Chi fa da sé, non fa per tre…

Nuove associazioni di imprese, di professionisti, di attività. L’ultima, in ordine di tempo, è nata a Firenze con lo scopo di mettere a fattor comune i problemi di chi affitta il proprio appartamento su AIRBN. È un segno dei tempi o si rischia, ancora una volta, di confondere un alba con un tramonto? È già successo con i sindacati dei lavoratori. Intorno al sindacalismo confederale sono nate e si sono sviluppate una infinità di sigle che non hanno mai contato nulla e che non hanno portato risultati apprezzabili e concreti ai propri iscritti. Solo disagi a terzi. Nei professionisti sta succedendo, più o meno, la stessa cosa. Tanto fervore organizzativo ma due ostacoli restano comunque insormontabili: la mancanza di risorse che impedisce ristorni significativi da parte pubblica per i rispettivi soci e, pensando a lungo termine, la scarsa massa critica per operazioni di necessarie nuove forme di welfare a favore dei propri associati. Resta solo la convinzione di avere un maggiore peso contrattuale mettendosi insieme evitando, contemporaneamente, le grandi organizzazioni di rappresentanza. E cosi un’attività che nasce proprio per disintermediare, ai primi problemi, propone forme di aggregazione tradizionale. Da qui la prima riflessione. Fare da soli è comunque molto difficile. Soprattutto quando l’interlocutore principale è di grandi dimensioni e agisce in un contesto planetario e anche lo Stato nazionale arranca e insegue con le sue leggi e le sue determinazioni. In secondo luogo è necessaria, sia una struttura per finalità specifiche (federazione, associazione, ecc.) ma anche un contenitore più ampio che consenta autorevolezza, forza e massa critica utile a moltiplicare l’effetto associativo verticale. Le principali organizzazioni di rappresentanza sono, da sempre, strutturate in questo modo. È la loro forza sia localmente che centralmente. E, soprattutto, le grandi organizzazioni datoriali ma anche quelle dei lavoratori sono strutturalmente integrate nel Sistema e quindi conoscono, rispettano ma contribuiscono anche a modificare a proprio vantaggio le regole del gioco. E questo resta un punto di forza soprattutto quando la partita non si svolge solo nel proprio cortile di casa. Queste nuove realtà spesso nascono e si sviluppano fuori dalle regole proprio perché sfuggono ad una valutazione tradizionale. Un agriturismo, una sagra di paese, un bed and breakfast, un affittacamere, se fanno attività dove altri sono soggetti devono sottostare a regole precise (igiene, sicurezza, contabilità, fisco) sono tenuti anch’essi a rispettarle o no? Stesso mercato, stesse regole vale per tutti o solo per chi opera in un settore da più tempo? Ovviamente nessuno vuole impedire la nascita di nuove attività sia in campi tradizionali che ovunque ma le regole sono importanti se valgono per tutti. I corpi intermedi hanno questa capacità di operare sintesi rispettate dai propri associati. Pensare di scavalcare questo ruolo non rende tutti uguali, semmai tutti più deboli.

Lotta all’evasione fiscale, vera battaglia di civiltà.

