I top manager USA (e non solo) preferiscono la scrivania…

Secondo Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn l’orario di lavoro tradizionale dalle 9 alle 17 potrebbe diventare obsoleto entro il  2034 (https://bit.ly/3XegGYz). Questa sua previsione è basata su una serie di valutazioni dei fattori tecnologici e culturali che stanno trasformando il panorama del lavoro. Per ora più di una previsione la definirei una profezia che prefigura uno scenario tutt’altro che rassicurante. Il tira e molla planetario sullo smart working ne è un esempio evidente. Il caso più recente coinvolge addirittura Walmart negli USA. L’azienda continuerà a consentire al personale di lavorare da remoto, purché sia in ufficio per la maggior parte del tempo. E questo sta succedendo un po’ dappertutto, nelle grandi aziende americane e non solo.

Il messaggio  esplicito che accompagna questa decisione è di una chiarezza estrema. Se il lavoro può essere svolto da remoto tanto varrebbe trasferirlo in India o altrove dove costa meno. Un messaggio che non si presta ad interpretazioni. In apparente contraddizione Walmart mette sul piatto un investimento di  oltre 1 miliardo di dollari nella costruzione di un campus all’avanguardia presso la sua sede di Bentonville, in Arkansas, per rendere il lavoro il più piacevole possibile. Ovviamente l’approccio dell’azienda guarda al contesto.

Walmart sta affrontando un ambiente competitivo incredibilmente impegnativo. L’azienda di Betonville ha di fronte diverse  sfide. Innanzitutto difendere la sua leadership. Amazon, Kroger e ALDI USA stanno cercando di aumentare la loro quota di mercato. Addirittura Temu e TikTok, potrebbero entrare anche loro nel mercato del food. In secondo luogo servono ingenti investimenti sul versante della tecnologia.  L’intelligenza artificiale, la robotica, la logistica autonoma e l’evasione automatizzata degli ordini in negozio sono la nuova realtà con cui confrontarsi. Walmart ha quindi deciso che le priorità impongono ai dipendenti di ritornare in ufficio. Compresi i lavoratori dei piccoli uffici incentrati sulla tecnologia a Dallas, Atlanta e Toronto a cui viene chiesto di trasferirsi in altri hub centrali come nella sede centrale di Bentonville, Arkansas, così come Hoboken, New Jersey e la California settentrionale.

Secondo i sostenitori di questa decisione  l’azienda si deve concentrare su sé stessa e sui clienti. Il lavoro da remoto non è ritenuto compatibile con la sua cultura organizzativa e manageriale. Walmart si sente  in “guerra”  e “pretende” una sintonia totale intorno al suo modello di impresa. Il ridimensionamento dello smart working o meglio, del remote working, sta però lasciando il segno. Non solo negli USA. Chi ha sentenziato troppo rapidamente sul  tramonto del concetto di  luogo di lavoro, di possibile  superamento del tempo e degli spazi tradizionali, visto lo scenario innescato dalla pandemia ha però lavorato di fantasia. La realtà si è rivelata molto più banale. La stragrande maggioranza delle aziende e dei top manager non erano e non sono  preparati a questo cambio, che è innanzitutto  culturale. Leggi tutto “I top manager USA (e non solo) preferiscono la scrivania…”

Couche Tard ritorna in campo e prova ad acquisire Seven Eleven

Le grandi fusioni preoccupano ovunque Governi e politica. Kamala Harris la candidata democratica alle prossime elezioni di novembre negli USA non solo ha incolpato gli imprenditori e i retailer di ricercare profitti anche a costo dei portafogli dei consumatori e del reddito degli agricoltori ma nel suo programma vuole che la Federal Trade Commission combatta le mega-fusioni e acquisizioni che, a suo dire,  limitano la concorrenza. A febbraio 2024, la FTC si è formalmente opposta alla mega-fusione di due delle più grandi catene di supermercati del paese, Kroger e Albertson’s, tra gli applausi della National Consumers League e della United Food and Commercial Workers, che annovera tra i suoi membri lavoratori del settore alimentare, addetti alla lavorazione della carne e lavoratori degli allevamenti intensivi di pollame.

