Bonus, etica, rischi di impresa e management

Il dibattito sollevato nella vicenda Tim/Cattaneo riporta in primo piano i limiti di una cultura che pretende di trovare risposte semplici a problemi complessi. Sostengono alcuni:”Cosa c’è di male di fronte ad una vicenda maturata nel rispetto della legge e della libertà di negoziazione tra le parti?”

Troppo o poco, sono, in questa logica, concetti astratti, fuorvianti financo indebiti. Nessuno ha minacciato nessuno quindi chi pensa di avere qualcosa da dire rischia di passare solo per moralista inconcludente.

Mario Sechi ha pubblicato una classifica interessante. Tanti soldi a molti top manager di lungo corso ma solo due di loro, Flavio Cattaneo (TIM) e Cesare Geronzi (Generali), in un tempo molto breve ed entrambi in settori non di loro competenza. Sarà un caso però anche questo dovrebbe far riflettere.

Parlare di risultati ottenuti è fuorviante. Questa idea che bisogna premiare un top manager ancora prima che entri in azienda (welcome bonus) e alla sua uscita (goodbye bonus…) oltre alle spettanze (seppur molto ben arrotondate) di legge e di contratto la trovo veramente ridicola.

Dicono però i sostenitori della tesi che, nel caso di Cattaneo, lo stesso avrebbe ottenuto risultati eccezionali in un tempo estremamente ridotto. Quindi è giusto premiarlo. Qui siamo, a mio parere, all’assurdo. Un top manager super pagato fa quello per cui è stato ingaggiato e questo suscita ammirazione.

Non ci si scandalizza mai del contrario. Così come non ci si scandalizza che un CDA di quel livello dimostri una così scarsa conoscenza dell’azienda da assegnare obiettivi raggiungibili in un tempo pressoché dimezzato rispetto al punto di partenza. Che strano Paese è il nostro…

Capisco la determinazione che spinge i top manager a tutelarsi dalla volubilità dei CDA ma qui siamo ben oltre ogni logica. Questa vicenda dimostra che un top manager di altissimo livello può pretendere tutele da far impallidire l’articolo 18, non garantire nulla in caso di fallimento con conseguenze sull’azienda stessa o di non raggiungimento degli obiettivi e siglare un patto di non concorrenza (pur non essendo un professionista di quel settore) che serve unicamente per impedirgli di utilizzare (alla faccia del comportamento) le informazioni acquisite, in una azienda concorrente.

E, tutto questo, non avrebbe nulla a che fare con l’etica? Ho conosciuto centinaia di dirigenti di medio e alto livello che hanno rappresentato e rappresentano la spina dorsale delle imprese italiane. Professionisti che si sono costruiti giorno per giorno la loro professionalità e hanno affrontato sfide complesse e che sottraggono tempo alla loro vita privata e agli affetti familiari ma che non hanno nulla a che fare con questa degenerazione del sistema.

Manager il cui obiettivo è fare bene, ingaggiare i propri collaboratori, condividerne le sfide quotidiane senza avere paracaduti nascosti o vie di uscita privilegiate. La stragrande maggioranza dei manager italiani non ha nulla a che vedere con queste eccezioni.

Ma, proprio perché sono tali, andrebbero inquadrate meglio. Leonardo Becchetti ci propone l’approccio di Etica sgr. Lo trovo condivisibile. A chi teme la fuga dei top manager nazionali verso lidi più tolleranti credo sia necessario sottolineare che, generalmente, a certi livelli si arriva anche in forza di impegnative carriere internazionali.

E che l’accettazione di situazioni rischiose per la propria carriera è nei fatti. Ed è comunque tutelabile senza alcuna esagerazione. Se osserviamo la lista proposta da Mario Sechi su LIST (da leggere!) possiamo osservare che molti tra i presenti appartengono ad una elite di fuori quota. Se volessimo quantificarla in termini assoluti non arriveremmo nemmeno all’1% della categoria.

I manager, quelli seri, sanno benissimo che il futuro prevederà sempre di più meccanismi di condivisione dei rischi di impresa. Altro che garanzie…

C’è, purtroppo, un residuo figlio di un tempo che sta volgendo al tramonto dove era solo l’imprenditore a doversi assumere i rischi. Non sarà più così. Ed è meglio che chi non lo ha ancora capito, se ne faccia una ragione.

Quando è troppo….

Flavio Cattaneo se ne va. Ha risanato la Tim quindi ha concluso la sua missione. Difficile pensare che a 54 anni resti disoccupato a lungo. I risultati parlano per lui.

Non ci sarebbe nulla di strano se la vicenda si concludesse con una stretta di mano, un comunicato congiunto e un congruo assegno che consenta al top manager di mantenere il proprio tenore di vita fino ad una nuova sfida professionale.

Per la quasi totalità dei manager italiani questo è l’epilogo previsto dallo stesso contratto nazionale. Ci sono però le eccezioni: alcuni super manager. Loro si autoescludono da questi schemi. A mio parere, esagerano e andrebbero contenuti ben più severamente. L’accettazione di un incarico da parte loro è quasi sempre preceduta dalle richieste di avvocati super specializzati che prevedono, nella stesura del contratto, tutte le opzioni possibili.

Quindi oltre allo stipendio possiamo trovare welcome bonus, i cosiddetti bonus di benvenuto che, nel caso di Cattaneo sembrerebbe ammontare a 2,5 milioni, benefit sostanziosi di vario genere legati allo status e ai risultati di ogni esercizio e infine tutte le clausole rescissorie con le relative contropartite. Tutto questo anche  per evitare qualsiasi contenzioso finale. Sopratutto consente quella “clausola di riservatezza” assolutamente necessaria quando si opera a certi livelli.

Molti, tra i sostenitori dello status quo, ritengono che questi accordi (tra privati) si raggiungono solo con il consenso di entrambe le parti e quindi, sono assolutamente legittimi e non rappresentano alcun problema. Gli oppositori, al contrario, pensano che certe cifre siano comunque fuori luogo anche quando sorrette da risultati eccezionali.

Il caso di Flavio Cattaneo va oltre il caso in sé ed è interessante per una serie di motivi. Innanzitutto, bisogna dirlo in premessa, non siamo in presenza di un bonus erogato comunque pur in presenza di performance negative. Anzi. I dati a disposizione dicono l’esatto contrario. È proprio questa razionalità positiva che, a mio parere, lo rende discutibile quindi ancora di più  “irrazionale”. Purtroppo, ed è vero, c’è chi lo ha preso comunque anche in presenza di performance gravemente negative ma quello, a mio parere, è più paragonabile ad un tipo di reato conosciuto:  il  “furto con destrezza”. 