La prima conferenza televisiva del nostro Presidente della Repubblica verrà ricordata per le parole chiare e nette che ha pronunciato sullo scandalo dell’evasione fiscale nel nostro Paese. Non è un caso, che, anziché limitarsi ad un forte quanto generico appello sul tema, ha volutamente citato una recente ricerca di Confindustria pubblicata da poco tempo e caduta immediatamente nel dimenticatoio. Secondo me ha voluto indicare un confine. Un limite ormai intollerabile. Il punto di passaggio necessario dalle parole ai fatti. L’evasione fiscale non è solo un grave problema economico per un Paese come il nostro. E non divide semplicemente i buoni dai cattivi cittadini. E soprattutto, non sempre, i cattivi sono gli “altri”. Ci sono le multinazionali che scelgono residenze fiscali convenienti, industriali, commercianti, artigiani e professionisti di diversa estrazione. Perfino il giovane o l’insegnante pubblico che danno ripetizione in nero al figlio del cassaintegrato in difficoltà con gli studi. C’è una grande evasione e una diffusa mentalità indulgente verso vari tipi di evasione. Ciascuno di noi, sul tema, giustifica ciò che gli pare. Ma, oltre alla solita litania su scontrini, idraulici e dentisti, c’è anche la malavita organizzata, la corruzione, il lavoro nero, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri. E di questa “evasione” si parla molto meno. È evidente che siamo al cospetto della madre di tutti i nostri problemi. Combattere sul serio l’evasione significa cambiare veramente la qualità del nostro Paese. Ma è un’impresa difficile che deve mobilitare tutte le coscienze. Altrimenti è un’impresa impossibile. Per questo il nostro Presidente ha fatto bene a parlarne. Al Governo e al Parlamento spetta agire già nel 2016. Altrimenti resteranno parole al vento che rischiano di coinvolgere nel giudizio anche la più alta autorità morale del Paese che ha indicato le priorità del 2016. Dal punto di vista economico c’è già maggiore consapevolezza nel Paese. La cassa è vuota, le tasse sono oltre al limite di sopportazione e non sarà lo zero virgola concesso di volta in volta da Bruxelles a far cambiare verso all’Italia. Aumentare le entrate riducendo con gradualità la pressione fiscale significa far pagare le imposte a chi non le paga. La metà dell’evasione censita dal centro studi di Confindustria porta ad un’aumento di 3,5 punti del PIL quindi, si stima, ad un effetto sull’occupazione superiore al Jobs Act. E questo senza mettere le categorie, i territori e le generazioni gli uni contro gli altri. È l’unica possibilità nel breve/medio periodo di aumentare considerevolmente le entrate. Per farlo, però, serve un vero patto nazionale. Ma soprattutto serve che nessuno si smarchi. Non tutti hanno applaudito il discorso del nostro Presidente. Però quelli che hanno applaudito sono indubbiamente la maggioranza. Anzi. Siamo la maggioranza. Forse serve solo qualcuno che interpreti questa nuova disponibilità all’ascolto e alla concretezza. Il fatto che per la prima volta il monito sia partito dalla più alta carica dello Stato è veramente importante.

L’inutile sforzo della disintermediazione…

