i lavoratori che individui nella qualità del rapporto di lavoro, in legittime tutele universali e uguali per tutti, nella condivisione di rischi e opportunità con le imprese la direzione di marcia.

Così come il lavoro 4.0 sarà completamente destrutturato e ricostruito rispetto ad oggi, la composizione dei differenti interessi in campo non può che subire la stessa metamorfosi con esiti imprevedibili, se non governata con intelligenza e lungimiranza.