Scapoli contro ammogliati…

La partita che si gioca oggi nelle piazze non influenza minimamente l’esito del campionato. L’estremismo inconcludente e parolaio trascina nei suoi cortei e mostra a tutti anche una parte degli ultimi. Quelli che, ogni giorno, ci sforziamo di non vedere.

Però chi li dirige non è uno di loro. Ultra garantiti del settore pubblico e parapubblico e vecchie glorie dell’estremismo sindacale d’antan guidano la protesta.

Obiettivi politici, totalizzanti, impossibili e onnicomprensivi, come sempre. Una grande confusione che nasconde l’assoluta mancanza di soluzioni possibili.

Per molti giovani bikers di Foodora il termine USB è più che altro associato ad una chiavetta da inserire nel PC mentre, per chi aderisce allo sciopero nazionale indetto proprio da questa sigla e dal variegato mondo del sindacalismo estremista ha ben altro significato.

Sono generazioni e mondi diversi. È però singolare la concomitanza dei due avvenimenti. Da una parte chi sta ottenendo “ben” 4 euro lordi a consegna. Dall’altra chi è riuscito a mettere insieme intoccabili del settore pubblico, marginali del lavoro dipendente, immigrati disperati inquadrati in cooperative di vario colore intrisi da una retorica buona per tutti. I primi, se va bene, avranno ottenuto di dare maggiore dignità alla cosiddetta gig economy con ben 7.20 netti all’ora, la possibilità di rivolgersi a riparatori di biciclette convenzionati e un’assicurazione se dovessero provocare danni a terzi per la fretta con cui saettano per la città. Nell’altro caso a detta degli stessi organizzatori lo sciopero è indetto con lo scopo di paralizzare il Paese.

C’è un po’ di tutto e di più nella protesta. “Per l’occupazione, il lavoro e lo stato sociale, contro le politiche economiche del governo Renzi dettate dalla UE; per la difesa e l’attuazione della Costituzione ed il NO al Referendum; per la scuola e la sanità pubbliche ed il diritto all’abitare; contro l’attuale sistema previdenziale e la controriforma Fornero, la riforma Madia, il jobs act, l’abolizione dell’art.18, la precarietà, l’attacco al Contratto nazionale; per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, per l’aumento di salari e pensioni, per il reddito, per la sicurezza sul lavoro e nei territori; contro le privatizzazioni, la deindustrializzazione, e per la nazionalizzazione di aziende in crisi e strategiche; contro la Bossi-Fini e il nesso permesso di soggiorno–contratto di lavoro; contro la guerra e le spese militari; per un fisco giusto senza condoni agli evasori; per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza che annulli l’accordo del 10 gennaio 2014.

Dietro questa sproporzione siderale tra le richieste e i risultati di cui dovranno accontentarsi i bikers torinesi e le rivendicazioni politiche dei cosiddetti sindacati di base c’è il nostro Paese.

Un Paese fragile, che rischia un declino vero mentre sembra sentirsi a proprio agio in una perenne assemblea di condominio sui media e nelle piazze dove a tutti è consentito di urlare la propria rabbia e il proprio dissenso ma a condizione che nulla venga risolto se non a danno del vicino. Su altri tavoli, ad esempio, i sindacati confederali dei metalmeccanici stanno cercando di rinnovare il loro contratto con passione e serietà, altri lo hanno già fatto e altri ancora seguiranno.

E le richieste sono innovative, compatibili e costruttive. Io credo che, ciascuno di noi, dovrebbe fare di più per scrollarci di dosso, questa parte del Paese inconcludente, parolaia, benaltrista e rancorosa. Proprio per voltare pagina, insieme. Anche perché, l’Italia insoddisfatta, non è tutta lì. Un’altra parte, ben più consistente vagola a destra o altrove nel nostro panorama politico.

A mio parere chi vuole un Italia diversa, positiva, accogliente, costruttiva e integrata in Europa è comunque la stragrande maggioranza del Paese. Possono stare a destra come a sinistra o in centro. Hanno scelto i sindacati confederali, le associazioni datoriali o mille altre realtà dove fare volontariato e impegnarsi per sé ma anche per gli altri.

Sono convinti che la solitudine e la mancanza di risposte credibili porti inevitabilmente chi non ha nulla da perdere in quelle piazze o ingrossi sentimenti di isolamento e quindi di rancore sociale. E li rende facili prede di strumentalizzazioni di ogni genere.

Chiedono solo di poter credere in una buona politica rinnovata e concreta che sappia indicare un percorso difficile ma credibile. Come i bikers di Torino che, in fondo, volevano solo risposte concrete, non dotte disquisizioni o convegni sulla natura del loro rapporto di lavoro. E l’azienda sembra averlo capito immediatamente. Adesso spetta ad altri consolidare e costruire un quadro di riferimento credibile per questi come altri nuovi mestieri.

Certo non tutti i bikers saranno soddisfatti. L’idea che si possa tentare un rilancio o ottenere di più sfruttando il momento propizio dell’unità e della protesta potrebbe anche prevalere. Ma il vero negoziatore sa che una forzatura nel momento di maggiore forza verrà pagata con gli interessi quando questa forza cambia segno.