Delle teorie modernizzatrici del nostro Premier quella sulla inevitabile necessità di delegittimare le grandi organizzazioni di rappresentanza è la meno comprensibile. I grandi sindacati datoriali e dei lavoratori mantengono un radicamento, una credibilità e una presenza capillare sul territorio che i Partiti non hanno più da anni. Sono, al di là dei luoghi comuni, di sicura utilità per i propri associati sia in termini di difesa, di risposta a problemi specifici che di proposta. Certo, è indubbio che la crisi ne abbia rallentato l’iniziativa, offuscato l’immagine e rallentato l’azione. La crisi, dunque, non le convinzioni del Presidente del Consiglio. Gli opinionisti, in questa querelle, si sono divisi tra chi ha ha seguito l’onda, soddisfatto, perché ha sempre tifato per la loro messa in mora e chi, al contrario, deluso dalla lentezza dei cambiamenti, ha preferito suonare “le campane a morto” sulla vitalità e sulle prospettive dei corpi intermedi. Mi spiace che Di Vico sul Corriere abbia scelto questa strada. Personalmente non la condivido. Parto dal fondo. Fosse anche e solo perché questa azione di delegittimazione favorisce le spinte populiste e demagogiche che rischiano di frantumare il Paese, le generazioni e le categorie produttive, dovrebbe essere motivo sufficiente di un rapido ripensamento. Il Paese ha bisogno di unità e di condivisione per affrontare le sfide che ha di fronte e per “cambiare verso” sul serio. Le organizzazioni di rappresentanza hanno tanti problemi ma hanno anche la consapevolezza che occorre cambiare in profondità. Ciascuna di loro nelle rispettive autonomie sta procedendo in questa direzione. Si può criticarne la lentezza, le incrostazioni burocratiche, forse anche la presunta autosufficienza e perfino, in alcuni casi, l’autocompiacimento, non la volontà di procedere in quella direzione. Sono importanti comunità in cammino leali verso le istituzioni, consapevoli della posta in gioco e disponibili a dare il loro contributo. Questa è una stagione diversa da quella della concertazione. È una lunga stagione di transizione. Nei prossimi anni si giocherà una partita nella quale le elites culturali, economiche e sociali rischiano di illudersi se pensano di giocarla senza un vero radicamento popolare. Il rischio, oggi, di gettare il bambino con l’acqua sporca è reale. È necessario predisporsi ad una nuova fase di convergenza e di collaborazione e, le organizzazioni di rappresentanza, possono e debbono giocare un ruolo importante. Occorre forse ripensare ad un luogo di incontro innanzitutto per tutte le organizzazioni datoriali ma anche per le organizzazioni sindacali. Un luogo nuovo di elaborazione e proposta comune. E da questo luogo lanciare una sfida positiva sul futuro al Governo e al Presidente del Consiglio. L’alternativa è insistere con un Paese spaccato, rancoroso, chiuso nei piccoli e grandi egoismi di categoria, di territorio e di generazione. Questo sforzo di unità va fatto e va fatto velocemente. Prima che l’Europa venga vissuta dai più come una matrigna con tutte le conseguenze del caso e che le guerre, sempre più vicine, ci impongano pesanti costi a cui non siamo preparati.

