La disfida di Firenze.

Se una qualsiasi azienda si offrisse di superare i ventimila dipendenti nel nostro Paese, di continuare a svilupparsi su tutto il territorio, di offrire lavoro e crescita professionale,di utilizzare in gran parte prodotti italiani e di garantire igiene e sicurezza, non dovrebbe trovare nessuno, sano di mente, che decide, di punto in bianco, di mettersi di traverso. Siccome il Sindaco di Firenze, Nardella, lo ha fatto, è interessante cercare di capire le motivazioni di un gesto tanto clamoroso quanto incomprensibile. Mi ricordo che quando ero ragazzo sul distributore automatico di Coca Cola nella mia vecchia scuola una mano anonima aveva scritto con il pennarello rosso: “Per ogni coca cola che berrai, una pallottola all’AmeriKano tu darai, e se l’AmeriKano non fallisce è un compagno vietnamita che perisce”. C’era la guerra in Vietnam  ma nessuno ci faceva caso più di tanto a quella scritta, salvo i militanti più accaniti che preferivano bere la Fanta o un Chinotto. Tutto qua. Nessuno avrebbe mai pensato di chiudere o di far trasferire il distributore automatico. Ed erano anni caldi. Sono passati più di quarant’anni ma sembra sia rimasta, in alcuni personaggi, una infrastruttura ideologica dura a morire. Firenze, secondo me, è lì a dimostrarlo. Un’azienda (McDonald’s) chiede di aprire un proprio negozio in centro, il comune pone tutte le condizioni che ritiene necessarie e il negoziato procede per oltre cinque mesi. Poi tutto si ferma e il Sindaco dichiara che quell’apertura non sa da fare, perché in quella piazza, simbolo della città, già degradata, quella apertura aggiungerebbe una nota negativa. Ovviamente il sindaco Nardella dichiara di non aver nessun pregiudizio ideologico né di voler impedire la libera iniziativa economica ma ribadisce il suo no: “McDonald’s non aprirà in Piazza del Duomo. Ne va del decoro della città”. Se togliamo il pregiudizio ideologico di cui sopra cosa ha che non va un’azienda che investe, si fa carico dei dipendenti licenziati dall’esercizio che sta chiudendo, propone un luogo di ristoro economico, di buon livello e che utilizza in gran parte materie prime provenienti da prodotti locali? E cosa potrebbero proporre gli “imprenditori fiorentini” chiamati da Nardella a farsi avanti con soluzioni in linea con il decoro della piazza? Sinceramente diventa difficile chiedere alle imprese estere di investire in Italia e poi provare a penalizzarle per pregiudizi o per calcoli politici locali. Da una amministrazione importante ci si aspetterebbe una sensibilità diversa. Invocare il decoro e l’immagine internazionale di una piazza importante di Firenze come elemento determinante per impedire lo sviluppo di un’impresa conosciuta in tutto il mondo rischia solo di essere un autogol per il nostro Paese. Se esistessero elementi contestabili nel merito del progetto si evidenzino e si solleciti l’azienda al loro rispetto. Se questi elementi, al contrario, sono solo prodotti da pregiudizi di un’altra stagione che non hanno più ragione di esistere si dia prova di buon senso prima che una vicenda locale assuma le caratteristiche di uno “scontro tra culture”. Non serve al nostro Paese e non serve a Firenze che dovrebbe fronteggiare, questo sì, il degrado già presente non solo in quella piazza che, al contrario, non viene minimamente affrontato. Con buona pace dei turisti ma anche dei fiorentini a cui non dovrebbe essere indicato un “nemico” del decoro che altro non è che un’azienda che investe e porta lavoro. A tutti, amanti o detrattori di quello che a torto viene ancora ritenuto l’emblema della globalizzazione resta, come nella mia vecchia scuola, la possibilità di scegliere se entrarci o meno. L’importante però è comprendere che se un’azienda multinazionale da lavoro a migliaia di lavoratori residenti in Italia, paga le tasse, rispetta le leggi e i contratti di lavoro, propone prodotti che per l’85% sono di origine italiana e si trova a dover decidere se investire o meno su nuovi format in Italia, non debba porsi il problema se farlo o meno a causa di un sindaco che, per motivi che non c’entrano nulla con la concessione di una licenza ha deciso di utilizzare la sua autorità con scarsa lungimiranza.