E questo vale per tutti i negoziati. L’altra strada, quella praticata da molti dei marciatori odierni, è quella di fuggire dalla responsabilità di decidere e di scegliere dietro slogan del tipo: “diciamo basta, vogliamo tutto”. Ma un Paese non cambia dando poco a tutti o tanto a pochi ma dando il giusto a ciascuno.

E il giusto deve essere la Politica a determinarlo. Quindi, non ciascuno di noi chiuso nel suo particolare, ma tutti noi come parte della stessa comunità in cammino.

Il vaso di Foodora si è rotto. È ricostruibile?

La metafora usata da Di Vico sul Corriere, a proposito del segnale emerso dalla vicenda dei bikers torinesi, è stimolante e, a mio parere, merita un ulteriore approfondimento. Il vaso di Foodora (l’azienda coinvolta nella vicenda) sostiene DI Vico, si è rotto e, con lui, molto probabilmente, è stato evidenziato, ancora una volta, la crisi del rapporto tra lavoro e consumo.

Nel recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” di Giuseppe Berta l’autore affronta il tema in modo netto. “…Il messaggio che ci viene dalle imprese high-tech, quelle che adesso hanno più facilità nel raccogliere capitali e convogliare liquidità, è che tutto domani costerà un po’ di meno di oggi.

Costerà meno prendere un’auto che ci porti a destinazione rispetto al taxi che eravamo abituati ad usare. Ma anche affittare un alloggio privato per due giorni ci costerà meno di un albergo è così via. Peccato che questo mondo low cost che esibisce il volto accattivante della sharing economy, dove la condivisione è vantaggiosa e, apparentemente ispirata al principio di un’essenzialità nemica dello spreco, remuneri inevitabilmente di meno anche il lavoro, sicché le due figure, quelle del lavoratore e del consumatore, che Henry Ford aveva congiunto cento anni fa, vengono di nuovo separate, riducendo per molti la capacità di reddito e quindi di consumo…”

E ancora.. “..High tech e low cost stanno attaccando frontalmente il mondo economico e produttivo di ieri, fondato sull’ipotesi di una espansione praticamente illimitata dei beni di consumo…” È l’altro volto della globalizzazione, bellezza! direbbe qualcuno.

Di fatto, una polarizzazione sempre più marcata di redditi, consumi e lavoro. Quindi un forte ridimensionamento della quantità e qualità del welfare, della contrattazione collettiva e delle politiche sociali in genere. Una società darwiniana dove chi si adatta o chi è più forte sopravvive mentre tutti gli altri, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo dove vivono, sarebbero condannati all’emarginazione.

Il sociologo Renato Curcio, più noto per altre vicende ma non per questo meno attento a questi fenomeni, sono anni che insiste sulle contraddizioni tra lavoratore e consumatore. Le sue analisi, pur datate, sui centri commerciali e sulla Grande Distribuzione, presentano l’altra faccia del consumatore di fine secolo: bulimico, isterico, alla caccia continua di tutti gli sconti possibili, desideroso di acquistare tutti i giorni della settimana, domenica compresa e sprezzante verso il lavoratore.

E, inevitabilmente, del lavoratore di fine secolo: circondato nelle sue conquiste sindacali (pause, lavoro domenicale, turnazioni), impossibilitato a migliorarle e indisponibile a condividerle con i nuovi assunti, rancoroso con il sindacato, irritato dal cliente e succube dalle continue riorganizzazioni e ristrutturazioni. Infine i centri logistici.

Luoghi dove i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente sfumano in lavoratori tutelati dal sindacato e cooperative di dubbia costituzione dove l’etnia e la dipendenza da veri e propri caporali domina la scena. E questi, si badi bene, sono luoghi dove convivono, con queste contraddizioni, multinazionali, grandi imprese, sindacati, imprenditori, centri di ricerca, università, ecc.

Quindi dove esiste oggettivamente la possibilità di studiare i fenomeni, guidarli, correggerli ed eventualmente censurarli. Concludo, sempre con Berta che però ci suggerisce di tenere in considerazione che la risposta non è a portata di mano e soprattutto non è semplicemente riscontrabile in un modello fortemente normato e inclusivo come il modello tedesco infatti: “(esso).. appare in effetti assai meno proiettato all’innovazione di quanto ami raffigurarsi.

È la concezione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi, e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale… e oggi è questa forma di capitalismo a rischiare l’obsolescenza..”

Qui sta il punto e, da qui, bisogna ripartire, insieme. Imprese, sindacati, politica e studiosi. Non basta parlare di digital divide, industry 4.0, sharing economy. Né di prendere atto che i millenials o chi verrà dopo, di questo poco che c’è, dovranno accontentarsi.

Né di mettere le generazioni contro, una all’altra, sperando che la soluzione sia sostanzialmente in una più equa divisione di ciò che abbiamo ereditato dal passato in termini di welfare, spesa pubblica e debito conseguente.

Un cambio di paradigma determina inevitabilmente reazioni a catena. L’impresa e il lavoro devono cambiare in profondità. Così come diritti, doveri e welfare. Manzoni diceva: ” Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Personalmente lo condivido. Credo però che sia ragionevole pensare che, tra lasciare che il “nuovo” avanzi come un fiume in piena portando con sé i costruttori degli argini precedenti e lavorare insieme per costruire i nuovi argini la scelta sia obbligata.