Pensiero per le feste….

Ci saranno sempre degli esquimesi pronti a dettare le norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati, 1957

Lo sciopero e la sua attualità.

Trovo interessante lo spunto di di Vico sul Corriere di oggi sul ritorno di attualità dello sciopero. Medici, trasporti, GDO, tre indizi fanno una prova. È un ritorno al passato o un segnale debole di disagio sociale che viene colto da alcuni e sottovalutato da altri? Forse occorre partire da un altro punto di osservazione. La crisi, la disoccupazione, la paura di perdere il posto di lavoro costituiscono, da sempre, un deterrente fondamentale sul piano individuale, ad aderire o meno a forme di protesta costose sul piano economico. Più l’obiettivo è distante, omnicomprensivo e ‘politico” meno coinvolge. La credibilità di chi propone l’iniziativa poi fa la differenza. Ma nessuno di questi o altri elementi risolve il disagio che cova sotto la cenere. Un disagio economico, professionale, familiare e relazionale. Di Vico, giustamente, parla di welfare aziendale, sharing economy, staffetta generazionale e tutto quell’insieme di politiche riformiste che non accendono il cuore delle persone come antidoto possibile ma rischia di sottovalutare l’incoerenza continua dei messaggi che passano e contribuiscono ad alimentare il disagio dei singoli. Come può una commessa di supermercato accettare l’idea che 85 euro lordi e scaglionati in tre anni siano fuori dalla portata delle aziende della GDO? Un medico, un insegnante o un poliziotto per bene sentirsi paragonati, ad esempio, agli impiegati di una particolare regione sotto inchiesta o di un comune dove un vigile in mutande timbra il cartellino e non sentirsi indignati? Ciò che crea l’humus sul quale si innesta la reazione (per ora a macchia di leopardo) è l’ingiustizia diffusa che si percepisce e alla quale non c’è spiegazione che tenga. Sembra che tutto ciò che di negativo c’è nella nostra società sia ritenuto normale e scontato mente tutto ciò che riguarda il rapporto tra le persone, la loro dignità, il loro reddito, la loro futura pensione, i loro risparmi e il loro lavoro siano, appunto, problemi loro. È su questo che si crea il distacco. Ed è su questo che si crea la “necessità” di reagire. La risposta non sono le palestre, il welfare o un riformismo astratto che non incide nella vita quotidiana, non ne permea i valori di riferimento individuali che si sono via via persi spingendo le persone ad occuparsi dei fatti propri e della propria sopravvivenza fregandosene di tutto ciò che è comunità, socialità e condivisione. Si è incattivito il contesto sociale e tutti rischiano di continuare cercare scorciatoie che, purtroppo, non esistono. Questo disagio crescerà. Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nell’accettare o meno il rapporto con lo Stato, nella clamorosa distanza tra ciò che i media ci offrono in termini di segnali di cambiamento o di interesse e la specifica realtà individuale fatta di problemi semplici ma spesso privi di soluzioni altrettanto semplici. Addirittura sembra che ai problemi reali le uniche risposte siano lo sfogatoio inconcludente dei salotti televisivi o una bella statistica che spiega in modo dotto e supponente che il problema è sempre un altro e che il “mio” problema me lo devo tenere… E allora lo sciopero non è più un antico rito collettivo di condivisione e solidarietà tra uguali ma è, al contrario, un segnale di insofferenza, di reazione individuale incattivita dal rendersi conto che i propri problemi economici, professionali umani non sono ritenuti importanti da nessuno di coloro che dovrebbero occuparsene. Io credo che il nocciolo della questione stia qui. Se le persone non trovano risposte al loro disagio, si incattiviscono, si irrigidiscono nelle loro convinzioni e cercano di reagire in qualche modo. Compito dei riformisti dovrebbe essere quello di comprendere questo disagio e riportarlo entro limiti accettabili cercando risposte concrete e non limitandosi ad alimentare domande. Altrimenti, dobbiamo saperlo che chi si mette alla testa di questo malcontento sta lavorando, più o meno inconsapevolmente, per il re di Prussia….