Nel frattempo le operazioni vanno avanti. Mars ha dato il via all’acquisizione Kellanova (https://bit.ly/3WL3vwz) e in questi giorni i canadesi di Alimentation Couche Tard tramite Circle K si sono fatti avanti per conquistare la catena concorrente Seven Eleven, nata in America ma, dal 1999, controllata da una holding giapponese, con un’offerta “riservata, non vincolante e preliminare” di 31 miliardi di dollari.  Seven Eleven gestisce oltre 85.000 negozi in tutto il mondo. Alimentation Couche-Tard  oltre 16.700 in 31 paesi. I dettagli della proposta  non sono stati divulgati.

In risposta, Seven & I ha dichiarato  che il suo consiglio di amministrazione ha formato un comitato speciale per condurre una “revisione rapida, attenta e completa” della proposta. “Né il consiglio di amministrazione né il comitato speciale hanno preso alcuna decisione in questo momento per accettare o respingere la proposta di ACT, per avviare discussioni con ACT o per perseguire qualsiasi transazione alternativa”, ha scritto la società in una dichiarazione pubblicata online. L’azienda ha affermato di essere concentrata sul raggiungimento di una transazione “reciprocamente accettabile” che andrebbe a vantaggio dei clienti, dei dipendenti, dei franchisee e degli azionisti di entrambe le aziende. “Non vi è alcuna certezza in questa fase che si raggiungerà un accordo o una transazione”, ha scritto la società, aggiungendo che per ora non saranno rilasciate ulteriori dichiarazioni sulle discussioni in corso. ACT ha già tentato di acquistare Seven & i Holdings in passato: il quotidiano giapponese The Nikkei ha riferito che la società canadese aveva contattato l’operatore giapponese 7-Eleven per un’acquisizione già nel 2020.

Da noi Couche Tard è un nome che dice poco o nulla. Predilige, di fatto, un formato  di prossimità, mini market con un numero di prodotti limitato. Aperti fino a tardi e, in genere, parte delle stazioni di servizio (una specie  di Autogrill sui generis). Basti ricordare che oltre il 70% delle loro vendite in Quebèc è rappresentato dal carburante, motivo quest’ultimo, per comprendere la ragione di questi tentativi di  diversificazione del business. Il petrolio rappresenta circa il 70% del fatturato e il 40% dei margini della realtà canadese che quindi sa bene che, il suo, è un business che rischia di trasformarsi in un futuro non troppo lontano in un handicap, anche per l’avanzare dell’elettrico. Per questo cerca di anticipare i cambiamenti necessari e far evolvere il proprio modello di business. Leggi tutto “Couche Tard ritorna in campo e prova ad acquisire Seven Eleven”

Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari

Chi più chi meno,  siamo circondati da punti vendita di ogni tipo. Se prendiamo ciò che è emerso nell’ambito del progetto Urban Pulse 15 del Centro studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne, in collaborazione con Il Sole 24 Ore il 39% dei cittadini italiani ha già oggi punti vendita di alimentari sotto casa. Sia della GDO (iper e supermercati, discount e minimarket) che del piccolo commercio al dettaglio (panifici, macellerie, pescherie, fruttivendoli, e così via). Ad aggiudicarsi la classifica delle città che hanno la possibilità di raggiungere un punto vendita alimentare a piedi, è il Mezzogiorno con ben 14 città tra le prime venti. Le più lontane dall’obiettivo sono invece Belluno, Rieti, Udine e Treviso, dove solo 1 cittadino su 4 può raggiungere a piedi il supermercato.

C’è quindi ancora spazio di resistenza per il piccolo commercio e per la prossimità GDO, franchisee, discount, ecc. e contemporaneamente la necessità di ripensare i punti vendita più grandi al di fuori di quel raggio. Mentre gli esperti continuano a riflettere sui tradizionali  formati distributivi e le loro peculiarità il consumatore va dove gli conviene. E se può risparmiare sulla spesa,  sul tempo per gli acquisti  e sulla benzina, lo fa volentieri. C’è però, come sostiene Andrea Meneghini, in atto un cambio definitivo del concetto di vicinato, e questo cambio passa soprattutto per un travaso del fatturato da un cluster all’altro. Nel caso della Grande distribuzione, ovvero iper e supermercati, discount e minimarket è Torino a detenere la percentuale maggiore di residenti (80,8%) servita da un supermercato entro i 15 minuti. Segue Milano (75,9%), Pescara (75,5%) e Livorno (71%). Diverso è però il rapporto tra centri città e hinterland delle stesse. La grande distribuzione vince nelle aree metropolitane, mentre il commercio al dettaglio si piazza meglio nelle aree extraurbane e soprattutto nel Sud.