L’importante è sapere che il fordismo anche culturale, che ci trasciniamo dal secolo scorso, delle imprese, dello Stato, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza non ci darà più buoni consigli. Né ci indicherà una strada, anzi.

Ma qui passa o meno la possibilità di partecipare alla ricostruzione del nuovo vaso.

Foodora: lo sciopero “non” sciopero nell’era del lavoro “non” lavoro…

La notizia ha fatto un certo scalpore. I bikers di Foodora a Torino si sono fermati, non hanno consegnato più i pasti e hanno invitato i clienti a non comprare in segno di solidarietà nei loro confronti.

Le reazioni sono state interessanti. Da un lato i “modernisti” corsi immediatamente a spaccare il capello in quattro per separare l’evoluzione di un’offerta commerciale dagli inevitabili effetti collaterali. Dall’altro i “tradizionalisti” impegnati a inserire la vicenda Foodora in un normale caso di sfruttamento e quindi da stigmatizzare per quello che è. In mezzo l’azienda e i ragazzi coinvolti che si sono trovati improvvisamente in un “gioco” più grande di loro.

Un gioco di cui è facile prevederne la fine. L’azienda, oggi è rigida e indisponibile al confronto. Ha provveduto a comunicare ai singoli alcuni interventi correttivi ma, non avendo alcuna conoscenza del contesto italiano, si avviterà in decisioni opinabili che ne caratterizzeranno l’immagine per lungo tempo.

E questo anche se, più avanti, le verrà suggerito di abbozzare, almeno per un po’ e trovare una soluzione. I bikers coinvolti, troveranno un accordo transattivo. Il rischio vero è che tutto tenderà a riassorbirsi in un nulla di fatto fino alla prossima puntata. In questa o in un’altra realtà della gig economy.

Per il momento, l’opinione pubblica giovanile e il ministro del lavoro Poletti hanno espresso la loro solidarietà ai bikers e si sono messi in moto gli ispettori del lavoro. Come nel caso di airbnb e di altri casi non dovrebbe essere sufficiente un simpatico nome inglese che significa “l’economia dei lavoretti” per eludere regole chiare e semplici. Dietro a tutto questo, non ci sono novelli Steve Jobs nostrani o spezzoni di classe media in cerca di facili guadagni più o meno regolari..

Ci sono multinazionali vere e proprie che muovono miliardi. Questa non è affatto sharing economy ma shadow economy. È il sommerso legalizzato di cui in Italia siamo maestri da sempre. È lavoro nero o, per dirla in inglese, black market…

Mi ricordo che a Ragusa qualche anno fa stavo procedendo con le selezioni per l’apertura di un centro commerciale. I ragazzi, diciottenni o poco più, che si presentavano al colloquio di assunzione mi domandavano se la retribuzione proposta fosse con o senza assicurazione.

All’inizio non capivo cosa fosse questa benedetta assicurazione poi mi hanno spiegato che era assolutamente normale chiedere, in fase di assunzione, se questa fosse con o senza i contributi INPS. Quello che mi colpì fu la normalità della richiesta e la rassegnazione convinta dei richiedenti. Non tanto l’enormità della domanda. Soprattutto quando mi accorsi che ero l’unico, sul posto, a stupirmi.

Accorgermi oggi che non è cambiato nulla o quasi che anziché utilizzare il dialetto, si usa l’inglese perché fa più figo, è inaccettabile. Ma non serve indignarsi. Servono regole. “Stesso mercato, stesse regole” mi sembra uno slogan condivisibile.

Vale per le attività delle finte “Bettine” di arbnb che gestiscono migliaia di appartamenti, deve valere anche per il riconoscimento del lavoro e delle attività economiche di qualsiasi genere. Certo non è pensabile l’applicazione tour court di contratti costruiti per ben altre situazioni ma occorre costruire qualcosa di serio.

Forse nel caso dei bikers saltuari occorrerebbe promuovere formule nuove, anche mutuandole da modelli cooperativi. Non credo corretto attendersi solo dalle organizzazioni sindacali soluzioni perseguibili. I sindacati possono intervenire se i lavoratori coinvolti danno loro un mandato a negoziare.

Nel caso di Foodora non c’è nulla di tutto questo. Anzi, non si può neppure parlare di sciopero. Al massimo di non lavoro di alcuni mentre altri continuano a rispondere senza alcun problema alle chiamate.

C’è un rapporto individuale, saltuario gestito a volte tramite sms che può coinvolgere questi o altri bikers per una o più consegne. L’INPS, il Ministero del lavoro tramite i suoi ispettorati devono accertare la natura dell’attività e la qualità del rapporto.

Esperienze analoghe sono presenti in Francia e in Germania e quindi non dovrebbe essere difficile mutuare elementi e indicazioni per costruire punti di riferimento utili. L’unica cosa che non si può fare è lasciare che le cose si aggiustino da sole.

Né nel caso di airbnb né nel caso di Foodora. Né in nessun altro caso. Lasciar fare non è indice di modernità. Semmai di incapacità ad affrontare ciò che è nuovo o si presenta in modo diverso dal passato.