In secondo luogo l’ingresso in Tim risale a soli sedici mesi fa e il piano da lui presentato fissava in almeno tre anni il tempo necessario per il turn around. Infine il record della cifra in sé rappresentato dal rapporto tra l’entità dell’importo e il tempo trascorso in azienda. Qualcuno ha fatto i conti traducendolo in circa 65 mila euro al giorno. Irraggiungibile.

Quindi una realtà come Tim è stata risanata nella metà del tempo concordata con l’azionista. E qui sta la mia prima perplessità. La qualità della valutazione di partenza.

In altri termini sarebbe interessante capire chi ha valutato così complessa e difficile la situazione di un’azienda di queste dimensioni da rendersi necessario un piano su di un arco di tempo, poi dimezzato. Su quali numeri si basava?

E, se i margini a disposizione erano così ampi, visti i risultati, Il corrispettivo concordato non è forse da ritenersi oggi, da entrambe le parti, eccessivamente generoso?

Il risanamento di un’azienda non è una corsa in pista dove conta arrivare prima. È una maratona. Occorre saper dosare le forze per arrivare in fondo. Conosco molte aziende che non accettano facilmente risultati che si discostano (anche positivamente) da previsioni concordate in sede di budget. E spesso i loro manager vengono giudicati negativamente dai rispettivi CDA.

Quindi, se le cose stanno come si legge sui quotidiani, Tim sembra che fosse in una situazione diversa (o almeno con maggiori opzioni a disposizione)  di come poteva apparire all’arrivo di Cattaneo. O che presentasse margini di manovra ben più ampi. Forse qualcuno dovrebbe risponderne perché oggi, a seguito di quelle valutazioni, l’azienda è chiamata ad un esborso straordinario. Infine l’entità economica della risoluzione del rapporto di cui scrivono i giornali.

Che sia corretta sul piano di ciò che era previsto negli accordi mi sembra fuori discussione. Quindi se fosse una disputa tra ragionieri saremmo a posto. Sommessamente aggiungo però che chi l’ha concordato, a nome e per conto dell’azienda,  mi sembra lo stesso soggetto, diciamo di manica piuttosto larga, che ha giudicato molto più grave la reale situazione economica dell’azienda al momento dell’arrivo del nuovo CEO. Tanto da rendere necessario un bonus stratosferico legato a risultati e tempi di realizzazione medio lunghi. 

Personalmente credo che, comunque la si voglia vedere, l’importo, se confermato, sia fuori da ogni logica. Tim è certamente un’azienda privata che (in teoria) può fare quello che vuole però il suo CDA non può pensare di non essere giudicato da un punto di vista etico per questo. Ma inevitabilmente anche lo stesso Cattaneo.

Certi importi non testimoniano la libertà dei manager e delle imprese ma solo la degenerazione di un sistema in disfacimento. Ai top manager, che occupano posizioni di rilievo nella nostra economia, non può essere consentito di fare contratti dove sono chiari (e spesso garantiti) i soli benefit lasciando le eventuali conseguenze negative, sempre possibili ai soli azionisti o ai dipendenti (manager e lavoratori). Troppo facile.

Così come chi pagherà in futuro  per eventuali conseguenze negative, su Tim stessa, derivate da scelte che nel breve possono apparire corrette ma nel lungo dimostreranno di esserlo molto meno. In molti contratti paracadute, in molti bonus dei top manager, si legge chiaramente il prevalere del tornaconto personale che a volte solo apparentemente coincide con l’interesse dell’azienda nel medio lungo periodo.

Questo è il punto. Nelle aziende ci sono centinaia di manager (dirigenti e quadri) che devono rispettare obiettivi, coinvolgere i propri collaboratori, essere agenti del cambiamento. Soprattutto credere che i loro top manager siamo preoccupati quanto loro dell’azienda di oggi e di domani. Non solo di se stessi. Ecco perché non ha senso dividersi in cinici realisti e moralisti.

Bisognerebbe, al contrario, dividersi tra chi si ferma davanti alla realtà solo per prenderne atto e chi guarda lontano.

Leonardo Becchetti fa bene a ricordarci che anche Ramsete, il grande Faraone egiziano pensava che Mosé fosse un noioso moralista. Abbiamo visto come è andata a finire..

Produttività. E se non fosse solo questo il problema?

Una cosa è certa. Quest’anno (fortunatamente) nessuno prevede un autunno caldo. È già un notevole passo avanti rispetto alle previsioni, che, ogni estate ci annunciano sommovimenti sociali al rientro dalle ferie.

Eppure, nel mondo del lavoro, la situazione permane molto seria. La ripresa c’è seppur in misura inferiore agli altri Paesi. I consumi e l’occupazione, però, restano al palo. Così come gli investimenti.

Dagli 80 euro fino ad arrivare ai quasi venti miliardi spesi per spingere le imprese ad assumere i risultati sono stati abbastanza deludenti.

Dario Di Vico rilancia (  http://2tXQPEL )con una certa dose di buone ragioni l’esigenza di rimettere al centro la questione della produttività e delle relazioni industriali. Le imprese investono con il contagocce, assumono con grande parsimonia e, ai contratti a tutele crescenti, preferiscono i più tranquillizzanti contratti a tempo determinato.

Quello che forse si sottovaluta è che molti imprenditori sono fortemente preoccupati del futuro e quindi non investono nella misura che sarebbe necessaria ad innescare un circolo virtuoso.

La Politica e spesso anche una parte del mondo della rappresentanza, ragiona come se gli imprenditori non leggessero i giornali e si accontentassero delle rassicurazioni, degli incentivi o dei richiami al patriottismo industriale.

L’imprenditore oggi è solo. Molto più di ieri. Al di là di un nucleo importante di multinazionali tascabili o di industrie performanti che fanno sicuramente immagine ma che non fanno PIL duraturo, la stragrande maggioranza delle nostre imprese è sub fornitrice di qualche cosa o di qualcuno che sta altrove e che ne determina continuità produttiva, margini e possibilità di creare lavoro.

L’idea che quell’impresa che non ha alcuna voce in capitolo a quel livello della filiera possa prendersi integralmente i rischi in termini di forti investimenti aggiuntivi e creare di conseguenza occupazione, rischia di essere sempre più impraticabile.  Anche se, in molti casi, può essere una scelta controproducente.