Eppur si muove….

A leggere i giornali sembra immobile. Per alcuni, ormai inutile. Per altri addirittura dannoso. Il Sindacato confederale italiano è messo continuamente in discussione. Sembra affetto da una crisi irreversibile incapace di affrontare un contesto politico, sociale ed economico in continua evoluzione. Non è così. I contratti nazionali che si sono chiusi o che si stanno chiudendo coinvolgono importanti settori produttivi. Non tutti, ovviamente, ma sicuramente quelli che hanno, da sempre, saputo proporre o accettare “scambi” importanti sul piano negoziale. Sono categorie che difficilmente hanno dovuto impegnarsi in prove “muscolari” nei rinnovi contrattuali degli ultimi trent’anni. Se togliamo i chimici che si sono guadagnati da sempre e sul campo il diritto a contrastare sul piano della strategia contrattuale i metalmeccanici, gli alimentaristi e il sindacato del commercio sono sempre stati ritenuti incapaci di produrre riferimenti validi in termini di innovazione ma solo fino a quando i rapporti di forza si sono modificati provocando la crisi dell’egemonia dei metalmeccanici e della loro cultura sul resto del sindacato. Questo ha consentito nel tempo, ad esempio nel terziario, di costruire un solido sistema bilaterale e un welfare di qualità negoziando anche nastri orari, part time, misure di contrasto all’assenteismo e lavoro domenicale particolarmente indigesti per una cultura sindacale tradizionale e accompagnato, nello stesso tempo, lo sviluppo delle imprese. Negli alimentaristi e nei chimici si è impostato, negli anni, un modello di contrattazione aziendale di qualità che ha permesso di affrontare con intelligenza e visione del futuro le ristrutturazioni e le concentrazioni aziendali che si sono via via succedute. Oggi, pur a rapporti di forza profondamente cambiati, quella lungimiranza maturata in tempi passati consente a queste categorie la firma di importanti contratti nazionali e la continuazione di un dialogo utile alle imprese e quindi anche ai lavoratori con l’appoggio forte delle confederazioni. La proposta di “sindacato dell’industria” maturata in casa Cisl consentirebbe, anche ai metalmeccanici, di ritornare a giocare un ruolo forte e condiviso pur nelle diverse sensibilità categoriali che saranno chiamate a costituire questo nuovo soggetto. Resta fuori la FIOM ma la recente scelta di giocare sul confine tra aggregatore sociale e nuovo soggetto politico la porterà a subire le contraddizioni di un’area che, da sempre, vive tra leadership di scopo, agitatori politici d’antan e neo “sandinisti” in concorrenza perenne con i grillini che mantengono comunque una capacità di movimento maggiore e meno vincolata da storie personali e dalle ideologie. La Cgil, nel suo complesso ha tutto l’interesse a giocare di sponda con le altre due organizzazioni confederali e, di conseguenza, l’importante carta dell’unità sindacale, sia per ragioni difensive e di merito ma anche per il suo indubbio potenziale aggregativo. Va inoltre dato merito alla gestione di Susanna Camusso di aver avviato e portato avanti un processo di rinnovamento e ringiovanimento profondo nelle strutture di categoria e confederali che non tarderà a dare frutti anche sul piano politico. Contesto che invece è ancora “a macchia di leopardo” nelle altre due organizzazioni confederali. Comunque i processi di cambiamento sono in atto pur non essendo visibili nettamente agli osservatori distratti o in cerca di scoop troppo semplicistici. Sono processi decisamente lenti (forse troppo) che però segnalano una vitalità che caratterizza tutte le organizzazioni di rappresentanza radicate nei territori, che mantengono solidi valori di riferimento e che, nonostante qualche “mariuolo” e qualche burocrate di troppo, restano ancora un solido punto di riferimento per tutti coloro che non sono in grado di difendersi da soli. L’accordo sulla rappresentanza e la inevitabile intesa sulla contrattazione che presto arriverà vanno ovviamente in questa direzione. E questo al di là del giudizio che si può avere sull’efficacia concreta di queste intese. Quello che manca è forse la volontà di dichiarare esplicitamente e inequivocabilmente il cambio di passo e quindi la nuova direzione di marcia. Pesano sicuramente i guasti prodotti dalla deriva identitaria che ha caratterizzato ben oltre il necessario la storia recente dei rapporti tra le diverse organizzazioni al centro come in periferia, la stagione degli accordi separati e il disorientamento prodotto dai rimescolamenti dell’intero schieramento della sinistra politica e sociale. Ma questo non può più rappresentare un alibi. Sulle spalle dei dirigenti di oggi pesa la necessità di alzare lo sguardo e operare decisamente in una nuova direzione aprendo, se necessario, una vera fase costituente.