Un azienda il giorno dopo….

Gli articoli che si sono susseguiti in queste settimane sulla vicenda Esselunga si sono giustamente concentrati sulla figura di Bernardo Caprotti, sulla sua famiglia e sul futuro di una delle aziende più importanti della GDO italiana. Qualche articolo si è spinto a osservare l’azienda anche dal punto di vista dei clienti particolarmente soddisfatti di un’insegna che, soprattutto a Milano, rappresenta qualcosa di più di un supermercato. Mi ha sorpreso che nessuno ha preso in considerazione il ruolo del management e dei dipendenti nel successo dell’azienda. Solo il dottor Caprotti, nel documento diffuso dalla stampa, ha invece manifestato la riconoscenza e quindi la preoccupazione per il futuro dei suoi oltre ventimila collaboratori. Esselunga è un’azienda solida. Lo è innanzitutto per merito del suo fondatore ma anche perché le scelte operate dai suoi collaboratori principali sulla qualità delle risorse umane hanno consentito di individuare, formare e gestire professionisti di grande spessore umano e professionale. Basta entrare in un loro punto vendita per comprenderne il livello. Se poi anziché entrare in un solo punto vendita se ne frequentano diversi con un occhio mediamente esperto e si confrontano con i punti vendita di alcuni concorrenti si ha modo di rendersi conto della differenza qualitativa. Non sto parlando, ovviamente, di qualità dei prodotti, incisività delle promozioni, fatturato per metro quadro, format commerciali e quant’altro dove ogni azienda può optare per strategie differenti. Mi voglio concentrare su un argomento sempre sottovalutato: il valore del capitale umano nel successo di un’impresa. Chiunque ha lavorato nelle risorse umane sa come è difficile costruire una squadra. Ingaggiare persone, condividere con loro valori e quotidianità, renderle orgogliose di appartenere ad un grande progetto indipendentemente dalla dimensione dell’azienda. Certo la figura del leader è fondamentale e la storia di successo che lo ha accompagnato è sicuramente un plus indiscutibile. Ma la squadra che intorno a lui ha avuto il compito di trasmettere questi valori, di viverli quotidianamente fornendo esempio e coerenza, non è da meno. La vera modernità di Esselunga è di averlo capito prima di tutti. È così mentre altri hanno scelto la strada dell’avvitamento continuo causato dal taglio dei costi come antidoto alla riduzione delle vendite optando per modelli di gestione del personale tardo fordista, loro hanno puntato sulla cura del servizio e del dettaglio in ogni operazione di vendita. È difficile nella GDO innovare i format di vendita, migliorare la qualità e la tipologia del servizio al cliente e mantenere elevato l’investimento sulle risorse umane. Chi lo ha fatto o lo sta facendo oggi ha un importante vantaggio competitivo. E questo è tutto merito del management che, in queste grandi imprese distribuite sul territorio non è concentrato in poche mani ma deve, necessariamente, comprendere tutte le figure che gestiscono risorse siano esse dirigenti, quadri, responsabili di punto vendita o capi reparto. Esselunga non è la sola, altre si sono da tempo avviate su questo terreno. Oggi mi sembrava giusto dare merito a chi non è sotto i riflettori perché di fronte alla scomparsa del suo fondatore è giusto che non lo sia. Ma va tenuto presente nei prossimi passaggi che coinvolgeranno il futuro di questa impresa. È un capitale che non va disperso né sottovalutato perché è parte fondamentale del successo di Esselunga. Ed è una sfida per tutte le imprese.

Brexit, olimpiadi, referendum. Ma c’è una prospettiva?