A mio parere due temi restano centrali. Innanzitutto come rimuovere tutti i fattori che ostacolano la competitività delle nostre imprese di cui la produttività è solo uno degli aspetti. E forse neanche il principale se i consumi non dovessero riprendere. Quindi i nodi di contesto (infrastrutture, burocrazia, giustizia).

In secondo luogo il tema della condivisione dei rischi. L’imprenditore, oggi, non ce la fa ad accollarsi integralmente i rischi di investimenti massicci che, a differenza del passato, possono rivelarsi un boomerang da cui rischia di non rialzarsi più.

Su questo terreno qualcosa è stato fatto ma la condivisione dei rischi (e delle opportunità) sarà, che lo si voglia o meno, l’elemento centrale dei prossimi anni alla base di quelle che dovranno essere le nuove relazioni industriali.

Le imprese italiane, salvo rarissimi casi, non occupano posizioni di leadership nelle filiere. Quindi i loro margini sono, e lo saranno sempre più, imposti dai contratti di filiera che di conseguenza determineranno la possibilità o meno di sottoscrivere con i sindacati contratti nazionali o aziendali che siano. Il vero punto di approdo del cosiddetto “Patto della fabbrica” e delle nuove relazioni industriali, se si vuole guardare lontano, sta tutto qui.

Questo è il nodo centrale. Il sindacato confederale deve decidere, prima o poi, se essere della partita o snobbarla e rischiare di subirne le conseguenze. Sulla struttura della contrattazione, sui suoi contenuti e quindi sulla sua stessa ragion d’essere nei luoghi di lavoro.

L’idea di poter svolgere la propria azione redistributiva e normativa in modo tradizionale in un mondo globalizzato e in una situazione di oggettiva fragilità come la nostra, riuscendo a tutelare lavoro, welfare e salario come nel 900 è veramente velleitaria.

Nella prima fase della globalizzazione il capitale poteva semplicemente spostarsi ovunque, delocalizzare, utilizzare il lavoro dove era più conveniente. Il cambiamento indotto dalla trasformazione digitale spingerà le aziende a disegnare ed implementare nuovi modelli di business che consentiranno forti riduzioni di costi e la destrutturazione del lavoro così come l’abbiamo conosciuto e regolamentato nel 900.

Questo processo spingerà, tutti gli attori del sistema, a ridisegnarsi un ruolo attivo o passivo ma è indubbio che i livelli di collaborazione, in azienda, sono destinati ad aumentare. Con o senza il sindacato.

Alla presentazione dell’ottimo libro “Rivoluzione metalmeccanica” di Giuseppe Sabella sulla storia e sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici sia il Direttore Generale di Federmeccanica Stefano Franchi che Marco Bentivogli della FIM hanno condiviso con grande convinzione l’idea del “Rinnovamento” come elemento centrale del rinnovo del loro contratto.

E questo “Rinnovamento” è innanzitutto culturale. È un cambio di fase che è tanto più necessario e trasparente proprio laddove le macerie del vecchio modello sono più eviedenti. Gli altri contratti non hanno colto fino in fondo questa sfida (che non è solo per il sindacato). In quel settore la contrattazione aziendale assume un senso compiuto proprio perché spinge aziende e lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, a cogliere questa esigenza di condivisione dei rischi e delle opportunità.

Ma se a loro è affidato questo compito, ai livelli confederali di imprese e sindacati dovrebbe essere affidato un altro compito, ancora più importante. Contribuire a rimuovere le cause che impediscono al nostro Sistema di essere competitivo.

E su questo mi limito sommessamente a suggerire la necessità che ci sia una convergenza che sappia andare oltre le esigenze di bottega di questa o di quella organizzazione (sindacale o datoriale) e che, al contrario, consenta una convergenza che sappia mettere al di sopra di ogni cosa gli interessi del Paese.

Tu chiamalo, se vuoi, welfare dei consumi…

Difficile trovare chi passi una o più domeniche a osservare i frequentatori di un outlet o di un centro commerciale. Pero sarebbe particolarmente istruttivo  per comprendere le dinamiche sociali.

Così come sarebbe interessante imparare ad osservare i comportamenti dei frequentatori, spesso i più anziani, di un supermercato quando entrano in un punto vendita con un volantino spiegazzato in mano frutto di attente comparazioni su cui sono evidenziati le promozioni.

E come si dirigono con grande determinazione al lineare dove il prodotto è esposto per acquistarlo. E poi, lasciato il primo supermercato, raggiungano il concorrente meno distante dove trovano in promozione un altro prodotto. E così per ore. Il CENSIS lo chiama in modo un po’ borghese il “welfare dei consumi”.

Per le fasce più deboli è, da molto tempo, uno dei tanti modi per far quadrare i conti. Nei paesi dell’est, prima della caduta del muro, era normale partire alla mattina con la borsa vuota e girare alla ricerca di prodotti a buon mercato.

Succede, oggi, anche da noi. La GDO è quindi anche un grande ammortizzatore. Prodotti a buon mercato, luoghi di relazione e mete di relax domenicale. Molti, però, non lo vogliono vedere. Tutti i tentativi di innovazione del marketing nella Grande Distribuzione si sono arrestati davanti al “volantino” e alle tradizionali “raccolte a punti”. Ci sarà un motivo.

Certo ci sono innovazioni. Anche importanti ma il prezzo, la promozione, lo sconto sono ancora elementi importantissimi per molti. Osservare come un pensionato o una massaia capiscono, appena varcata la soglia del supermercato, se quel mese l’insegna punta a fare fatturato o a difendere i margini è fantastico.

Nel primo caso entra e compra nel secondo esce e va altrove. Intercetta tutti i trucchi che i manager commerciali dell’azienda mettono in atto per nascondere le loro politiche. Le stesse insegne vanno spesso in missione dai concorrenti per carpirne e anticiparne le mosse. In una importante catena milanese la vicinanza alle date di scadenza veniva talmente tenuta sotto controllo dai dipendenti stessi per accaparrarsi la merce che sono stati costretti a chiudere alla vendita interna.

Non sono solo i consumatori a tenere sotto controllo le promozioni. Anche i dipendenti cercano di inserirsi. Poi ci sono i furti. O come si preferisce chiamarle: “le differenze inventariali”. Protagonisti clienti e dipendenti stessi. Il numero è altissimo ma si preferisce non parlarne.