“Contano anche le abitudini di consumo differenti – afferma Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro studi Tagliacarne – al Sud si predilige il negozio sotto casa e il rapporto con il negoziante, a cui viene chiesto di conservare il prodotto prescelto o di portarlo a casa. Un tipo di rapporto che, in un Paese che invecchia, sarà (forse) sempre più importante coltivare in futuro, ovunque”. Se la distribuzione alimentare svela una predominanza delle città del Sud, analizzando la situazione dal punto di vista dei servizi di pubblica utilità (scuole, ospedali e servizi di mobilità), il primato torna al Nord. Quindi il modello della “Città a 15 minuti” coniato dallo scienziato franco-colombiano Carlos Moreno, obiettivo di molti sindaci italiani di grandi città, per il commercio, non sarebbe particolarmente complesso da raggiungere. In buona sostanza, quasi ci siamo già.

Al di là dei giudizi sulla vivibilità delle realtà che vantano il primato un dato è certo: in alcune aree c’è una eccessiva sovrapposizione, in altre il piccolo commercio presenta i suoi limiti generazionali e le sue difficoltà di prospettiva ma regge, in altre ancora, i limiti strutturali dei formati maggiori e i luoghi dedicati allo shopping e all’intrattenimento  rischiano l’obsolescenza se non ripensati rapidamente. È così mentre Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria (Union food)  si accapigliano su chi può vantare la rappresentanza della dieta mediterranea nel mondo, Confcommercio, l’altra grande delle big four  dell’associazionismo datoriale ci racconta che i consumi alimentari nazionali sono a dieta. E non da oggi. La tendenza al contenimento degli acquisti di prodotti legati all’alimentazione domestica copre un intero trentennio oggetto dello studio  e, semmai, si accentua, nel 2024. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Aumentano i punti vendita, diminuiscono i consumi alimentari”

Mars punta alla crescita e acquisisce Kellanova.

C’è sicuramente un dato di complementarietà di business nella decisione. Non è però solo questo. Ma procediamo con ordine. Mars, produttore di M&M’s, sta acquistando Kellanova, il produttore di Cheez-Its e Pop-Tarts, per quasi 30 miliardi di dollari, ampliando notevolmente il numero di marchi posseduti. L’acquisizione fa parte del piano di espansione di Mars, che aveva annunciato l’intenzione di raddoppiare nel prossimo decennio il suo portafoglio, che comprende già 15 marchi, a cui ora si aggiungono brand come Pringles, Kellogg’s, Cheez-It, Pop-Tarts, Rice Krispies Treats e NutriGrain.

Con questa operazione, Mars assorbe un gruppo capace di registrare nel 2023 vendite nette per oltre 13 miliardi di dollari, con una presenza in 180 mercati e circa 23mila dipendenti. L’acquisizione amplia la portata di Mars nella categoria degli snack salati. Un business interessante. L’azienda possiede marchi come Combos e Uncle Ben’s, ma è principalmente nota per i suoi cioccolatini, caramelle e cibo per animali. Mars ha, tra i suoi prodotti M & M’s, Lifesavers, gomme da masticare Juicy Fruit e Skittles, oltre a cibi per animali Pedigree e Royal Canin. Le vendite di alcuni di questi prodotti, come la gomma da masticare, sono calate fortemente negli ultimi anni, mentre gli snack sono cambiati e  crescono.

Mars è cresciuta costantemente attraverso acquisizioni. È entrata nel settore degli alimenti per animali domestici nel 1935 con l’acquisto di un marchio di cibo per cani del Regno Unito e ha acquistato il marchio di gelati Dove nel 1986. Nel 2008, ha acquistato il business delle gomme da masticare Wrigley per 23 miliardi di dollari.  Mars è considerata una delle più grandi aziende produttrici di dolci e alimenti per animali domestici al mondo. Nelle sue attività di petcare, snacking e food, la società ha registrato, solo nel 2023, vendite nette per oltre 50 miliardi di dollari.