Aggirare il risultato non serve, meglio alzare lo sguardo

Ogni giorno, una nuova notizia ci distrae. Innanzitutto il popolo “ignorante” della provincia inglese che avrebbe deciso senza conoscere le vere conseguenze di quell’atto; i giovani contro i vecchi, poi rivelatasi una bufala, i tre milioni di presunti pentiti pronti a rivotare, gli scozzesi duri e puri e, infine, l’insinuazione che il governo inglese possa non far partire la richiesta di distacco da Bruxelles. Ovviamente alla notizia corrisponde sempre una vigorosa presa di distanza autorevole che la sgonfia in poche ore. Al di là della mia personale curiosità nell’assistere ad una gestione dell’informazione a volte un po’ ridicola, è sintomatico il prevalere di chi vorrebbe far passare diciassette milioni di inglesi come in preda a ripensamenti, paure e voglia di ritornare sui propri passi. Non è così. E non lo è neanche per i veri decisori che, in realtà, si stanno muovendo, approfittando della situazione, con lo scopo di esautorare, di fatto, Bruxelles e di riportare saldamente in mano degli Stati nazionali il potere di governo della nuova Europa che si andrà a sostituire a quella che ormai è alle nostre spalle. Ovviamente nessuno ha interesse a rompere con gli inglesi per ragioni storiche ma anche per ragioni economiche. Quindi più che perdere tempo a ipotizzare inutili ripensamenti sarebbe meglio concentrarsi per comprendere meglio quali dovrebbero essere le priorità, gli interessi e il nuovo rapporto tra Stati nazionali e Bruxelles. Cosa integrare, prima che sia troppo tardi r cosa lasciare ai singoli Stati. L’incertezza e i contraccolpi non sono causati  dalle false notizie di temporeggiamento ma dal fatto che nessuno è in grado di dire se questa improvvida forzatura è l’inizio di una nuova e più profonda crisi che ci travolgerà o se, serrando le fila, l’Europa potrà ripartire. Ma soprattutto, come. Con il referendum italiano e le elezioni tedesche e francesi all’orizzonte c’è poco da stare tranquilli. Nessuno si vorrà esporre. È il rischio di lasciare il campo alla speculazione internazionale è troppo alto. Il vero problema riguarda le due grandi famiglie politiche che oggi governano l’Europa. I popolari, per vocazione, ma anche i socialdemocratici, appartengono innanzitutto ai rispettivi Paesi. E osservano l’Europa quasi esclusivamente da quel punto di vista e interesse senza preoccuparsi troppo di scaldare le coscienze e i cuori del resto del continente. E questo è un limite che sta diventando letale, soprattutto per i socialdemocratici che rischiano, in casa propria, pesanti rovesci elettorali proprio perché non riescono a dire nulla di originale e di credibile sulla natura della crisi e sulle sue prospettive. Soli, isolati nel loro Paese, sono meno credibili dei conservatori europei e sottoposti alla pesante pressione di quei movimenti che prospettano soluzioni semplici a problemi complessi. Ed è in questo campo che, secondo me, si potrebbe giocare il futuro di un’Europa diversa. Ma ci vuole tempo. E questo tempo va gestito inevitabilmente insieme tra popolari e socialisti. Insieme perché l’alternativa di procedere in queste condizioni, motu proprio, non esiste. E sarà così anche nei singoli Paesi. Almeno fino a quando i movimenti anti sistema non ritorneranno ad essere residuali. Io non credo che il problema sia se la nuova Europa sarà a trazione tedesca o di altri. Avendoci interagito per anni, considero la Germania, un solido punto di riferimento più di altri Paesi. E non credo possibile, allo stato dei fatti, fantasticare su modelli improbabili. Personalmente credo in una Europa che metta al centro il dialogo sociale, che individui nuovi percorsi per un welfare credibile, che si occupi anche dei “perdenti” e che diventi un motore forte dell’innovazione tecnologica, sociale ed economica. In altre parole che non si rassegni al declino né che lo combatta solo a vantaggio di pochi. Nei ragionamenti e nelle proposte della sinistra europea tutto questo c’è. Però c’è anche poca generosità nell’agire. Ed è in questa mancanza di generosità e di visione strategica che la sinistra europea ha difficoltà a raggiungere il cuore dei cittadini e quindi rischia di essere sconfitta politicamente perché la paura di perdere ciò che ciascuno pensa di avere conquistato individualmente e per sempre (anche se non è vero) guiderà le scelte di ciascuno di noi. E quando gli egoismi o gli interessi personali prevalgono sugli interessi di una comunità o di un insieme di comunità, non succede mai niente di buono.