Esiste un mondo particolare che ruota intorno e dentro i punti di vendita. I centri commerciali sono, da un certo punto di vista, mete sempre ambite. D’estate per l’aria condizionata, d’inverno per guardare negozi. Nella stagione dei saldi per comprare cercando, a tutti i costi, l’affare.

Negli outlet si affiancano diverse tipologie. Italiani in gita festiva e stranieri portati con il pullman a cui non ha alcun senso spiegare che alcune date sarebbero off limits per i sindacati perché non ritorneranno più una seconda volta.

L’indagine del censis proposta da Di Vico sul corriere (  http://bit.ly/2uLvcYo ) ci racconta anche di una parte del Paese costretto alla sobrietà per necessità, in perenne movimento per scelta, attrezzato per evitare i prodotti civetta che cercano di distrarlo per portarlo fuori strada.

Mi viene da pensare ai tassisti prima dell’uso del navigatore. Conoscevano le vie di Milano con una precisione incredibile. Lo stesso vale per il consumatore costretto alla sobrietà dallo scarso reddito.

Si orienta tra migliaia di referenze, Sa dove acquistare il fresco e il freschissimo migliore, così come la carne e il pesce. Sa dove andare e come orientarsi nei differenti punti di vendita. Conosce tutti i punti deboli e le strategie delle diverse insegne. Ne segue le mosse. Spesso le anticipa.

È vero. Tradisce immediatamente l’insegna al primo segnale di modifica della politica commerciale. Domeniche, festività e h24 non sono fissazioni dei manager delle catene. Fanno parte ormai delle dinamiche dei comportamenti di acquisto.

E c’entra poco indagare su cosa succede nel resto del mondo. In giro per punti di vendita alla ricerca di occasioni si va quando si ha tempo. E se il reddito disponibile non è quello tedesco o quello francese la scelta è obbligata.

La Grande Distribuzione è in evidenti difficoltà. I costi crescono, i margini sono difficili da incrementare, i modelli organizzativi sono radicati, l’innovazione è complessa. Addirittura lo è più di quella possibile per un piccolo esercizio commerciale. Dai discount ai centri commerciali passando dai negozi di vicinato agli outlet e agli specializzati tutte le catene sono impegnate quotidianamente per rispondere ad un consumatore che, è vero come ha confermato il Censis, è tutto meno che fedele.

Però non conosco nessuna insegna che non investa in formazione, sviluppo e crescita del personale più di ogni realtà analoga in altri settori ben più quotati. E che direttamente o indirettamente non cerchi di rispondere a questa popolazione in perenne cammino con risposte concrete e politiche specifiche.

E questo nonostante la crisi dei consumi e la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi di vendita.

L’impresa e il lavoro 4.0 hanno ancora bisogno dell’inquadramento professionale? (2)

Fuori dalle aziende e dalla scuola c’è chi si sta addestrando, a sua insaputa, per il lavoro di domani. Sempre più ragazzini maneggiano tablet, smartphone e altri sofisticati aggeggi elettronici che li formano nell’utilizzo pratico delle nuove tecnologie, nell’accettarne interattività e vincoli e, soprattutto, li spingono a considerare il tempo messo a disposizione come una variabile assolutamente ininfluente.

Restare connessi è normale e scontato. Lo si fa per un obiettivo o uno scopo. Oppure per restare in attesa di obiettivi e scopi altrui. Spazio, tempo e distanza contano sempre meno. Conta la connessione. O c’è o non c’è.

L’azienda di domani, in parte, funzionerà anch’essa così. I più giovani non lo sanno ancora ma, più che digitali, stanno diventano compatibili. Tecnologia sofisticata e connessa che trasmette disposizioni, tempi di esecuzione, modalità applicative.

L’input, in questo contesto, può generarsi ovunque. Così come il controllo e le comunicazioni. Quindi, tre pilastri dei modelli contrattuali del 900, fordista e di quello attuale post fordista, verranno in parte (ovviamente non dappertutto) rimessi in discussione: il tempo, la distanza dalla gerarchia e dai colleghi, il posto di lavoro.

L’orario di lavoro, la sua retribuzione, il luogo dove la relazione con il capo e con i colleghi si manifestano, la distanza e le modalità da dove vengono impartiti criteri e disposizioni di lavoro potranno essere completamente stravolti.

L’azienda tenderà a chiudersi dentro un perimetro fisico e virtuale ben definito proponendo al suo interno valori, linguaggi, modalità di crescita, di comportamento e di coinvolgimento.

Pensare che, in questa situazione, possa restare inalterato o quasi il solo contenitore contrattuale mentre cambia il lavoro, le sue modalità e l’intero contesto relazionale spingerà inevitabilmente imprese e lavoratori a mettere in soffitta sia gli strumenti che i sostenitori degli stessi.

Innanzitutto perderà sempre più di significato la tipologia del lavoro. Tempo indeterminato, tempo determinato, professional, temporary, somministrato, ecc. sono termini destinati a trasformarsi in parole prive di significato concreto.

D’altra parte se viene meno il concetto di orario di lavoro tradizionale diventerà, al contrario, molto importante ciò che si realizza in quel tempo, la sua produttività e quindi il suo riconoscimento economico. Questo comporta che, oltre alla tipologia, anche il relativo inquadramento rischierà di perdere progressivamente di significato.

È il valore del lavoro richiesto ed effettuato, i suoi scostamenti da determinati standard (tutti da ridefinire) che costituiranno l’elemento centrale. Sopratutto se il luogo di lavoro non sarà identificabile in modo tradizionale. Ma anche colleghi e gerarchia potranno essere in più luoghi.

Già oggi buona parte della produzione, di ciò che costituiscono le diverse componenti del prodotto finale di un’azienda, vengono fatti fisicamente altrove. Decine di migliaia di aziende interagiscono tra di loro all’interno di filiere globali.

Fino ad ora, la globalizzazione ha consentito alle imprese di decentrare, delocalizzare e integrare il lavoro di cui avevano bisogno. Queste hanno “approfittato” del costo del lavoro altrui, non hanno ancora “stravolto” il lavoro in sé.

Stiamo entrando in una fase in cui la digitalizzazione e la tecnologia potranno consentire di farlo comprendendo anche forme di un lavoro volontario e semi gratuito che, già oggi, non viene percepito come tale. Così come forme di lavoro povero accessorio o di supporto tipico della cosiddetta economia dei lavoretti.