Con un patrimonio di 117 miliardi di dollari (dato aggiornato al 2 agosto 2024), la famiglia Mars risulta la seconda più ricca d’America, dietro solo ai Walton (Walmart) con un patrimonio di 267 miliardi di dollari. L’acquisto di Kellanova da parte di Mars dovrebbe concludersi nella prima metà del prossimo anno. Una volta completato, Kellanova diventerà parte di Mars Snacking. La sede centrale aziendale rimarrà a Chicago. Mars, con sede a McLean, Virginia, è una delle più grandi aziende private degli Stati Uniti. Leggi tutto “Mars punta alla crescita e acquisisce Kellanova.”

Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli

C’è una parte del mondo industriale che non si è limitata a banalizzare  il cigolante ”carrello anti inflazione” contestandone l’utilità ma, di fronte al perdurare dell’inflazione, ha deciso di aggirare l’ostacolo a proprio vantaggio.  Era chiaro che l’intervento del Governo e delle Associazioni che ne hanno condiviso la finalità non poteva essere risolutivo per un problema che ha origini ben più complesse ma l’obiettivo politico era comunque importante: segnalare all’opinione pubblica una preoccupazione comune, un impegno e una volontà condivisa.  Tra l’altro iniziative analoghe sono state messe in atto in altri Paesi europei.

Aggiungo che, per la GDO, era l’occasione di smarcarsi dalle accuse di essere, essa stessa, causa del problema e non possibile parte della soluzione. In realtà, chi non ha sottoscritto il patto, sapeva benissimo che, consumatori a parte, l’inflazione avrebbe potuto portare  vantaggi immediati ai conti delle imprese. E così sono state messe in atto altre due strategie che miravano a contenere la reazione dei consumatori traendone  il massimo vantaggio possibile in una condizione oggettivamente complessa. La descrivono bene due brutti termini inglesi: shrinkflation e greedflation.

La prima, banalmente punta a ridurre la quantità o qualità di un prodotto nella confezione senza che il suo prezzo però venga ritoccato. Il vantaggio supposto, da chi lo mette in pratica,  è che i clienti faticano a percepirne l’effetto. La seconda, detta greedflation, si basa sul banale aumento dei prezzi non necessariamente giustificati dall’inflazione. I consumatori tendono comunque a subirlo perché il clima determinato dagli aumenti dei prezzi in generale lo rende credibile. Semmai ripiegando su sostitutivi (vedi discount e MDD).

La morale di questa vicenda, lo sottolineo per chi è convinto che, passata la nottata, per la spesa quotidiana tutto tenderà a ritornare come prima, è che, non sarà affatto così.  L’uscita dalla pandemia, l’inflazione, le preoccupazioni per il contesto stanno agendo da acceleratore, modificando le abitudini di spesa e i consumi degli italiani. Aggiungo che l’inflazione, i suoi effetti sulla spesa delle famiglie e sulle scelte   dei consumatori, proprio grazie ai i comportamenti dei soggetti in campo, si sono inevitabilmente trasformati in uno grande spot a favore di discount e marca del distributore.  Un sostanziale autogol per l’industria di marca.

Banalizzato  il carrello tricolore, aumentati i prezzi e sgrammati i prodotti siamo arrivati ad oggi. Due dati su cui riflettere. Il primo è che sul tema della shrinkflation, nella GDO si è mossa con forza Carrefour  France e pochi altri. La maggioranza delle insegne ha preferito abbozzare per non sollecitare reazioni  da parte dell’industria di marca spingendola ad aumentare i prezzi e provocando così un danno ulteriore. Il secondo dato è che, attraverso  la greedflation, molte imprese hanno aggiustato i bilanci 2023.