Se dovessimo ritenere significativo il dibattito scatenato sulle radio e in rete sulla risposta di Virginia Raggi per la candidatura alle Olimpiadi di Roma 2024 dovremmo considerare assolutamente prevalente il sostegno al NO. Una posizione affatto sorprendente visto che, il recente e travolgente successo del neo sindaco, conteneva anche un netto e preventivo rifiuto a proseguire sulla strada proposta dal Comitato Organizzatore insediato con l’amministrazione precedente. Non sono però, in questa sede, interessato ad entrare nel merito pur essendo personalmente favorevole alla candidatura. Sono più interessato alle reazioni. Ma soprattutto al distacco sempre più netto, che queste reazioni testimoniano, tra gente comune e classe dirigente. La cultura del “not in my backyard” mi sembra possa rappresentarne il vero punto di partenza di questo “pensiero profondo”. Un “movimento di opinione”, prima locale poi sempre più diffuso che individua nelle scelte di una qualsiasi classe dirigente, locale, nazionale o internazionale l’avversario da battere. In parte per ragioni opportuniste in parte causate da paure di tutto ciò che è cambiamento del proprio status vero o presunto. In parte come risposta a tutto ciò che i cambiamenti hanno prodotto o rischiano di produrre al proprio vissuto quotidiano. Dalle migliaia di comitati locali che protestano su qualsiasi cosa in piazza, in televisione o in rete, passando attraverso movimenti politici di vario genere che nascono e si sviluppano in tutto l’Occidente per arrivare fino alla Brexit. La candidatura alle olimpiadi della città di Roma ne rappresenta sicuramente un’altra tappa. Temo anche il referendum di novembre. È un’onda inarrestabile? Ma soprattutto dove rischia di portarci? A mio parere non promette nulla di buono. È come se stessimo assistendo ad un’assemblea permanente di condominio dove nessuno alza più lo sguardo sui problemi veri ma dove nessun amministratore, che vuole conservare l’incarico, si permette di far ragionare seriamente i condomini. Non c’è nessuna volontà di cambiamento vero. C’è solo una radicale voglia di mettersi di traverso su tutto. La priorità ormai è quella di impedire i disegni altrui, non di affermare i propri che, spesso, non esistono nemmeno. È la fine della politica come strumento di mediazione e di proposta. Ovviamente c’è chi cavalca questo clima. Ho la netta sensazione che questo fenomeno si sia collocato definitivamente oltre lo schema novecentesco di contrapposizione tra destra e sinistra e che, le due grandi correnti di pensiero non riescano più a entrare in relazione, se non saltuariamente, con questo magma in continua mutazione. Si sta ormai diffondendo in tutti i Paesi occidentali con sembianze diverse. Da Trump che spinge un vecchio repubblicano come Bush senior a votare per la Clinton, a Frauke Petry in Germania che si oppone alla Merkel, a Farage in Gran Bretagna che vince e saluta, a Grillo in Italia. È un “NO” deciso ad un futuro ritenuto scritto da altri che, amplificato dai media, si rafforza scuotendo le fondamenta costruite dai sistemi democratici nel novecento. Personalmente credo che questo tsunami non porti a nulla di buono. Io sono per la democrazia rappresentativa e non amo né le assemblee di condominio, né alla rete che insulta, né le trasmissioni televisive dove si spettacolarizza la paura e il disagio. Spero che la buona politica, la cultura, la buona informazione, l’impegno personale e la coerenza possano fare da argine e far “cambiare verso” il nostro come gli altri Paesi. Le grandi prove di solidarietà conseguenti al recente terremoto sono lì a dimostrare che possiamo farcela e che siamo molto meglio di come vogliamo apparire. Il novecento ci ha costretto a prove ben più complesse ma, pur a fatica, chi ci ha preceduto ha saputo indicare come superarle. Le nostre radici sono lì. Dobbiamo solo convincerci che è possibile separare il grano dal loglio.

Panda sarà lei….