D’altra parte non stiamo assistendo solo al declino del fordismo ma anche a quello di capitalismo industriale-finanziario, che ha dominato gli ultimi due secoli (che tuttora occupa ancora uno spazio consistente) e dall’affermarsi di una nuova oligarchia a livello planetario che quindici anni fa non esisteva caratterizzata da ingenti disponibilità finanziarie, una enorme velocità nelle transazioni e nelle trasformazioni logistiche, produttive, organizzative conseguenti.

Aziende come Google, Amazon, Alibaba, ecc.,ci mostrano una velocità di sviluppo e una capacità di assorbimento e di ridisegno di business tra loro molto diversi, sconosciuti fino a poco tempo fa ma spingono inevitabilmente anche tutte le altre a abbattere i confini settoriali,  integrare le attività, trasformare il lavoro necessario.

Da un lato le piattaforme logistiche e digitali imporranno una sempre più accentuata automazione di molti lavori. Dall’altro la cosiddetta “gig economy” si diffonderà sempre più acquisendo forme nuove, crescendo di peso così come crescerà la condivisione di prodotti, servizi, esperienze. Ma anche di lavori. Alcuni lavori resteranno sostanzialmente di stampo tradizionale. Altri si “frantumeranno” in più attività dove l’input del secondo sarà l’output del primo.

Gli individui si appoggeranno ad organizzazioni e/o piattaforme in grado di supportarli e di fare rete che renderanno necessario un welfare completamente diverso da quello di oggi perché dovrà rispondere a percorsi professionali inframezzati da interruzioni frequenti, mancanza di reddito e di contribuzione, anni sabbatici, periodi formativi, transizioni, allungamento della vita lavorativa ma con maggiori problemi di salute, ecc.

I contratti e quindi i riferimenti sociali e culturali che dovranno accompagnare questi passaggi, non perderanno di utilità ma diventeranno ancora più importanti proprio per evitare un decadimento progressivo delle regole alla base del rapporto di lavoro gestibili (forse) sul piano organizzativo ma ingestibili sul piano politico e sociale.

I sindacati, datoriali e dei lavoratori, potranno assumere, se lo sapranno comprendere per tempo, un ruolo fondamentale nel definire ambiti e contenuti richiesti, i nuovi luoghi del confronto, le necessarie tutele, nel saperle modificare o adattare con cadenze molto più ravvicinate di oggi, nel supportare i singoli dall’alternanza scuola lavoro fino alla pensione, nel saper costruire un welfare adeguato. Soprattutto una formazione continua di qualità.

Per tutto questo non ci sarà  un’ora “X”. Dovranno coesistere sistemi misti, inclusivi possibilmente condivisi in considerazione della lunghezza della transizione necessaria e della posta in gioco. Questo presuppone una maggiore focalizzazione del rapporto di lavoro sui risultati, sulla qualità e sulla quantità della redistribuzione della produttività tra impresa e lavoro, sul coinvolgimento, sull’attualizzazione delle tutele che sono ancora più necessarie. È sempre meno sul tradizionale inquadramento professionale e sulle liturgie ad esso collegate.

Così come sposta sempre più  l’attenzione del percorso di crescita del lavoratore, dall’azienda al mercato del lavoro. Con tutto quello che questo consegue in termini di diritto soggettivo alla formazione. E questa è l’unica strada percorribile dalle parti sociali alternativa all’affermarsi di forme di “totalismo” aziendale che, altrimenti si consolideranno inevitabilmente puntando a individualizzare i rapporti di lavoro all’interno di regole sempre più lasche determinate dalla debolezza del sindacato.

Non ci sarà quindi un prima e un dopo per il lavoro 4.0. Ci saranno scelte o non scelte che indicheranno o meno una direzione di marcia. E responsabilità da assumersi.

L’importante, però sarà, mentre si andrà a costruire il primo passaggio nel deployement dei contratti attuali, già oggi indispensabile, riflettere su ciò che avviene nelle realtà più tecnologiche e innovative sul piano organizzativo e relazionale. Perché comunque vada, è lì che andremo a finire.

Confindustria e la ricerca della pietra filosofale…

Enrico Marro, avanza, nel suo interessante articolo sul Corriere       ( http://Bit.ly/2r5gMBb ) dubbi e perplessità sulla possibilità che Confindustria sia in condizione di sottoscrivere un accordo importante con le tre confederazioni sindacali.

Personalmente sono convinto che, per la prima volta, le perplessità siano tutte nell’altro campo. E cioè che CGIL, CISL e UIL si trovino di fronte, loro, e non Confindustria, alla difficoltà di sottoscrivere un accordo sui massimi sistemi ma sostanzialmente privo di contenuti concreti e equilibrati.

Eppure la strada sembrava in discesa. Dall’assemblea dei giovani industriali di Capri in poi dove l’indubbio fascino prodotto dal “Patto di Fabbrica” all’interno della cornice della “corresponsabilità” sembrava da un lato dare continuità alla volontà nata con Squinzi di contribuire a favorire  un quadro unitario nel sindacato e quindi confermare, a Confindustria, la leadership in tema di lavoro, di primazia sulla rappresentanza e sui conseguenti modelli contrattuali.

A quelle affermazioni, però, non è seguito nulla di concreto. Anzi. I contratti del comparto industriale si sono rinnovati rapidamente pur senza una governance unitaria, le altre confederazioni datoriali hanno firmato i loro accordi quadro e, sulle diverse tematiche che hanno implicazioni giuslavoristiche (Contratti, Jobs Act, punti di crisi, industry 4.0, Voucher, ecc.), Confindustria, al contrario,  non è sembrata mai in partita.

Personalmente non credo che questa sostanziale assenza possa essere spiegata addebitandola alle pur importanti “distrazioni” che influiscono sull’associazione degli industriali a cominciare dai problemi del loro quotidiano.

È la crisi di un mondo che non è più in grado di proporsi come punto di riferimento per tutti sul piano della nuova cultura del lavoro, del rapporto con i sindacati e dei suoi inevitabili cambiamenti.

Non lo è per la piccola e media impresa industriale dove il sindacato fatica a incidere, non lo è per gli altri settori economici sempre più autosufficienti, e rischia di non esserlo più neppure per la grande impresa manifatturiera che cerca di affrontare le sfide della globalizzazione cercando dentro di sé una coesione che prescinde dai modelli classici della rappresentanza.