Pochi lo hanno sottolineato, a parte la GDO, che pur protestando con i fornitori ha tentato di resistere in parte assorbendone i costi. ”Se non puoi convincerli (i consumatori), almeno confondili”, parafrasando la legge di Truman, sembra essere stata la tattica adottata da una parte dell’industria di marca e su chi l’ha seguita. Purtroppo a danno delle famiglie  e, di fatto, pure dei volumi di vendita delle insegne della GDO. Il Consiglio dei ministri, in ritardo  e con i “buoi ormai usciti dalla stalla”, ha  approvato il disegno di legge annuale per il Mercato e la Concorrenza introducendo una misura di contrasto al fenomeno della cosiddetta “shrinkflation” prevedendo  un obbligo di informazione a favore del consumatore attraverso l’apposizione di una specifica etichetta nel prodotto esposto. Leggi tutto “Il contributo della grande distribuzione a sostegno delle fasce più deboli”

Dao Conad. A Trento raddoppia e apre il secondo ‘autonomous store’

Mi ero perso l’inaugurazione di Verona a due passi dal balcone di Giulietta nel mese di novembre. Non potevo perdermi una visita  del secondo ‘autonomous store’ a Trento aperto a maggio dalla cooperativa Dao Conad. La prima impressione è che l’evoluzione tecnologica, rispetto ai primi Amazon Go, è notevole. Non siamo ancora al “telepass” autostradale ma poco ci manca. Per questo il confronto tra favorevoli e scettici alle casse senza cassiere, dovrebbe spostarsi sul “quando” il nuovo sistema sostituirà inevitabilmente il tradizionale modello piuttosto che perdere tempo sui limiti organizzativi e tecnologici ancora presenti.

Un negozio  di vicinato di poco più di 200 metri quadri in piazza  Santa Maria Maggiore dove ha sede la chiesa più importante di Trento, insieme al Duomo, costruita nel Cinquecento in occasione del Concilio Tridentino. Bellissimo il campanile (il più alto della città con i suoi 53 metri). Una piazza molto bella sottratta al degrado da poco anche attraverso l’apertura di nuove attività economiche a cominciare proprio dal  “Tuday Conad”. Nel negozio si può pagare con l’apposita app, oppure con carta o bancomat. Il personale c’è. La tecnologia, come è evidente,  non svuota il negozio dagli addetti. Il lavoro di queste persone è prestare attenzione ai clienti, non  passare ore a scansionare prodotti seduti alla cassa.

Nel punto vendita, c’è di tutto. E la convenienza non cambia rispetto ad altri store. Interessante la bilancia per l’ortofrutta. Ogni prodotto posizionato  viene riconosciuto e visualizzato sullo schermo della bilancia SM-6000 AI – DIGI Italia (Gruppo TERAOKA) che consente la conferma della scelta con un semplice tocco, senza la necessità di numeri o codici. Un avanzamento tecnologico esportabile anche nei supermercati tradizionali. Un passo in avanti verso la semplificazione della spesa quotidiana.

Centrali i protagonisti: retailer e partner tecnologico.

Innanzitutto la cooperativa Dao (Dettaglianti Alimentari Organizzati) che gestisce in Trentino e nelle province vicine 280 punti vendita a marchio Conad. DAO nasce come gruppo nel 1962 dalla volontà di 20 alimentaristi della città di Trento. Oggi i soci sono più di 120. Dal 2004 opera come centro distributivo Conad per le province di Trento, Bolzano, Verona, Vicenza e Belluno e sono presenti nelle province di Brescia e Bergamo con l’insegna Maxì. Il fatturato di tutto il gruppo, comprensivo delle società partecipate, ammonta a 422 milioni di Euro, con un incremento del 13% rispetto al 2022. Il numero totale dei collaboratori sfiora le 2000  persone.  In Trentino nelle zone montane che spesso contano meno di 1000 abitanti, i negozi ad insegna Conad insieme a quelli di Sait (Coop) rappresentano una fonte sicura e affidabile di approvvigionamento.

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Cultura manageriale e risorse. Il nodo gordiano della Grande Distribuzione italiana

Riparto dalla vicenda Decò Italia. Rifletto e cerco di andare più a fondo su ciò che ha proposto alla riflessione  Mario Gasbarrino su LinkedIn. Il mantra è “mettersi insieme, conviene”. Soli non si va da nessuna parte. È vero. Mi pongo però un’altra domanda. Ma c’è veramente qualcuno su piazza in grado di  andare “oltre” ciò che ha costruito nella sua vita o ha ereditato da chi c’era prima di lui? In sostanza, quello che temo, è che non manchino solo le risorse economiche per crescere  come ricorda Gasbarrino,  ma anche la cultura imprenditoriale e manageriale necessaria.