Il PD, la disintermediazione e chi resta indietro…

Alla prima seria battuta di arresto del PD la minoranza interna ritorna immediatamente al Nanni Moretti del “di una cosa di sinistra!”. Bastasse questo… È vero che fa un certa impressione dover prendere atto che un partito di centro sinistra si afferma tra chi ce la fa e non incide più di tanto su chi resta indietro. Tra chi va all’estero e fa parlare di sé e non tra chi torna in silenzio sconfitto, tra chi lancia una start up e non tra chi in quella start up si appresta a vivere una ulteriore esperienza da precario. Tra chi amplifica il suo business con il commercio elettronico e chi chiude la sua attività tra un fisco opprimente e le pretese dei “cravattari”. Tra chi si porta a casa bonus milionari senza alcun merito e chi perde i suoi risparmi depositati nella banca di fiducia. E il nuovo termometro sociale di questa situazione diventa la rete. Con i suoi insulti, i suoi rancori e la solitudine di chi alza il tono della polemica con l’unico scopo di farsi notare. Certo c’è un Italia che crede nel futuro, che scommette su di sé, sul cambio generazionale e su chi vince. Per questa Italia Renzi è un solido punto di riferimento. Rottamatore, riformatore, solo contro tutti. Ma c’è un Italia che sembra essersi rassegnata e non ci prova nemmeno a farcela. Si sente tagliata fuori per colpa di un sistema nemico dove si vive in solitudine con i propri problemi e si sente contro tutti gli altri. Politici, istituzioni, stranieri ma anche chi cerca di farcela. E, nel Paese dello zero virgola del PIL in più e dell’occupazione che cresce o forse no, in un’Europa matrigna che ci tratta come scolaretti indisciplinati dove la ripresa economica rischia di riguardare solo alcuni, non è stato difficile indicare in Renzi il bersaglio grosso e facile da colpire. D’altra parte lui non si è sottratto a questo gioco al massacro. Ha lasciato crescere il malcontento nel suo Partito senza affrontarlo, ha individuato nemici dappertutto prima ancora che si manifestassero in tutte quelle associazioni e formazioni che, pur in crisi, hanno sempre costituito i grandi contenitori di partecipazione popolare collaterale del suo partito e ha scommesso tutte le sue fortune sulla crisi della leadership di un centro destra contando sulla possibilità di attrarlo sottovalutando così, non tanto la nascita di un nuovo contenitore politico del malessere né di destra né di sinistra, quanto il malessere stesso che iniziava a crescere nella società e che lui ha pensato di poter affrontare da solo con un manipolo di fedelissimi. Le teorie sulla disintermediazione risentono di questo approccio sbrigativo. Il blitz però, a conti fatti, non è riuscito. I corpi intermedi sono ancora lì, un po’ provati ma intatti nella loro forza propositiva e organizzativa, il centrodestra mantiene una base elettorale sostanzialmente intatta e anche poco disponibile a seguire il PD vecchio o nuovo che sia, anzi più propensa a giocargli contro. L’aver voluto giocare da solo tutta la partita ne amplifica ancora di più le responsabilità personali. Qui siamo. E in autunno ci aspetta un referendum importante dove le ragioni del “SI” e del cambiamento vanno ben oltre lo stesso Matteo Renzi e la sua esperienza politica e personale. Per questo è sbagliata la personalizzazione che si è voluta creare (e sulla quale Renzi ha delle precise responsabilità) intorno a quella scadenza. Personalmente non vedo, in questo momento, alternative serie a Renzi e al suo Governo e condivido che il referendum rappresenti uno spartiacque troppo importante per la credibilità del nostro Paese e quindi mi aspetto, come semplice cittadino, che il nostro Presidente del Consiglio prenda atto della necessità di rivedere la sua impostazione come peraltro alcuni segnali sembrerebbero già indicare. Il punto non è dar ragione ai suoi oppositori ma saper costruire un ponte realistico con la società, tutta la società. Anche con chi vive con smarrimento e preoccupazione questa fase di transizione. La convergenza deve essere con chi vuole veramente cambiare questo Paese, quindi con chi si appresta con motivazioni diverse a impegnarsi per superare la prova referendaria. Occorre far crescere nel Paese un dibattito vero sulle ragioni del cambiamento e sulla necessità di andare oltre gli scontri tutti interni alla politica e lontani dalla comprensione di chi i problemi concreti li vive tutti i giorni. Occorre riprendere a confrontarsi con i corpi intermedi per rilanciare un vero patto per lo sviluppo, dare fiato alle associazioni, costruire punti di convergenza vera, rinnovare i contratti di lavoro scaduti e dare segnali a chi resta indietro anche sul piano fiscale. La legge di stabilità sarà un passaggio importante. Occorre ritornare a parlare al Paese con onestà e sincerità. E su questo giocare le proprie carte. Il Paese ha bisogno di fondisti non di scattisti che si ritirano alle prime difficoltà.

La disfida delle adesioni. Una inutile contrapposizione.