In questa situazione molto complessa, alcune categorie industriali (metalmeccanici e chimici, ad esempio) hanno trovato convergenze interessanti in controtendenza. E le stanno sperimentando insieme alle rispettive associazioni datoriali.

La CGIL, da parte sua, sta cercando nuove risposte proponendo di concentrare diritti e tutele più sulla singola persona che sul luogo di lavoro, convinta, in questo modo, di contrastare l’emergere di una precarietà 4.0 che rischia, se non governata, di costituire la cifra vera di una parte del nuovo mondo del lavoro.

Esempi questi che dimostrano che un modello classico e governato come in passato è ormai andato in crisi. Spingere come fa Confindustria solo per una diversa “perimetrazione” della sua giurisdizione contrattuale allargando artificialmente al terziario innovativo la sua dimensione rappresentativa è un errore. Per le imprese ma anche per il sindacato.

Aggiungere contratti a contratti sullo stesso perimetro serve solo a chi li firma. Meno alle imprese e ai lavoratori. Ed è, in fondo, un segno di grande debolezza. Diverso sarebbe proporre un percorso innovativo, nelle singole categorie, che possa portare ad un significativo passo in avanti sulla condivisione delle problematiche in azienda. Quindi sul terreno vero del coinvolgimento e della partecipazione sull’inquadramento, sul welfare e sugli obiettivi di business.

Un contratto dei servizi innovativi di marca confindustriale non interesserebbe necessariamente tutte le aziende che operano già nel terziario e che applicano altri contratti nazionali ma rischia di introdurre una potenziale spaccatura laddove i due settori saranno costretti a convivere, magari nella stessa azienda indebolendo, di fatto, il ruolo delle parti e rallentando inevitabilmente il processo di decentramento contrattuale.

Nel terziario innovativo gestito da Confcommercio la contrattazione aziendale è praticamente inesistente. L’attuale modello prevede un’applicazione esclusiva dei minimi tabellari e una sostanziale libertà di movimento delle aziende stesse. Inoltre ogni tentativo di “invasione di campo” potrebbe provocare inevitabili forme di dumping con effetti tutt’altro che facili da governare.

Con la recente lettera ai sindacati il Presidente Boccia ha riaperto il tavolo. Nella recente assemblea confindustriale, però, non ha speso neanche una parola sull’argomento. Nei prossimi giorni vedremo se il silenzio era propedeutico ad una svolta vera o segnalava un impasse insuperabile. Personalmente mi auguro che si arrivi ad un accordo perché una Confindustria in panchina non fa bene al Paese. L’importante è che sia un accordo che possa essere considerato un vero punto di riferimento per l’evoluzione del sistema.

Milano e la sindrome dell’Expo…

Dario Di Vico (estremamente acuto e mai banale come sempre) stimola una interessante riflessione sulle qualità della città di Torino. (http://bit.ly/2rc9Qow). D’altra parte il salone del libro appena concluso è lì a dimostrarle.

Torino è una città che sta cercando di riproporsi e di cambiare pelle. Sempre più terziaria, ben amministrata, lontana dagli scandali. Reagisce composta se sfidata sul suo modello, sui suoi valori, sulla sua capacità di immaginare il futuro.

E cerca di farlo coinvolgendo anche i suoi cittadini. In modo trasversale ma senza snaturarsi. Quando ha deciso di cambiare non si è rivolta all’usato sicuro rappresentato dal pur ottimo Piero Fassino né ha inseguito gli agitatori di paura. Ha saputo costruire, pur nel filone della nuova offerta politica, un suo candidato adatto al tipo di cambiamento scelto.

È come avesse trovato una sua modalità di approccio per essere globale nel suo proporsi ma anche locale, attenta ad evitare fughe in avanti. Le elites di Torino si riconoscono tra di loro, collaborano, pensano, convergono sobriamente su progetti e proposte, sanno, innanzitutto, di essere di quella città.

Milano, no. Il grande risultato dell’Expo sembra averle dato alla testa. Pretendiamo di essere l’ombelico del mondo senza però riuscire a costruire una identità vera, profonda, condivisa.

Le elites restano distratte e divise, trascinate nei progetti. Non promotrici. Human Technopole, ricordiamocelo sempre, non nasce a Milano. Le istituzioni culturali continuano a non dialogare tra loro così come le elites economiche. Assolombarda è in crisi, la Fiera, pure.

Resta Banca Intesa, la Camera di Commercio, l’azione importante delle associazioni del volontariato. Continua però a mancare un’anima. Un disegno vero.

Sembra che l’Expo abbia prodotto un effetto collaterale, una sorta di diritto divino a sentirsi primi e unici a prescindere e a fagocitare tutto ciò che è possibile generando un senso di antipatia e non ad essere riconosciuti come un vero punto di riferimento,  portatori di una sfida da condividere. Milano rischia la megalomania.

Un ex sindaco, Pisapia, vuole (addirittura) rifondare la sinistra. L’attuale sindaco, in carica da meno di un anno, indicato (spero non da se stesso) come futuro Presidente del Consiglio.

Sull’Agenzia del farmaco sembra che nessuno si accorga che Francia e Germania si stanno già accordando su Strasburgo così come sulle Olimpiadi del 2028 dove il messaggio sembra essere più finalizzato allo scontro politico in corso con i pentastellati che a un disegno di alto profilo.

Il grido di battaglia sembra essere:”Milan e pœu pú”. Milano che, quindi, basta a se stessa. Tutto il contrario di ciò che ci vorrebbe. Una città che, proprio mentre si sta trasformando, deve ritornare ad essere accogliente per i suoi cittadini ma anche per chi arriva, al centro come in periferia, che sa costruire ponti con altre culture e con altri mondi ma offre con generosità, a chi ha intorno, occasioni e strumenti per crescere insieme.

Che non fagocita ma promuove. Per questo, da milanese, non posso che essere contento dalla lezione di stile che ci viene da Torino e dal salone del libro.

È un segnale che ci indica una diversa direzione di marcia su cui riflettere. Speriamo sia colto da tutti.