Per crescere, non bastano le risorse, ovviamente indispensabili, occorre avere sogni nel cassetto, visione, coraggio e, intorno a sé, una squadra. Chi vuole crescere e competere deve andare “oltre” proprio dove i concorrenti  non se la sentono. Parafrasando  Frida Kahalo, chi assume dei rischi, vede orizzonti dove altri vedono confini invalicabili. Spesso chi guarda lontano è “ossessionato” dai suoi obiettivi. E chi gli sta intorno, pur dovendo tenere il ritmo,  non sempre ne capisce l’approccio. Brunelli, Caprotti, Podini, Panizza, Pomarico, Bastianello, Ratti, e pochi altri ancora, ciascuno a modo suo, ha visto prima nei propri sogni dove sarebbe  voluto arrivare.

Grandissimi profili della GDO del novecento, tutti però con un limite. Ciascuno ha giocato nel suo campionato, nazionale o regionale che fosse. Nessuno le coppe europee. Nell’industria non è stato così. I migliori si sono contraddistinti ovunque. E questo è stato già il  segnale evidente di un limite culturale. Bravi si, ma nel cortile di casa. Bernardo Caprotti lo ha sottolineato in una lettera al Corriere l’11 settembre del 2013: “Diversamente da Armani e Luxottica che hanno «creato», noi abbiamo soltanto cercato di dare un po’ di eleganza, di efficienza, di carattere ad un mestiere assai umile“. Così è. È uno dei pochi settori che non si è mai immaginato in un campo da gioco molto più grande. Tutti bravi a stigmatizzare gli errori delle multinazionali (che pur ci sono stati) incapaci di giocare contro le nostre difese arcigne ma nessuno dei nostri in grado di giocare in trasferta. Questa purtroppo è la realtà.

Crescere, non è quindi un esclusivo problema di mancanza di risorse economiche. Mancano soprattutto imprenditori e manager in grado  di affrontare scenari futuri o M&A complesse. Magari fosse solo un problema di piccoli imprenditori! Le stesse centrali di acquisto, per quanto ben governate, restano un elemento di stabilizzazione a difesa del sistema esistente. Non certo promotori di rotture di equilibri consolidati.  C’è un evidente problema di management. Ottimo fino a certi livelli di fatturato, probabilmente inadatto ad andare oltre.
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In Ontario, se non è fresco è gratis…

Solo pochi giorni fa, un post del prof. Daniele Tirelli sullo “sconto al costo” proposto dal Gigante aveva provocato reazioni forti da chi ritiene che la deriva innescata sia senza ritorno. Poi è toccato a Esselunga  stupire gli esperti con il suo 10% prolungato anche in agosto. Dai noi c’è un po’ di tutto.  Sconti, cash back, anniversari, per categorie (pensionati, studenti, ecc.). Loblaws Companies Limited, uno dei principali retailer del Canada, ha rilanciato con con un rimborso riservato solo agli insoddisfatti. Verrà copiata anche da noi? Partiamo dall’inizio.

L’insegna Loblaw nasce  a Toronto dai droghieri Theodore Pringle Loblaw e J Milton Cork. Negli  gli anni ’50, George Weston Limited ha acquisito il controllo della società, favorendo la sua rapida espansione in tutto il Canada e negli Stati Uniti.  Loblaws Companies Limited ora gestisce sei divisioni indipendenti, che comprendono oltre 2400 negozi in gestione diretta e in franchising e 190.000 collaboratori. Le insegne sono i supermercati Loblaws, la catena di farmacie Shopper Drug Mart,  il supermercato discount No Frills e il rivenditore di moda Joe Fresh. I marchi del distributore includono President’s Choice, No Name e Life Brand. 45 miliardi di dollari di fatturato nel 2023 con un aumento del 3,9 percento sulle vendite di prodotti alimentari quell’anno. I concorrenti principali in Canada sono Sobeys, Walmart e Metro.

L’insegna non è nuova a idee che suscitano un certo  interesse. Già nel 2016  aveva  piazzato nel reparto ortofrutta cestini con banane e mele che i bambini potevano prendere e mangiare mentre erano nel negozio. Quest’ultima trovata, però, è fuori dagli schemi. L’obiettivo, credo, sia di fidelizzare i clienti sulla freschezza e sulla qualità dei prodotti acquistabili nei loro negozi. In sostanza se i clienti per una qualsiasi ragione non dovessero ritenersi soddisfatti dei prodotti acquistati, potranno farseli sostituire e, in aggiunta, ottenere il  rimborso sugli acquisti effettuati entro sette giorni.