In molti comparti del settore privato lo sciopero  non è più uno strumento in grado di modificare, di per sé, una forte contrapposizione presente in un negoziato. Nel terziario di mercato, ancora di più. Negarlo non serve. Come non serve, da parte datoriale, trasformare un dato numerico relativo alle partecipazioni, spesso irrilevante sul complesso degli addetti, come prova della scarsa adesione dei lavoratori alle tesi sindacali. Non è così. Siamo nel 2016. Il mondo del lavoro ha subito profondi cambiamenti. Così come le aspettative e le priorità delle persone. La crisi poi ha fatto il resto. Sul piano qualitativo un rinnovo di contratto nazionale non mobilita né coinvolge più emotivamente come in passato mentre sul piano quantitativo occorre tenere conto che l’inflazione è quasi a zero e la relazione tra speranze individuali, e ciò che si prospetta in un rinnovo, è spesso difficile da trovare. Il risultato economico, in genere, è scarso o insufficiente per le aspettative del singolo lavoratore (ad esempio nella GDO parliamo di 85 euro lorde scaglionate in tre anni), le modifiche normative non sono quasi mai particolarmente innovative per il singolo e, infine, il tempo che intercorre tra le assemblee di ratifica delle richieste sindacali e la conclusione dei negoziati è ormai infinito. Tutto questo però non significa che i lavoratori non ne auspichino il rinnovo o condividano la rigidità della rappresentanza delle imprese. C’è una aspettativa e c’è un’attesa. Per le singole aziende, al contrario, il costo di un contratto nazionale non è affatto insignificante. Soprattutto oggi che rappresenta, di fatto, l’unica pesante erogazione collettiva che incide in una fase di crisi dei consumi. Si somma ad un costo del lavoro già pesante, provoca un incremento dei costi non trasferibile sui prezzi, coinvolge tutti i collaboratori indipendentemente dal contributo individuale, e non fa differenza tra aziende in diverso stato di salute o che hanno già un costo aggiuntivo legato alla contrattazione aziendale. Quindi, se i rapporti di forza lo consentono, i contratti nazionali non si firmano più. E questo non riguarda solo la GDO. I comunicati che seguono le giornate di agitazione sono oggettivamente banali. Insieme ad una conta ragionieristica sui presunti partecipanti manifestano una apparente disponibilità finalizzata a non mettersi contro i livelli istituzionali, i media o l’insieme dei consumatori. O se, di parte sindacale, assumono inutili toni trionfalistici che non spostano minimamente i rapporti di forza né le intenzioni della controparte. Occorre prendere atto che non sono più gli scioperi a consentire oggi di firmare un contratto nazionale così come non può essere l’assenza degli stessi a impedirne la chiusura. Non sarebbe corretto. Proprio per questo la scelta di Confcommercio e dei sindacati del terziario, ormai più di un anno fa, è stata quella di individuare un bilanciamento che consentisse di erogare un beneficio economico (pur sofferto) in cambio però di una maggiore flessibilità organizzativa. Questa è la strada. Non credo sia una buona strategia andare avanti senza individuare soluzioni accettabili ad entrambe le parti. Non è più rinviabile un impegno a ricercare, insieme, nuovi percorsi che consentano di affrontare, senza conflitti inutili, queste situazioni. Noi non siamo la Francia. C’è un tessuto sociale che regge fatto di responsabilità, correttezza e buon senso. Una parte della GDO, ad esempio, sa benissimo cosa vuol dire lasciare il campo alla radicalizzazione estremistica come è avvenuto in molti centri logistici e distributivi infestati da forme di rivendicazionismo  esasperato. Quindi c’è un grande spazio per individuare forme nuove di scambio, di autoregolamentazione, di arbitrato o di contropartite collegati al negoziato stesso. Sia a livello, aziendale o di comparto. Un sistema moderno di relazioni sindacali non può prescindere da nuove regole del gioco, ma anche di gestione del possibile conflitto, che dovranno accompagnare le aziende nei prossimi anni. È ora di affrontare queste sfide con determinazione ma anche con lungimiranza e mettere in soffitta ciò che deve essere conservato ormai tra i ricordi o tra gli incubi (dipende dai punti di vista) del ‘900.