Antoine Riboud l’initiateur du concept de développement durable. Marseille 25 ottobre 1972

Dans les années 70, il fait scandale dans les instances patronales, notamment dans un discours célèbre lors des assises du CNPF à Marseille, où il défend le double projet économique et social : «J’ai voulu développer un double projet économique et social, c’est-à-dire mettre sur le même plan dans BSN le progrès économique et le progrès social», rappelle-t-il dans son autobiographie. Il défend le dialogue et la concertation, la réduction des inégalités. C’est ainsi qu’il développera l’intéressement des salariés qui toucheront l’équivalent d’un ou deux mois de salaire supplémentaires par an, et qu’il pratiquera avant l’heure la réduction du temps de travail : à Reims, dans une bouteillerie du groupe, le personnel posté y travaille moins de 34 heures par semaine «à la suite d’un accord signé avec tous les syndicats». La même année, tous les salariés français du groupe reçoivent deux actions gratuites en cadeau. (Libération 6 mai 2002)

http://go-management.fr/wp-content/uploads/2016/07/Discours-dAntoine-Riboud-aux-Assises-nationales-du-CNPF-le-25-octobre-1972-à-Marseille.pdf

 

Nuova politica, impresa e lavoro alle prese con la quarta via…

Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e di collaborare con ottimi manager e importanti imprenditori. Da alcuni di loro ho imparato molto. Non solo sul piano professionale.

Come manager mi sono formato in Danone negli anni in cui il gruppo alimentare francese risentiva ancora profondamente della guida e del pensiero di Antoine Riboud.

Rileggere oggi le parole che questo grande imprenditore pronuncio davanti al MEDEF (la Confindustria francese) nel 1972 a Marsiglia fanno riflettere per la loro attualità. “Noi dobbiamo sforzarci di ridurre le disuguaglianze eccessive in materia di condizioni di vita e di lavoro e saper così rispondere alle aspirazioni profonde dell’uomo. Il ruolo dell’imprenditore c’è e ha senso se sa rispettare i valori di tutte le componenti dell’impresa. Il ruolo e la responsabilità dell’imprenditore assumeranno una nuova dimensione se saranno sempre più sottoposti a due criteri di valutazione: la realizzazione degli obiettivi economici nel rispetto del volere degli azionisti, del contesto ambientale ed economico nel quale l’azienda opera e, contemporaneamente, se realizzeranno gli obiettivi umani e sociali dei propri collaboratori”.

Per alcuni, oggi, questa impostazione è figlia del passato, per altri pura fantascienza. Per me è una impostazione che, al contrario, ritorna prepotentemente di grande attualità.

Certo le condizioni sono cambiate così come è cambiata la stessa azienda che fu di Antoine Riboud in cui si sono avvicendati manager che hanno faticato a condividere e a seguire fino in fondo le idee del fondatore soprattutto quando l’azienda si è dovuta misurare con la Borsa e con i processi di mondializzazione del suo business. La semina ha comunque prodotto buoni frutti.

Ma proprio la globalizzazione con le conseguenze economiche e le reazioni negative che ha prodotto in molti Paesi, con gravi rischi per il tessuto democratico nel quale ci siamo formati, riporta in primo piano la necessità di ricostruire nell’impresa, nel territorio e nel contesto socio economico nel quale l’azienda opera quei valori che sono alla base della condivisione, della corresponsabilità e quindi di autentica convergenza sugli obiettivi.

Ma questa nuova condivisione (dei rischi e delle opportunità di un’impresa) si realizza se il fattore lavoro viene rispettato, valorizzato, retribuito correttamente. Se il lavoratore si sente parte dell’impresa nella quale porta il suo contributo e se il suo diritto di associarsi liberamente in un sindacato gli viene riconosciuto.

Una globalizzazione dove c’è spazio solo per chi vince non solo è un rischio per la democrazia ma non può interessare neanche ai veri imprenditori.

Per questo vedere i soliti “grandi” noti più per la capacità a socializzare le loro perdite che per essere protagonisti di veri successi imprenditoriali, correre al tavolo di Obama, non può che suscitare evidenti perplessità.

L’ex Presidente americano, il premier canadese Trudeau, il futuro Presidente Francese Macron a cui si è unito l’attuale segretario del PD Renzi, si propongono come sintesi di un nuovo pensiero globale. Un pensiero che fa dell’ambiente, dei diritti dell’uomo, della pace e del sostegno di chi, nella globalizzazione resta indietro, i suoi pilastri di fondo.

Fa bene Di Vico oggi sul corriere ( http://bit.ly/2qczp7I ) ad intuire e suggerire che solo una profonda contaminazione tra la cultura da cui partono i nuovi liberal e la proposta cattolica più attenta al mutamento sociale può produrre nuovi scenari.

Così come la convergenza e l’assunzione di responsabilità diretta tra il mondo dell’impresa e del lavoro che, insieme, possono contribuire alla costruzione della cosiddetta quarta via perché consapevoli che la politica non può essere caricata in esclusiva di soluzioni che sono sempre meno alla sua portata.

Al di là della Francia o di quanto prevedibilmente potrà succedere negli altri Paesi Emmanuel Macron conferma l’esistenza di una speranza possibile. Oltre le culture tradizionali del 900 di destra e di sinistra qualcosa sembra muoversi.

Non necessariamente contro la migliore destra o la migliore sinistra anch’esse in fase di ripensamento e rinnovamento. Staremo a vedere.

Non sarà certo una traiettoria lineare né scevra da contraddizioni profonde. Però è una interessante e nuova direzione di marcia da esplorare.

Dove può portare la strategia della CGIL?

Ieri c’è stata una importante mobilitazione della CGIL che viene sottovalutata nei commenti della stampa di oggi. Una manifestazione finalizzata a capitalizzare una vittoria importante (dal loro punto di vista) e a serrare le fila del primo sindacato italiano in un contesto politico e sociale estremamente complesso.

Non dobbiamo dimenticare che il definitivo affermarsi dei pentastellati e dei sovranisti sul piano dell’opposizione politica al sistema toglie inevitabilmente spazio di manovra a tutta quell’area che si muove a sinistra del Partito Democratico.

Da noi come altrove in Europa, lo scontro che tende a prevalere è tra populismi vecchi e nuovi e establishment sotto il cui ombrello si riparano e convergono non solo tutti coloro che hanno un interesse economico ma anche chi ha paura di perdere ciò che ha, chi crede nel gradualismo riformista e nell’Europa e chi teme che i “nuovi barbari” siano pericolosi a prescindere.

Questo determina che la maggioranza degli elettori in quasi tutti i Paesi, probabilmente Italia compresa, sembri non cercare avventure né rivoluzioni. Inoltre il prevalere dei pentastellati, sopratutto nelle nuove generazioni, rende sempre più lontana e impalpabile quest’area politica che non riesce neanche a convergere su di un progetto unitario credibile.