Lettera di assunzione o lettera di “ingaggio”?

Dopo tanti anni ho deciso di mettere mano al mio archivio personale. In fondo al cassetto della scrivania ho ritrovato una vecchia cartellina scolorita contenente la lettera di assunzione e i fogli paga del mio primo anno di lavoro. Non so bene perché sono finiti lì. Qualche appunto, uno scontrino di “Feltrinelli” e una vecchia agenda tascabile dell’epoca completavano i “reperti” ritrovati. Beh! Un po’ di nostalgia è immediatamente venuta in superficie non tanto perché sono passati molti anni ma perché ho cercato di ricordare quei giorni. Il colloquio , il primo giorno di lavoro, i colleghi e, appunto, la prima busta paga. Il “profumo” dei primi contanti nuovi di banca posseduti dopo un mese di lavoro. Nuovi, sudati e pronti da spendere. Ricordo la sensazione perché non avevo mai avuto, fino ad allora, tanti soldi in mano. In quell’azienda allora non si usavano ancora gli assegni o l’immediato versamento in un conto corrente. Era una busta robusta. Confesso che li ho contati; uno per uno sulla scrivania tra l’ilarità dei colleghi. Lo facevano anche loro, ovviamente, però senza farsi vedere. Non ho mai capito perché lo stipendio contrattuale e quindi il contenuto della busta paga non si deve mostrare. Non si fa e basta. Ricordo lucidamente come li ho spesi: ho comprato una borsa alla mia fidanzata, alcuni libri alla Feltrinelli e poco altro. All’atto pratico non erano granché. Ricordo solo che, quella sera, mia madre mi fece una lunga predica sul denaro, sulla sua fatica a guadagnarne a sufficienza per mantenerci decorosamente e sullo spreco. Capii immediatamente cosa avrei dovuto fare dal mese successivo. La lettera di assunzione era scritta in un linguaggio incomprensibile per un giovane. Rileggendola oggi, dopo tanti anni da Direttore Risorse Umane e quindi come estensore di lettere più o meno analoghe, la trovo ancora un pezzo di letteratura assolutamente incomprensibile. Devo ammettere che non si è fatta moltissima strada da allora. I diritti (solo minimo tabellare, mansione e livello di inquadramento) sovrastati dai doveri e dai riferimenti disciplinari. Molto più chiaro cosa non avrei dovuto fare rispetto a ciò che si aspettavano da me. La cosa che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento a “come” avrei dovuto lavorare. C’era solo il “quanto”, il “quando” e il “cosa”. Il piccolo particolare è che il superamento del periodo di prova, il giudizio su di me da parte del mio responsabile, in altri termini, il mio futuro prossimo sarebbero dipesi da un elemento che nella lettera di assunzione non era minimamente menzionato. Il “come” era, quindi, solo un mio problema. Perché il “come” loro era altro: avrei dovuto ubbidire al capo, rispettare i miei colleghi, rispondere alle richieste e “timbrare il cartellino” in orario. E tutto sarebbe filato liscio. In altre parole ciò che era ed è molto importante fuori dall’azienda, soprattutto a quell’età, e cioè chi sei veramente e cosa potresti dare in più rispetto ad un altro, lì, non sarebbe interessato a nessuno. I miei interessi, la mia passione, la qualità del mio impegno sarebbero stati solo un problema mio. L’importante era fare ciò che “loro” si aspettavano da me. Fare le cose in modo giusto. Non necessariamente la cosa giusta. È stata la prima lezione di vita professionale. Fortunatamente le opportunità hanno disegnato altre traiettorie che mi hanno consentito di non perdere nulla delle mie capacità, della curiosità e della disponibilità a mettere in circolo passione e qualità dell’impegno. Sempre, però, a modo mio. Non è stato così per tutti. E pensare di pretendere oggi che ad intere generazioni professionali si possa esigere un comportamento opposto a quello preteso fino a pochi anni fa, pena dichiararne l’obsolescenza, è veramente una dimostrazione di superficialità umana e sociale. Ciascuno di noi, a suo modo, costruisce con l’impresa nella quale lavora in modo implicito un “contratto psicologico” che va oltre ciò che l’impianto giuslavoristico assicura. Ogni giorno diamo anche ciò che potremmo non dare. Ci restiamo male se non viene apprezzato e valorizzato dal capo o dai colleghi ma continuiamo a farlo perché fa parte del nostro DNA. Una commessa che al supermercato aiuta la persona anziana a trovare un prodotto anziché dirle: ” È là sullo scaffale in fondo!”, un impiegato pubblico che comprende le difficoltà di un lavoratore straniero e lo aiuta a compilare un modulo, un collega anziano che si accorge di un errore o di una mancanza di un collega più giovane e lo avvisa. Alcuni la chiamano la capacità di “unire i puntini”. Cioè saper mettere a disposizione dell’organizzazione il proprio contributo personale. Non è l’impegno, la presenza né la velocità a fare ciò che viene richiesto. È un altro tipo di sensibilità e di capacità che oggi fa la differenza. Sono mille i comportamenti che dimostrano che le aziende sono migliori e più performanti laddove le persone si sentono parte di un progetto, coinvolte, ingaggiate e non anonimi e insignificanti. Chi si occupa di sviluppo delle risorse umane oggi ha un compito importante. Finita la stagione dove “l’ossessione sui costi” esauriva tutto l’impegno delle direzioni del personale occorre veramente ritornare ad impegnarsi a costruire ambienti accoglienti, lavorare sul clima interno, dare opportunità di crescita e di sviluppo personale. Comprendere anche le esigenze personali. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di collaboratori maturi, capaci, ingaggiati e proattivi. Caratteristiche queste che non si comprano sul mercato ma che si possono costruire. Il contratto psicologico è l’elemento basico su cui innestare un rapporto di qualità e di reciprocità perché esprime la volontà di partnership vera di entrambi. Qualcuno, prima o poi, troverà anche le parole giuste e riuscirà a proporlo per iscritto mandando definitivamente in soffitta quelle lettere prestampate uguali per tutti ricchi di riferimenti normativi e contrattuali ma povere di maturità, coinvolgimento e passione.