La stagione della responsabilità

Dopo Confcommercio anche Confindustria ha messo sul tavolo le sue carte. Non c’è più tempo da perdere. Di fronte ai rischi di disgregazione presenti sia a livello europeo che nazionale la ricetta per affrontare con determinazione i problemi del Paese deve far convergere tutti i protagonisti principali sulla necessità di dare il via ad una grande stagione della responsabilità. Della politica, innanzitutto ma anche dei corpi intermedi che sono disponibili a portare il loro contributo per cambiare, insieme, il nostro Paese. Nel discorso del nuovo Presidente di Confindustria non ci sono stati né arroccamenti né recriminazioni. Un’Europa che deve ritrovare nel pensiero di Jaques Delors la sua missione così come in quello di Papa Francesco la sua vocazione ad aprirsi a chi fugge dalle guerre e dalla fame. Un’Europa unita, moderna e votata alla crescita economica dove il nostro Paese può giocare un ruolo importante. E, in questa nuova stagione, che insieme si vuole aprire, c’è spazio per tutti, anche per un rilancio propositivo del dialogo tra le parti sociali. È un segnale importante. Non c’è stata una sottolineatura di forte delusione, come nel discorso di commiato di Giorgio Squinzi, per lo stato dei rapporti con i sindacati confederali. C’è semmai una disponibilità offerta sulla necessità di una collaborazione a 360 gradi per continuare il processo di cambiamento del Paese. È una sfida importante che potrebbe aprire scenari nuovi. Tre punti su tutti. La centralità delle risorse umane per l’impresa di oggi è di domani, l’esigenza di un confronto vero sulla innovazione e sulla produttività delle imprese ma anche del Paese e infine la riconosciuta importanza che questi strumenti possano essere individuati tra le parti sociali evitando l’intervento del legislatore. È una apertura di credito significativa che consente a tutti i soggetti sociali disponibili di rientrare in gioco con proposte credibili e atteggiamenti responsabili superando pregiudizi e pessimismi di varia natura. Ma questa apertura di credito è stata accompagnata da un chiaro avviso ai naviganti. Di metodo ma anche di merito: il decentramento contrattuale è un obiettivo da realizzare in alternativa al contratto nazionale che però può e deve restare sia per le norme di carattere generale che per le imprese che non sono in grado per vari motivi di passare alla contrattazione aziendale. Quindi nessuna concessione ai fautori del doppio livello contrattuale. E questo è un elemento che, più di altri, dovrebbe far riflettere i negoziatori impegnati nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Confindustria si schiera su una posizione molto simile a quella espressa da Federmeccanica. E annuncia che attenderà l’esito di quel confronto prima di aprirne un’altro al proprio livello. Quindi il rischio del muro contro muro è inevitabile? Non credo. Personalmente sono convinto che lo scontro sul salario che sembra essere al centro del rinnovo sia ricomponibile con una mediazione tutto sommato accettabile. Trovo molto più complessa una mediazione su altri punti centrali come, ad esempio, sui contenuti, sul peso e sulla natura dei nuovi livelli contrattuali. E quindi sul ruolo stesso e sui confini di azione del sindacato. Il presidente Boccia ha parlato chiaramente di “collaborazione per la competitività”. Questa è la sfida. Non c’è più spazio per modelli sindacali che ritengono possibile includere tutto e il contrario di tutto. Adesso è il momento delle scelte. Questa è la sfida per il sindacato. D’altro canto l’errore che non dovrebbe fare Federmeccanica e quello di sottovalutare le dinamiche di cambiamento che sono in atto nelle organizzazioni sindacali privilegiando un atteggiamento tattico a discapito di un disegno strategico che, di fatto, favorirebbe un inutile e tardivo ritorno al passato. Le condizioni per aprire una nuova stagione di collaborazione ci sono tutte. Adesso la parola passa a chi deve tradurre l’importanza di certe affermazioni e le aperture di credito in azioni e scelte concrete. Vedremo chi ne sarà capace.

Una sfida da accettare perché è alla nostra portata.