Essere Dirigente oggi non è facile. Circondati da luoghi comuni che assimilano l’intera categoria a Sergio Marchionne o con i bonus milionari percepiti da alcuni e indicati al pubblico ludibrio su pensioni e ruolo negativo nel pubblico impiego, si rischia di svilire e banalizzare un ruolo estremamente importante anche per il futuro del nostro Paese. I dirigenti privati oggi sono oggi più di centoventimila. Nel terziario di mercato superano abbondantemente i ventimila. Molti di meno rispetto agli altri Paesi. Insidiati dal basso dai Quadri, di lato da figure consulenziali e da ruoli temporanei. Da sopra, soprattutto nelle PMI, da una scarsa propensione di molti imprenditori a riconoscerne l’importanza per il futuro delle loro imprese. Ad una analisi superficiale potrebbe sembrare una categoria numericamente in declino ma non è così. È indubbio che c’è in corso un forte assestamento, soprattutto nel settore industriale. Assestamento dovuto alle riorganizzazioni aziendali che non hanno risparmiato la categoria e ai conseguenti ridisegni dei modelli organizzativi che hanno concentrato ruoli e responsabilità decisionali. Nel terziario che sta prendendo sempre più peso, assistiamo invece ad un fenomeno contrario con un leggero e costante aumento di nomine. Un altro luogo comune che compare ogni tanto sui media è che, ormai, il ruolo del dirigente e quello del quadro sarebbero, tutto sommato, sovrapponibili e quindi che le aziende sarebbero incentivate a mantenere il collaboratore in questa categoria impiegatizia, seppure collocata al massimo livello. Forse è stata la lingua inglese che ci ha portato fuori strada. La qualifica di “Manager” più qualcosa non si nega ormai a nessuno e quindi ruoli, compiti e funzioni si pensa possano sovrapporsi facilmente. Dirigente e Quadro sono due figure professionali ben diverse. Sia in termini di responsabilità che di ruolo aziendale. E questo nonostante che retribuzione e benefit tendano ad avvicinarsi. Omologare le due figure è sbagliato e controproducente. Per il singolo che si vede privato di una concreta possibilità di riconoscimento delle sue ambizioni, dell’impegno e delle competenze acquisite e per l’azienda che, se crede nel merito, nella crescita professionale e nell’investimento nelle sue risorse chiave non può nascondersi dietro un problema di costo per i suoi ruoli apicali. Tra l’altro l’idea che un collaboratore sia solo un costo ha fatto il suo tempo. Nel caso del dirigente è addirittura controproducente. Dire, come fanno alcuni colleghi DHR che un Quadro costa meno di un Dirigente è una affermazione tutto sommato banale. Certo che è così! Ma il punto è un altro. Essere Dirigente, oggi, non è un più un punto di arrivo come in passato. È uno snodo fondamentale per chi desidera crescere, gestire risorse e contribuire al successo della propria azienda. Per arrivarci occorrono diversi elementi non tutti raggiungibili solo attraverso competenze tecniche. Occorre investire costantemente su se stesso, sui propri punti forti, sulle proprie capacità che devono misurarsi con contesti sempre più complessi. Occorre saper “indossare una maglia” e ingaggiare costantemente i propri collaboratori verso obiettivi sfidanti e risultati concreti. Occorre saper difendere le proprie idee mettendole a disposizione dell’impresa sapendole integrare con quelle dei colleghi, andare oltre alle inevitabili delusioni e costruire sempre un clima positivo e collaborativo. C’è una sostanziale differenza tra essere Dirigente ed essere Quadro. E questa differenza non è colmabile con titoli artefatti, seppure internazionalmente comprensibili. L’investimento nelle risorse chiave in tutti i Paesi avanzati comprende, status, benefit, welfare come è più che in Italia. Ed il fatto che da noi i Dirigenti, ad esempio del terziario, siano tutelati da un contratto nazionale contenente un welfare d’avanguardia su sanità, previdenza e formazione, integrabile a livello aziendale dalla contrattazione individuale, è un elemento ulteriore di civiltà e di lungimiranza. Ma questa differenza non serve solo ai dirigenti. Serve anche ai Quadri che devono trovare nel loro dirigente di riferimento un esempio, un coach importante per la carriera, uno stimolo alla crescita. Ed investire su se stessi con continuità. Per questo occorre riflettere sul tema in modo meno superficiale. Lo si deve ai giovani che, ancora numerosi, si iscrivono nelle università, affrontano percorsi internazionali impegnativi e alle loro famiglie che fanno importanti sacrifici con l’obiettivo di vederli crescere e l’ambizione dei ragazzi di volercela fare. Lo si deve ai colleghi che, dirigenti oggi, si impegnano pur in mezzo a mille difficoltà proprie e dei propri collaboratori. Banalizzare ruoli e funzioni non porta da nessuna parte. Occorre al contrario incentivare la presenza di manager delle imprese, riconoscerne il merito, spingerli ad investire nelle proprie capacità e competenze, aiutarli nei passaggi delicati, sostenerli nel disorientamento che oggi attraversa tutto il mondo del lavoro. L’azienda di domani sarà un’azienda profondamente diversa rispetto a quella che abbiamo conosciuto. Sarà probabilmente abitata da robot, tecnologicamente avanzata, ricca di stimoli e meno legata ad un luogo fisico tradizionale. Ma in quell’azienda si farà strategia, si ingaggeranno i collaboratori, si prenderanno decisioni seppure in modo profondamente diverso da oggi. Così come da qui ad allora continueranno ad esserci Quadri e Dirigenti che, nel rispetto dei differenti ruoli, daranno senso e contenuto al termine “Manager”. I primi consapevoli del loro ruolo e delle loro prospettive professionali, i secondi maggiormente strutturati, più imprenditivi e più impegnati a condividere con l’impresa rischi e opportunità. Questo ha sempre fatto la differenza e continuerà a farla. L’estinzione del Panda quindi non è all’ordine del giorno. Anzi.

Europa, ripartire dal lavoro anziché dalla paura

È di oggi la notizia che in Francia si vorrebbe ripristinare una sorta di servizio civile obbligatorio. Dai tre ai sei mesi per favorire l’integrazione sociale e l’adesione ai valori costitutivi di quel Paese. Se lo strumento individuato restasse solo questo il rischio è di cercare la classica risposta semplice ad un problema ben più complesso. In Francia, che lo si voglia ammettere o meno, chiamarsi Mohamed o Jerome non è la stessa cosa. Così come abitare a la Courneuve o nel deuxième arrondissement. E non è la stessa cosa anche nella ricerca del lavoro dove le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Le banlieue (il cui significato letterale è: luogo bandito, ovvero luogo abitato da banditi) come elemento ghettizzante non sono una prerogativa delle grandi città, esistono anche nei piccoli paesi. Essere francesi bianchi o discendenti dei “pieds noirs” di seconda o terza generazione fa la differenza. E lo fa da sempre. È uno spaccato di normalità della Francia che non si è voluto mai affrontare se non sul versante della repressione e dell’emarginazione. Per questo rimontare questa realtà non sarà semplice. E necessiterà di interventi su diversi piani che vanno comunque portati avanti indipendentemente dai rischi di contagio religioso fondamentalista a cui la società francese resta comunque più esposta. L’idea però che un elemento di integrazione può essere dato da una forma di servizio civile obbligatorio è un punto su cui riflettere. Può essere una delle tante risposte necessarie. Ed è una delle risposte che deve cercare anche l’Europa. C’è bisogno di integrazione, di respirare valori condivisi, di credere in un destino comune. E allora perché non partire dal lavoro anziché dalla paura. Ho sempre condiviso l’idea che l’unico modo per ridare slancio ad una diversa concezione dell’Europa sia quella di ripartire dai giovani. Occorre impegno, passione, entusiasmo e convinzione. Negli ultimi dieci anni ho sentito diversi esponenti riformisti rilanciare la proposta di una sorta di servizio civile obbligatorio per il lavoro rivolto ai giovani a cui verrebbe proposto di passare, in un Paese europeo diverso dal proprio, un periodo di almeno sei mesi impegnati in uno stage lavorativo. Certo tutto questo comporterebbe costi importanti, problematiche organizzative impegnative, generosità e partecipazione delle imprese e una grande disponibilità e visione del futuro da parte dei Paesi ospitanti. Tutte cose difficili da realizzare, soprattutto di questi tempi. Però l’Europa è morta se non riesce a evadere dalla prigione che le generazioni che hanno via via sostituito i padri fondatori hanno costruito in tutti questi anni. E, per fare questo, occorre ripartire dai giovani, dalle loro speranze e dai loro sogni. Noi possiamo assecondarne le aspirazioni creando le condizioni migliori. Magari smettendola di litigare sullo zero virgola, sulle immigrazioni o sulle banche. Occorre renderci conto che senza un progetto che guarda al futuro sarà inevitabile rassegnarci alla frantumazione degli interessi, alla paura del vicino e del diverso e trasformarci tutti un po’ come la Francia dove l’altro, diverso o lontano da me, è il nemico a cui contendere il lavoro, il benessere, il diritto ad una vita dignitosa. Romano Prodi in una intervista recente accennava alla necessità che l’Europa osi di più. Tra USA e Cina che si contendono il futuro del mondo solo un’Europa che lancia idee innovative, che esce dal suo torpore e dalla sua inconsistenza progettuale, avrà qualche chance di successo. Personalmente condivido questo atteggiamento. E proprio per questo penso che occorrerebbe ripartire dai giovani cercando di costruire insieme a loro qualche cosa che li convinca che ne valga la pena, che li spinga a osare e a prendere in mano il loro destino. Oggi più che mai.