Lontano è vicino…

Essere genitori oggi è un po’ più difficile del solito. È domenica e siamo seduti a tavola. I telegiornali trasmettono in continuazione notizie e immagini da Bruxelles. Ci sembra tutto esagerato. Non sappiamo nulla. Solo che nostra figlia è là. Ad ogni squillo di cellulare o ad ogni sms qualcuno scatta in piedi. Subito dopo. Con una scusa qualsiasi parte una telefonata per rassicurarci e rassicurare. Vedere in una camera ardente una ragazza che ha l’età di tua figlia fa riflettere. Sentire i discorsi che accompagnano questa tragedia mette ansia. Mi colpisce anche il giornalista che cammina per le strade deserte della città che ha più o meno la stessa età. Oggi sembra che lavorino solo loro. I precari, i giovani sherpa, i militari. Forse anche i giovani terroristi. Ascolto distrattamente e con fastidio gli interventi di statisti e politici che mostrano i muscoli tra di loro o che minacciano probabili sfracelli. Mia figlia mi rassicura. Resterà chiusa in casa. E domani? Domani Bruxelles smette i panni sonnolenti e rallentati del week end e riprecipiterà nella sua quotidianità di capitale europea. Zeppa di tutto. Razze, popoli colori. Chi può fermarla? Oggi parlano di cinture esplosive che girano indisturbate, gas pronti ad essere usati, antidoti che vengono immagazzinati per rischi prossimi venturi. Ieri sera, ad una certa ora, il comitato di crisi di Bruxelles su Twitter si è fermato per fine turno. Basta notizie. Ci sentiamo domani mattina, era il messaggio. Anche la burocrazia quando non è opprimente rischia a volte il ridicolo. Ragazzoni armati che girano mascherati con tanto di armi cariche e pronte all’uso e Twitter che rimanda al giorno dopo ogni informazione con la rete. È anche questo il segnale di come non sappiamo affrontare  la situazione. Troppi esperti, professori del cinismo e della strategia antiterroristica che ci spiegano, sempre dopo, cosa non è stato fatto prima. Teorici della chiacchiera che riempiono gli studi televisivi. Gaber nel suo bellissimo pezzo “c’è un’aria” descrive questa incapacità di rappresentare il dolore e la speranza. Ma noi siamo qui. Tra un inno nazionale e la retorica del “non vinceranno mai”. Riflettere, bisogna riflettere. È questo il mondo che vogliamo? E stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per costruire un mondo diverso? Io credo di no. I nostri ragazzi che decidono di vivere altrove per realizzare i loro desideri meriterebbero di più. Meriterebbero un Paese che pensi a loro non solo quando, purtroppo, cadono vittime di una tragedia. Mia figlia non vuole tornare. Vuole poter restare là per imparare, crescere come donna e come cittadina di una nuova Europa. Non odia nessuno e i suoi amici vivono in ogni parte del mondo. Chiede solo a noi adulti di abbandonare la retorica del giorno dopo e di credere di più in un futuro possibile. Se così fosse forse oggi sarebbe una delle tante domeniche serene riempite da un collegamento Skype e dall’orgoglio di genitori convinti della scelta della propria figlia. Senza ansie, timori e paure che un ragazzo della sua età o poco più possa incontrarla e, senza nemmeno conoscerla, distruggerne i sogni.