A metà gennaio il rapporto sul futuro dell’impiego pubblicato dal WEF non lasciava molto spazio alle illusioni. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Un panorama fosco al quale non siamo sicuramente preparati. In Germania la platea dei minijobs non sembra destinata a comprimersi, in Francia i “jobber” stanno diventando un fenomeno sempre più diffuso tanto da passare, negli ultimi dieci anni da un milione a 2,3 milioni. In italia l’esplosione dei voucher segnala un problema che non si può comprendere se ci si limita solo a negare la realtà che ha provocato l’ingigantirsi del fenomeno. C’è chi pensa di nasconderlo sotto il tappeto magari ritornando al lavoro nero, sommerso o illegale coprendo una realtà che sta emergendo in tutta la sua crudezza. Da un lato il lavoro così come lo abbiamo conosciuto con le sue regole, i suoi vincoli e i suoi costi e dall’altro la necessità di costruirsi un reddito per chi, quel lavoro, non avrà la possibilità di ottenerlo. C’è “uno spettro” (la disoccupazione giovanile) che si aggira per l’Europa e che colpisce le speranze di molti giovani ma che non sembra risolvibile solo con la leva degli incentivi o degli sgravi. La mancanza di sviluppo rende tutti più fragili e più esposti alla demagogia e alla retorica. E così, invece di concentrarci sulle risposte in vista di ciò che appare all’orizzonte ci si limita a litigare nei Paesi e tra i Paesi come i polli di manzoniana memoria. È chiaro che non è questa la strada. Così come credo che nessun Paese possieda una ricetta autarchica. La globalizzazione la renderebbe comunque indigesta agli altri mettendo in forse la stabilità sociale di tutto il continente. Basta solo osservare i contraccolpi politici ed economici dell’immigrazione sui singoli Paesi e il conseguente esplodere di contraddizioni sempre più difficili da governare. Possiamo rassegnarci o sperare che altri ci pensino. Oppure impegnarci e portare il nostro contributo. Ovviamente alcune risposte possono solo essere europee e in quella sede vanno cercate. Nei singoli Paesi, però, ciascuno deve farsi carico del problema. Innanzitutto imprese e sindacati. Ovviamente né in termini assistenziali, né pensando che le vecchie ricette possano funzionare in questo contesto. Una crescita “zero virgola” non produrrà alcun beneficio significativo sull’occupazione. A mio parere occorre agire su due piani. Innanzitutto agevolando tutto ciò che porta a condividere rischi e opportunità tra capitale e lavoro. Questo comporta mettere mano ai contenuti del rapporto di lavoro. Flessibilità, salario, inquadramento, variabile, welfare. L’obiettivo non è ridurre i salari ma renderli più coerenti con un nuovo modello. E, ovviamente, occorre puntare a forme innovative di collaborazione alla vita dell’impresa. In secondo luogo ridurre i contratti nazionali lasciando alle singole imprese e ai lavoratori che vi operano la possibilità di adattarli alle esigenze specifiche. Così come in comparti omogenei. Questo per evitare situazioni di dumping tra le aziende. In terzo luogo riorganizzare forme di welfare contrattuale intersettoriale (previdenza, sanità e formazione). Occorre formare masse critiche rilevanti come già presenti in altri Paesi e non rinchiudersi in modesti interessi di settore con “fondini” ad uso e consumo più di chi li governa che di chi ne dovrebbe trarre benefici concreti. Un sistema di politiche attive che supporti i momenti di passaggio tra un’attività e un’altra è fondamentale e la possibilità di effettuare stage formativi (non strumentali) durante il percorso di studio. Io credo che occorra osare proponendo una sorta di leva civile “obbligatoria” per i nostri ragazzi alla quale le imprese dovrebbero sentirsi coinvolte positivamente. Ovviamente sarebbe meglio proporla a livello europeo per favorire una effettiva integrazione tra mondi e culture differenti. Ma tant’è. Infine il Governo dovrebbe contribuire intervenendo sul piano legislativo e fiscale. Nel primo caso aiutando le parti sociali a trovare le risposte adeguate. Il ruolo delle parti sociali è fondamentale e non va sottovalutato. Nel secondo intervenendo a sostegno con sgravi finalizzati che spingano le aziende ad accettare questa sfida. Certo, in un Paese condannato all’immobilismo come il nostro, potrebbe sembrare ingenuo proporre cambiamenti radicali e difficili da condividere. A mio parere siamo però di fronte ad una svolta epocale. Qualcuno si sta attrezzando per affrontarla semplicemente demolendo le regole attuali. Il risultato sarà una sorta di darwinismo sociale che non porta da nessuna parte. Altri stanno rimettendo al centro le persone. La loro qualità, il loro futuro e anche i loro interessi. Per i primi è sufficiente smantellare l’esistente. Per i secondi occorre costruire un sistema efficiente con nuove regole del gioco. La nostra società, come le altre società occidentali, non è in grado di reggere a lungo un modello darwiniano. La coesione sociale ne risentirebbe in modo grave. Per questo occorrerebbe dotarsi di progetti ambiziosi e coerenti. Nel nuovo paradigma economico e sociale che si sta delineando c’è spazio per le persone, per la loro intelligenza e per la loro dignità. E per il loro futuro. Dobbiamo creare le condizioni perché questo sia possibile.