Firmato il contratto dei dirigenti del terziario, della distribuzione e dei servizi

Scaduto alla fine del 2014 e seguito da una moratoria di oltre un anno, il contratto nazionale dei dirigenti di aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi è arrivato, finalmente, in dirittura d’arrivo. È un segnale importante e positivo della volontà delle parti stipulanti (Confcommercio e Manageritalia) di continuare a collaborare nell’interesse delle aziende del settore e dei dirigenti che vi operano. Non è stato un percorso facile. La crisi, i processi di integrazione e di riorganizzazione hanno messo a dura prova i dirigenti nelle imprese costantemente impegnati in un riorientamento strategico delle attività, degli obiettivi ma anche delle gestione delle risorse umane a loro affidate. Questi processi hanno ancora una volta dimostrato e consolidato la necessaria quanto indispensabile convergenza tra imprese e management finalizzata a raffrozare una nuova cultura, una comune visione del futuro e una volontà di condivisione dei rischi e delle opportunità soprattutto in questo contesto economico, sociale e politico. Confcommercio e Manageritalia hanno saputo sintetizzare queste esigenze mettendo a disposizione di dirigenti e imprese un contratto nuovo, in linea con i tempi e in grado di continuare ad essere un punto di riferimento innovativo per la normativa, il welfare previdenziale, sanitario con una rinnovata attenzione alla formazione della categoria. Ci sarà tempo per approfondire il testo sottoscritto. Oggi è importante sottolineare questo importante risultato che segnala una volontà comune e un impegno di convergenza per il futuro.

qui sotto il testo firmato…..

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Muscoli o cervello?

L’efferatezza degli accadimenti ci lascia senza parole. Charlie Hebdo, Bataclan, Bruxelles. Adesso Nizza. Tutto questo dimostra la nostra fragilità di fronte alla ideologia della morte. Come difendersi da un individuo disposto a morire? Come battere questa violenza bestiale? Oggi, e per qualche giorno, gli esperti ci spiegheranno cosa fare. Poi tutto scemerà fino al prossimo attacco. Così è stato fino ad oggi. E purtroppo, così sarà. Oggi è il momento della rabbia, del dolore, della solidarietà. Poi verrà il tempo degli sciacalli. Nessuno trarrà l’unico insegnamento utile: cosa possiamo fare concretamente noi tutti. Certo c’è un problema di sicurezza, di intelligence e di prevenzione, c’è una guerra in Siria e altrove da vincere, c’è un problema di scontro interreligioso da affrontare, c’è infine un problema che coinvolge l’integrazione sia di chi arriva ma, soprattutto, di chi in molti Paesi in Europa c’è da più generazioni. Pier Luigi Castagnetti su Twitter ha aggiunto un pensiero importante. Proviamo a riflettere sulla distanza delle nostre discussioni quotidiane, delle nostre liti sul nulla, di una politica che nel nostro Paese e in tutta Europa si perde in confronti sterili. Cerchiamo di trovare nelle nostre radici, nelle nostre parole, nelle nostre determinazioni quell’unità di intenti e di senso fondamentali per fronteggiare questa situazione. Abbiamo tutti compreso, pur non condividendole e avversandole, le ragioni folli di chi decide di stare di là. Contro di noi. Dobbiamo trovare, prima che sia troppo tardi, quelle che ci dovrebbero consentire di sentirci orgogliosi di stare di qua. Insieme. Non solo oggi e nei prossimi giorni. Mettendo fuori gioco gli sciacalli. Non si vince questa “guerra” divisi su tutto e in perenne conflitto blablatico. La nostra libertà, le nostre comunità, i nostri valori tendono a perdere importanza per ciascuno di noi se non reagiamo insieme. Non serve a nulla unirci “solo” contro di loro. Perché non funziona più nelle nostre società benestanti e in crisi di identità. Occorre unirci su un idea di unità nella libertà dei valori che, dalla rivoluzione francese in poi hanno costituito la base sulla quale si è affermata la nostra civiltà moderna. In questo senso occorre credere e adoperarsi per costruire una nuova Europa, integrata e non matrigna e un Italia unita, forte delle sue radici e impegnata a condividere un grande disegno riformatore. Non si costruisce nulla sulla paura e sulla violenza. Solo partendo da questa convinzione, a mio parere, potrà ricostruirsi una coscienza pubblica forte, un rinnovato senso delle istituzioni e delle priorità riformatrici di una comunità in cammino disorientata e impaurita. Questa è l’unica strategia che può e deve vederci protagonisti. Partiti, corpi intermedi, istituzioni. Il resto, purtroppo, ci riporta ai nostri egoismi mediocri, alle nostre parole e alla nostra solidarietà purtroppo inconcludente.