“Vogliamo che i clienti escano dai nostri negozi ogni giorno convinti di ciò che hanno acquistato”, ha detto Frank Gambioli, presidente della divisione Loblaw Super Market. “Sappiamo quanto la freschezza e la qualità giocano nel valore percepito, e la nostra “Fresh Promise” dimostra l’impegno dell’azienda nei confronti  dei canadesi che fanno acquisti da noi. Perché, se non sono freschi, saranno gratis.” La “Fresh Promise” si applica a qualsiasi prodotto fresco acquistato presso le sedi Loblaws, Independent, Valu-mart e Zehrs, sia in negozio che online. Se i clienti restituiscono i  prodotti, dovranno presentare solo la ricevuta di acquisto originale presso il negozio Loblaw da cui il prodotto ha avuto origine. Leggi tutto “In Ontario, se non è fresco è gratis…”

Imprenditori immigrati e commercio tradizionale…

Oggi nessuno fa più caso se la pizza è sfornata da un pizzaiolo egiziano o napoletano. Ci abbiamo messo qualche decennio a capire che una pizza fatta bene e il pizzaiolo che la prepara sono due cose diverse. Secondo un’elaborazione  della  Camera di commercio di Milano su dati del registro imprese a Milano ci sarebbero 119 pizzaioli egiziani contro 31 campani e 10 napoletani doc A Roma il 18,1% delle pizzerie e’ gestita da egiziani e il 10% nella provincia di Monza e Brianza. La tradizione resiste ancora a Napoli dove solo due egiziani risulterebbero titolari di un ristorante e nessuno registrato come pizzeria.

Se guardiamo i dati al 31 dicembre 2023 in Italia ci sono 775.559 imprenditori nati all’estero (10,4% del totale) e 586.584 imprese a conduzione prevalentemente straniera (11,5%). Negli ultimi dieci anni (2013-2023), appare evidente la diversa tendenza tra imprenditori nati in Italia (-6,4%) e nati all’estero (+27,3%). Anche nell’ultimo anno il numero di immigrati è aumentato (+1,9%), mentre quello dei nati in Italia ha subito un lieve calo (-0,6%). (Elaborazioni Fondazione Leone Moressa). 2,4 milioni di lavoratori immigrati, producono 154 miliardi di PIL (9%). Sono previsti almeno altri 574 mila ingressi per lavoro tra il 2023 e il 2026. E  il fabbisogno di manodopera rimane alto a causa di crisi demografica e gap di competenze.

La popolazione straniera residente in Italia si conferma stabile a quota 5 milioni ad inizio 2023, pari all’8,6% del totale. L’età media degli stranieri è 35,3 anni, contro i 46,9 degli italiani. In Europa, i Paesi con più immigrati per lavoro sono Polonia, Spagna e Germania. In Italia, il rapporto tra ingressi per lavoro e popolazione residente (11,3 ogni 10 mila abitanti) rimane per ora inferiore rispetto alla media Ue (27,4). Il primo canale d’ingresso in Italia, infatti, rimane il ricongiungimento familiare (38,9% del totale). L’incidenza sul PIL aumenta sensibilmente in Agricoltura (15,7%), ed Edilizia (14,5%). In dodici anni (2010-22), gli immigrati sono cresciuti (+39,7%) mentre gli italiani sono diminuiti (-10,2%). Incidenza più alta al Centro-Nord e nei settori di Costruzioni, Commercio e Ristorazione.

Nel commercio alimentare, da noi, per ora sono essenzialmente piccoli negozi a conduzione familiare situati in centri commerciali periferici o in quartieri periferici frequentati prevalentemente da immigrati asiatici, o nord africani. Nonostante la loro recente crescita, questi negozi rappresentano ancora una percentuale estremamente modesta sul totale dell’intero comparto alimentare. Oggi temo che chi osserva i fenomeni si limita a guardare il presente proiettandolo nel futuro.  A mio parere il destino del commercio, piccolo o grande che sia,  è ben diverso. Oggi non parlo di omnichannel, multinazionali o tecnologia. Né di affermazione o crisi di formati distributivi, di sconti o di promozioni. Penso però che tra i diversi fenomeni da analizzare, dovremo fare i conti anche con altre situazioni  a cui non siamo ancora preparati. Negozi per ora, che sembrano lontani anni luce, dalle nostre abitudini. Leggi tutto “Imprenditori immigrati e commercio tradizionale…”

Destini incrociati. Walmart risponde ad Amazon..