C’è una eccezione, da non sottovalutare, che mantiene un forte potere di attrazione e di ricomposizione sociale: la CGIL. Di fronte al rischio di essere spinta verso l’estremismo sociale e sindacale su cui si stava avventurando la FIOM del primo Landini o di restare ferma al palo per la difficoltà di concordare strategie e iniziative con CISL e UIL, la CGIL sembra aver imboccato un percorso su di un doppio binario.

Attrarre e coprire essa stessa una forte iniziativa sul terreno sociale (referendum, carta dei diritti, manifestazioni di organizzazione), cercare accordi sui contenuti con CISL e UIL, nelle categorie, con la contrattazione o, direttamente insieme a loro, nei confronti delle organizzazioni datoriali e delle istituzioni.

L’obiettivo di questa iniziativa politica a geometria variabile è contendere il campo ai pentastellati in tema di opposizione all’establishment, consentire ai resti della sinistra un tempo sufficiente di ricostruzione e ricomposizione di un’area politica di impronta socialdemocratica e arrivare così uniti al prossimo congresso.

Susanna Camusso consegnerebbe così al suo successore una CGIL decisamente rinnovata nei gruppi dirigenti, protagonista sulla scena sociale, punto di riferimento per una nuova sinistra più vicina ai Sanders, ai Corbyn e ai Melanchon che ai più moderati Schulz, Renzi e Macron.

Non dimentichiamo che l’aveva ereditata in pessime condizioni da Guglielmo Epifani. Divisa, messa in un angolo da CISL e UIL e dagli accordi separati, frustrata al suo interno per la debolezza di proposta e di iniziativa.Tenuta a distanza dal PD già ben prima che lo stesso si lanciasse nella disintermediazione renziana.

Nessuna forzatura sui contratti nazionali né con le organizzazioni datoriali con cui si sono siglati accordi importanti, hanno rappresentato il primo giro di boa.

La vittoria a tavolino sui quesiti referendari, il secondo. La CGIL ha capito benissimo che, oggi, non è in grado di fare forzature né mobilitazioni nelle imprese. Poche risorse disponibili, investimenti ai minimi storici, strategie di coinvolgimento del capitale umano che tendono ad escludere il sindacato. Tipologie contrattuali sufficientemente lasche, soprattutto sui giovani. Troppo forte il divario di forze in campo.

Ma ha capito benissimo la fragilità della politica e delle istituzioni in difficoltà ad affrontare le priorità con risorse scarse e sotto tiro dei pentastellati, le difficoltà interne allo stesso Partito democratico e la confusione che regna nella destra italiana.

L’assenza di CISL e UIL completano il quadro. Così come ha capito benissimo che può tentare di aggirare il terreno minato rappresentato dalle imprese così come ha fatto sui voucher grazie anche al situazione di evidente stallo della stessa Confindustria.

La riuscita di questa strategia non è scontata. Innanzitutto perché le sinistre sociali e politiche tradizionali sono in crisi in tutta Europa. Lo scontro tra populismi e establishment nazionali, tutt’altro che terminato, trascina altrove il malcontento di una parte consistente del potenziale bacino di riferimento.

Lavoro, immigrazione, crisi economica sono temi che spaccano e le cui difficili risposte, tutte ancora da individuare, sono terreno fertile per i demagoghi di turno. E, su questi temi, la CGIL viene percepita, fuori dal suo recinto organizzativo, come rappresentante di una parzialità autoconservativa e difensiva quindi incapace di contribuire a individuare risposte complessive credibili.

In secondo luogo il rapporto con CISL e UIL confederali che rischia di ritornare conflittuale pur scontando l’evidente vuoto di iniziative e di proposte di queste ultime. La fine della stagione degli accordi separati è avvenuta più per decisione esterna che per scelta consapevole delle tre organizzazioni e poteva essere propedeutica ad un nuovo scenario di unità e di convergenza di tutto il mondo della rappresentanza. Convergenza fondamentale per rilanciare il Paese. Così, però, non è stato. Quella idea, ad oggi, sembra tramontata.

La sensazione è che, vincolate CISL e UIL ad una unità di azione “minima” e ingoiando qualche rospo di merito nelle categorie la CGIL sia riuscita a blindarsi nel suo perimetro proponendosi come soggetto politico autonomo. La scelta sui referendum, sulla carta dei diritti, sul ripristino dell’art. 18 vanno certamente in questa direzione.

La gestione del referendum Alitalia, da questo punto di vista, fornisce un elemento interessante di riflessione. All’Alitalia la CISL si è predisposta, fin dall’inizio, con generosità ma anche con ingenuità a far da supporto al Governo e ad un management poco credibile rinunciando a costruire un rapporto vero con i propri iscritti, la UIL si è trovata, addirittura, il suo sindacato di categoria che ha lasciato libertà di voto (quindi libero di remare contro) mentre la CGIL, unica ad aver ben percepito il disastro che si stava consumando, si è defilata in quelle ore cruciali evitando di esporsi e allineandosi alle altre sigle confederali, senza però forzare alcunché.

E il giorno dopo, preso atto del risultato, ha lasciato ad altri rimpianti e autocritiche cercando di rientrare in gioco con la proposta di coinvolgimento della cassa depositi e prestiti.

Infine ma non meno importante il rischio che gli effetti concreti di questa strategia, dove i confini tra iniziativa politica e sindacale sembrano scomparire, contribuiscano a indesiderabili vittorie politiche altrui.

La profondità e la lunghezza della crisi economica e il distacco percepito tra la narrazione dell’establishment e la realtà hanno scavato un solco tra rappresentanti e rappresentati che tutti cercano di riempire con i loro contenuti.

C’è chi lo fa aggiornando o rilanciando tesi e strumenti del passato e chi cercando di cavalcare le onde di un futuro comunque complesso per il mondo del lavoro e per le forme di rappresentanza.

Il forte ridimensionamento della sinistra tradizionale francese, italiana e inglese è sotto gli occhi di tutti. Sanders e Corbyn portano, in parte, la responsabilità di aver tirato la volata a Trump e alla Brexit.

L’assenza di una sinistra tradizionale in Italia dotata di una forza elettorale vera e propria rischia di mettere tutta questa responsabilità sulle spalle della CGIL che in questo modo si trova inevitabilmente  fuori da confini strettamente sindacali.

E su questo, credo, il dibattito preparatorio del prossimo congresso, dovrebbe giocare la vera partita.