Movimenti e politica dopo il novecento

Oggi sul Corriere Pierluigi Battista conclude, forse troppo drasticamente, che il novecento è morto e che i nuovi movimenti si stanno consolidando in tutta Europa. Il novecento, a mio parere, non è affatto morto. Anzi. È proprio la sua estrema vitalità sul piano politico e della rappresentanza che ne impedisce l’auspicato quanto necessario superamento. I vari movimenti politici che si propongono in tutta Europa segnalano un disagio profondo; il disorientamento dei cittadini di quasi tutti i Paesi causato dalla globalizzazione. È la ricerca di risposte semplici, immediate, che riportino indietro il tempo. Non c’è in nessun nuovo movimento uno sguardo sul futuro. C’è una vaga quanto ingenua promessa che con maggiore onestà e una più puntuale difesa degli interessi nazionali tutto possa ritornare come prima per il ceto medio, gli anziani che si sentono emarginati e, ovviamente per il futuro dei giovani. Addirittura si tende a far passare l’idea che i fenomeni migratori siano causati dalla incapacità della politica tradizionale e delle istituzioni di affrontarli contingentarli e risolverli rapidamente. Non esiste un’analisi sulla inevitabilità dei flussi migratori e sulla necessità di prepararsi ad un mondo profondamente diverso da quello al quale siamo cresciuti. Il sussulto della Brexit va in quella direzione, così come tutto ciò che sta avvenendo al di fuori del “controllo” della destra e della sinistra tradizionale nel mondo. L’inadeguatezza delle risposte tradizionali viene sostituita dall’inadeguatezza delle risposte nuove. Tutto qua. La globalizzazione ha messo in campo le sue priorità e la politica come elemento di mediazione e di proposta non è tra quelle. Inoltre la cosiddetta disintermediazione, sul piano planetario ha colpito innanzitutto le istituzioni e la politica dei singoli Paesi mostrandone l’inefficacia nel governare i fenomeni e determinando quindi  una risposta di “pancia” delle persone lasciate sole con i loro problemi. Gli schemi stanno saltando un po’ dappertutto ma non credo siano sufficienti le ingenue risposte messe in campo fino ad oggi. Resto convinto che questo non è il tempo per risposte parziali, difensive o spinte localistiche. È, al contrario, il tempo delle grandi coalizioni nazionali e internazionali omogenee che possano rimettere al centro una discussione vera sulle regole di governo dell’economia, gli assetti della democrazia, le grandi onde migratorie e trovino anche le risposte per chi resta necessariamente indietro in questa fase di transizione. Il meccanismo che è stato messo in moto non ci dice quale sarà l’approdo finale. Ci dice solo che ciò che abbiamo alle spalle è inadeguato e che il “viaggio” è obbligato. C’è chi pretende di ritornare indietro, chi non vuole andare avanti e chi propone risposte semplici a problemi complessi. Molti sono affascinati dai dilettanti, dagli inesperti, dalle scorciatoie. Al contrario questa è la fase dove i migliori professionisti dovrebbero lavorare insieme per costruire il futuro. Il novecento ha prodotto pensiero, ricchezza e speranze. I grandi movimenti politici e sociali che sono nati e cresciuti in quegli anni e in quelle circostanze devono saper trovare cosa li unisce e sapere quale è la posta in gioco. Per questo io non credo affatto che siano al capolinea. Perché come afferma un vecchio proverbio arabo: “tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” È il momento di dimostrare che verrà il giorno dove destra e sinistra si confronteranno ancora su versanti opposti con proposte differenti perché si dovrà decidere come distribuire la ricchezza prodotta. Però non è questo il giorno. Oggi è tempo di convergenza e di unità di intenti tra tutte le forze politiche e sociali a cui i cittadini, tra l’altro, continuano a dare la maggioranza dei consensi. In Europa ma anche nei singoli Paesi che la compongono. Solo così quei movimenti ritorneranno ad avere una funzione utile di pungolo per la democrazia e di partecipazione per le nostre comunità. Ma in un quadro governato e sicuro.