L’importanza della ripresa del confronto tra le parti sociali

Qualcosa, forse, si sta muovendo. Per ora solo impercettibili segnali di interesse reciproco a riprendere il filo di un dialogo costruttivo. L’occasione può essere data dall’insistente quanto opportuna richiesta di apertura di un confronto sulle relazioni sindacali e i livelli della contrattazione di Cgil, Cisl e Uil mentre il Governo fa trapelare la volontà di intervenire “autonomamente” a breve. Premetto che sono personalmente convinto che il negoziato di merito sia ancora prematuro ma ritengo altrettanto importante la ripresa di relazioni formali e costruttive. È troppo tempo che il confronto avviene a distanza o precipita nella necessità di trovare mediazioni ai tavoli contrattuali. La fine della stagione della concertazione e la stagione degli accordi separati hanno portato con sé l’idea che ognuno deve limitarsi a pensare e mediare solo in casa propria. E, in ciascuno dei luoghi di reciproca appartenenza, gli altri appaiono sempre più distanti, spesso incomprensibili nei linguaggi e nelle loro legittime identità. E non costruendo nulla insieme, si cerca di difendere al meglio le rispettive ragioni e posizioni. E questo a fronte di un Governo che, sempre meno, è in grado di utilizzare la leva distributiva per accontentare questa o quella istanza proposta. La mancanza di risultati tangibili, la natura e la dimensione della crisi, l’asimmetria di peso e di potere degli attori in gioco e la dimensione globale delle dinamiche competitive allentano inevitabilmente i rapporti con i rispettivi associati e incidono sulle rispettive capacità di mobilitazione. E se la capacità tradizionale di difendere le posizioni viene meno non cresce la capacità di proposta perché costretta nei recinti angusti dei propri mondi sempre più paralleli e sempre meno convergenti rispetto agli altri. Ma esistono tematiche che, per loro natura, sono di interesse trasversale e quindi sarebbero molto più gestibili e autorevoli se portate avanti, insieme, all’interno di una vera e innovativa cultura del confronto e della proposta. Il futuro prossimo del nostro Paese potrebbe dipendere anche da questo. La qualità della nostra democrazia, i necessari investimenti per sostenere la ripresa economica, i settori nei quali concentrare gli interventi, la lotta alla corruzione, al malaffare e alla malavita organizzata, i sistemi di welfare, il mezzogiorno solo per citare quelli che, credo, potrebbero rappresentare una grande occasione di confronto e di proposta dove ciascuno, però, non si dovrebbe limitare ad esprimere una posizione ma, con coraggio, dichiarare la propria disponibilità, nei fatti, a mettere sul tavolo parte dei suoi interessi particolari finalizzandoli ad un obiettivo comune. Quindi un nuovo ruolo dei corpi intermedi, uniti, non per chiedere, non per difendere una legittima prerogativa di parte ma per offrire il proprio contributo al futuro del nostro Paese. Personalmente credo che le parti sociali siano individualmente e inevitabilmente destinate a perdere autorevolezza e terreno. Non ci sono risorse da distribuire, la pazienza del Paese è al limite e ci sono rischi evidenti che si incrinino pilastri portanti della convivenza civile che reggono il rapporto tra culture, territori e generazioni. Se la situazione ha tenuto fino ad ora è anche grazie al lavoro “invisibile ma quotidiano” dei corpi intermedi che non hanno offerto sponde alla disperazione, alle incertezze sul futuro e alle tentazioni disgregatrici interne ed esterne. A differenza di quasi tutta l’offerta politica che, al contrario, cerca occasioni per dividersi su tutto senza trovare motivi di unità nell’interesse generale, i corpi intermedi non hanno mai scelto questa strada. Anzi. I segnali di unità nel mondo del lavoro, le iniziative comuni tra le organizzazioni datoriali esprimono altre vocazioni. Saperle mettere a fattor comune rappresenterebbe un vero salto di qualità di cui abbiamo bisogno. La ripresa del confronto, seppur provocata da temi “minori” potrebbe rappresentare l’occasione per iniziare un percorso nuovo di ricerca di una collaborazione costruttiva per qualcosa che sappia andare ben oltre i legittimi interessi di ciascuno. Per questo non è importante il luogo, la ragione o la scusa. Sarà più importante concordare l’ordine del giorno e le priorità. Le modalità, i tempi e la qualità delle intese vengono dopo.