In linguaggio calcistico, Amazon è stata “immarcabile” per tutto il primo tempo della partita di un campionato tutt’altro che concluso. Ha dominato l’online e insidiato l’offline con la sua pattuglia di negozi fisici. Walmart in quella prima fase non ha toccato palla. Oggi le parti  si stanno  invertendo. Amazon sembra aver rallentato l’iniziativa nel retail USA decisa a riflettere bene prima di piazzare le prossime mosse. Ha ingaggiato un’ottima squadra esperta di negozi fisici e si prepara a rilanciare. Nel frattempo l’avversaria più importante ha replicato mettendo in campo tutta la sua forza.

Secondo  Panos Mourdoukoutas, in un recente intervento su Forbes, proprio  nell’omnichannel, Walmart starebbe assaporando  la sua rivincita su Amazon. Contando sulla forza e sulla numerica dei suoi negozi fisici e dopo anni di investimenti in tecnologia e capacità digitali, i risultati cominciano a vedersi. “C’è stato un tempo in cui la leadership di Walmart stava perdendo colpi. Amazon l’ha presa in contropiede, ha invaso il suo  spazio cambiando le regole del gioco e dando l’impressione ai concorrenti tradizionali, che l’online, anche nel food,  avrebbe prevalso in tempi brevi. C’è voluta la pandemia e le cautele degli investitori nel  post pandemia per rallentarne la marcia e consentire  così a Walmart di riprendere il campo” ha concluso il professor  Mourdoukoutas.  Il retailer ha investito cifre folli  per risalire la china. Ha ingaggiato i migliori talenti dello sviluppo software, ha acquisito capacità digitali per espandere la sua presenza nell’online e ha sviluppato la sua versione del programma Prime di Amazon. Inoltre, il gigante di Bentonville  ha lanciato Walmart Connect. Una piattaforma di pubblicità digitale che consente agli inserzionisti di accedere alle proprietà online di Walmart, incluso il suo sito web, l’app mobile e altri canali digitali, rivolti alla enorme base di clienti dell’azienda. 

Più recentemente, Walmart ha acquisito VIZIO HOLDING CORP per circa 2,3 miliardi di dollari per accelerare ulteriormente Walmart Connect negli Stati Uniti. L’acquisizione di VIZIO e del suo sistema operativo (OS) SmartCast consentirà a Walmart di connettersi e servire i suoi clienti in modi nuovi, tra cui la televisione innovativa,  l’intrattenimento domestico e le esperienze multimediali. Il retailer  “tradizionale” sta lentamente iniziando ad assomigliare alla start-up online che ha cercato di portare via il suo mercato. “Sì, Walmart sta iniziando ad assomigliare di più ad Amazon”, ha detto Michael Zakkour, un esperto di retai ed e-commerce, alla rivista online International Business Times. “Walmart ha trascorso gli ultimi cinque anni a ricostruirsi, da leader nei negozi fisici a leader nel suo campo  più rivenditore di e-commerce, in un ecosistema commerciale completo”.

Nel frattempo, Walmart sta capitalizzando la sua vasta rete di negozi fisici per cavalcare la nuova tendenza: omnichannel o unichannel che dir si voglia.  “È la fusione delle vendite online e offline e l’integrazione di tutti i canali e dei punti di contatto di scambio. Questo nuovo modello organizzativo  consente al retailer di interagire con i clienti in modo coerente e offrire esperienze rapide, personalizzate e convenienti, guidando in ultima analisi la soddisfazione, la fedeltà e la crescita del business. Ad esempio, i clienti di Walmart possono ordinare la merce online e ritirarla in un negozio  locale o farla spedire loro per la consegna in giornata. È qualcosa che manca ad Amazon, almeno in luoghi in cui non ha una presenza fisica o un magazzino. Leggi tutto “Destini incrociati. Walmart risponde ad Amazon..”