La metafora della Reggia di Caserta…

Quello che è accaduto alla Reggia di Caserta deve farci riflettere. Per certi versi è una metafora del nostro Paese. Un luogo bellissimo che tutti ci invidiano, sottovalutato, da rilanciare, dove un direttore cerca di impegnarsi, in perfetta solitudine, completamente circondato da una fortissima resistenza al cambiamento. Il fatto che, questa resistenza, si sia manifestata con una lettera sottolinea ancora di più l’arroganza di chi pensava che, nascondersi dietro una o più sigle sindacali, fosse sufficiente a “spaventare” l’intruso costringendolo a recedere e a comportarsi di conseguenza. I “mariuoli” non pensavano certo di assurgere agli onori della cronaca nazionale. Pensavano che, a seguito della loro iniziativa, qualche solerte funzionario sarebbe stato inviato dal Ministero per mediare, magari convincendo il direttore che, certe richieste di maggiore impegno e disponibilità, pur assolutamente condivisibili, avrebbero dovuto essere gestite con maggiore tatto e sensibilità nei confronti dei sindacati locali. Così facendo il direttore avrebbe perso completamente la sua autorità (ma anche la sua motivazione) e si sarebbe trovato ostaggio, non dei lavoratori, ma di qualche “cacicco” locale che, in questo modo, avrebbe potuto rimarcare il suo potere personale di interdizione. Fortunatamente non è andata così. I vertici confederali non hanno avuto dubbi a schierarsi dalla parte della ragione creando quell’isolamento necessario che sarà fondamentale nei prossimi mesi e che consentirà al direttore a continuare il suo lavoro con ancora maggiore determinazione. E sicuramente presto, tutti noi, ne godremo i benefici. Nessuno ha avuto dubbi su quali fossero i veri interessi in gioco. Né il Governo, né le parti sociali, né i media, né l’opinione pubblica. Quello che mi chiedo è perché tutto questo “buon senso” non possa essere trasportato a livello “Paese”. Ne avremmo veramente bisogno. Se tutti insieme convergessimo su quattro o cinque macro obiettivi fondamentali e non ci perdessimo in scontri verbali di retroguardia trasformeremmo questo nostro Paese in una Reggia. Non bisogna essere dei fini politici per capire che il Paese che dobbiamo cambiare è quello che si nasconde dietro quei comportamenti, che a Caserta si sono manifestati alla luce del sole, ma che sono presenti e radicati ovunque. Nella politica, nei diversi ceti sociali, nei corpi intermedi, nei media, nelle istituzioni. E che solo con uno scatto di orgoglio e di determinazione collettiva riusciremo a sconfiggere. Il nostro è un Paese che ha bisogno di una nuova Costituente più che di una nuova Costituzione. I corpi intermedi potrebbero dare il proprio contributo convergendo unitariamente su alcune proposte sulle quali sono disposti a mettersi in gioco. Così come a Caserta si è scelto il Direttore senza se e senza ma, in questo caso si sceglierebbe il Paese, l’interesse generale e la necessità di riscriverne le regole del gioco. E così passare finalmente da una logica difensiva ma perdente dove domina il “già dato” e “cosa mi aspetto dal mio Paese” a quello di “cosa posso fare”. Prima che sia troppo tardi.

“Fare impresa per creare valori”

Roger Abravanel non poteva ottenere migliore risposta. Confindustria c’è. Per la prima volta nella sua storia una delle grandi organizzazioni degli imprenditori italiani decide che è arrivato il momento di chiedere ai suoi associati un importante momento di riflessione sul senso e sul ruolo dell’imprenditore nella società. E non lo fa chiedendolo a qualche intellettuale amico in un convegno ma a quello che sempre più si sta dimostrando un grande punto di riferimento in questo cambio di paradigma economico, sociale e politico che attraversa l’intero pianeta: Papa Francesco. E non è stata una passerella mediatica. Anzi. È stato un momento fortemente simbolico. In Italia ci sono oltre cinque milioni di imprenditori. Un numero sconosciuto altrove. Cinque milioni di persone che ogni giorno devono trovare in se stessi la forza e l’ingegno di guardare avanti. In un mondo dominato dalla finanziarizzazione e dall’integrazione globale non è facile. Non lo è mai stato ma oggi lo è ancora meno. Per affrontare questa sfida quotidiana, oggi più che mai, occorre trovare un senso, una ragione, una direzione di marcia che sappiano andare oltre la semplice realizzazione del profitto e del benessere personale. Ed è questo disorientamento sul proprio futuro, su quello dei propri figli, sulla capacità o meno di navigare in mari sconosciuti ma anche sulla grande responsabilità rispetto ai propri collaboratori e alle loro famiglie che spinge a cercare dentro di sé una motivazione, una forza d’animo un senso che rimetta in discussione vecchie convinzioni alla ricerca di un ruolo attivo, di presenza, nella comunità. In una comunità nazionale anch’essa percorsa da smarrimento, incertezza, preoccupazione verso il futuro dei propri membri. Ed è questa necessità di sentirsi di nuovo “parte” e non solo “homo oeconomicus” che mostra in tutta la sua forza morale il messaggio di Papa Francesco e la volontà degli imprenditori di interrogarsi veramente. Frasi come “Non c’è giustizia e benessere senza il rispetto dell’individuo” pronunciata dal Papa, oppure “rinnoviamo l’impegno a costruire una società più giusta e vicina alle nostre persone” pronunciata da Storchi, presidente di Federmeccanica, segnalano la presenza di qualcosa di più profondo che Confindustria ha avuto il merito di intercettare e di fare emergere in tutta la sua forza. Certo non basta. Ma guardiamoci intorno. Dove cogliere un segnale altrettanto importante? Nel mondo, in Europa o anche più vicino a noi? Nulla. Tutto sembra andare in ben altra direzione. “Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo a costruire insieme”. In questa affermazione semplice, diretta ma inequivocabile sta il senso del messaggio di Papa Francesco. L’applauso degli imprenditori presenti rappresenta una conferma e un impegno. Hemingway sosteneva che:”dobbiamo abituarci all’idea che ai più grandi crocevia della vita, non c’è segnaletica”. Beh! Questo è un segnale forte e chiaro. A tutti noi saperlo coglierlo o meno.