Il futuro dei corpi intermedi e il futuro del Paese: una scommessa importante

Oggi è indubbio che comanda la legge del pendolo. Il sindacato italiano è sostanzialmente ai margini nelle imprese, estromesso dai principali tavoli di confronto politico e in difficoltà sui rinnovi contrattuali. A Verona, città con il più basso tasso di disoccupazione, gli industriali nella loro recente assemblea non hanno accennato minimamente alla prossima stagione contrattuale quasi non esistesse il problema. Le proposte e le iniziative del sindacato non fanno audience sui media. Non va meglio a chi si occupa di relazioni industriali in azienda. Sempre più ai margini nella gerarchia. Né alle associazioni datoriali, seppur impegnate a fondo e infine non si può non registrare un scarso interesse mediatico sui temi del lavoro. Dagli 80 euro e fino al Jobs act, passando attraverso il “conta assunzioni” mensile, l’iniziativa è passata nelle mani del Governo che addirittura “minaccia” di intervenire con una legge sulla rappresentanza se, entro la fine dell’anno le parti sociali non troveranno un accordo. Per non parlare della previdenza dove il Presidente dell’Inps, uscendo del suo ruolo, si è sostituito al Governo (ma anche alle parti sociali) presentando proposte di riforma più o meno azzardate. Infine la discussione sui livelli della contrattazione dove ciascuno, ormai, può dire la sua. Forse abbiamo toccato il livello più basso. È del tutto evidente che un modello di relazioni sindacali costruito quasi esclusivamente sui rapporti di forza (reali o mediatici) è dotato di un sismografo che registra immediatamente quando questi si modificano. Innanzitutto si sono modificati nell’impresa e da qui il venire sempre meno della contrattazione aziendale (sia in termini qualitativi che quantitativi) con le successive disdette della contrattazione interna; nella sempre più marcata distanza tra le piattaforme sindacali presentate e il contenuto degli accordi sottoscritti, negli allungamenti dei tempi della contrattazione nazionale e negli equilibri finali che sempre più comprendono la rimessa in discussione dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Addirittura c’è anche chi arriva a teorizzare il superamento della contrattazione collettiva. Certo, tutto questo ha ragioni di contesto interno e internazionale precise e non attiene, come sostiene malignamente Ricolfi solo alla qualità dei sindacalisti o degli addetti ai lavori. È ingeneroso e sbagliato. Lama, Di Vittorio, Mortillaro o chiunque altro si troverebbero nelle identiche situazioni dei migliori negoziatori odierni. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” è uno slogan felice però di difficilissima attuazione per chiunque. La legge del pendolo, poi non lascia spazio a nessun ragionamento. Il punto semmai è un altro. È di questo che ha bisogno il Paese? Se la risposta è sì, il discorso è chiuso. Andiamo avanti così. Se, al contrario, ci si dovesse rendere conto che non può essere un “pendolo” a stabilire chi detta le regole del gioco in un dato momento storico dobbiamo riprendere a ragionare insieme. Tutti, a parole, siamo per il cambiamento. Purtroppo auspichiamo quasi sempre quello degli altri. Il nostro è però fondamentale. Un vecchio proverbio arabo recita: “se vuoi vedere pulita la via, comincia dallo zerbino di casa tua”. Credo sia un ottimo consiglio. Innanzitutto non credo che i corpi intermedi possano cambiare da soli, ciascuno per conto proprio. Esiste una simmetria evidente che li collega. Nessuno ha esclusivamente in sé la forza di correggere i propri difetti soprattutto perché alcuni di questi sono comuni e si giustificano proprio perché sono simmetrici. C’è un pezzo di strada che occorrerebbe fare insieme. Tra le organizzazioni datoriali in primo luogo ma anche con le organizzazioni sindacali. Quale Paese abbiamo in mente? Quali pesi e contrappesi politici e sociali pensiamo debbano coesistere? Lasciamo che si affermi una società darwiniana dove c’è chi vince e chi sopravvive come può oppure riflettiamo intorno ad un progetto di società dove le opportunità di partenza sono per tutti e dove esiste un welfare moderno che protegge chi ne ha bisogno? E come deve essere questo welfare? Come è sempre stato o con una maggiore integrazione pubblico/privato? E cosa siamo disposti a mettere di nostro sul tavolo per raggiungere quegli obiettivi? Molte di queste o di altre domande segnano il campo, le regole e la partita che si vuole giocare; soli o insieme. Ma solo affrontandole possiamo immaginare il ruolo delle parti sociali dei prossimi anni che potranno scegliere se collaborare per costruire il futuro o confrontarsi aspramente all’infinito come i “polli di Renzo” di manzoniana memoria. La Politica, nel bene o nel male, sta cercando di ridisegnare nuovi confini a ciò che nel 900 era dato per scontato e collocato da una parte o dall’altra. Equilibri e opportunità cambiano nel mondo e riposizionano ricchezza e povertà, vincoli e opportunità. E questa partita c’è chi ha deciso di giocarla solo in difesa forse sperando che chi oggi da le carte venga mandato presto a casa e tutto torni come prima. Io credo sia un errore. Personalmente “sogno” un percorso diverso. Non contando nulla, posso permettermelo. Sogno l’avvio di una fase costituente di riposizionamento dei corpi intermedi. Renzi ha lanciato Human Technopole Italy 2040 pensando al futuro della ricerca, della tecnologia e delle scienze e alle opportunità per il nostro futuro come Paese. Occorrerebbe avere il coraggio di lanciare un progetto analogo nelle scienze sociali pensando ai nostri figli e al Paese nel quale dovranno vivere. E in questo progetto una parte rilevante dovrebbe essere costruita intorno ai sistemi collaborativi all’interno delle filiere nazionali e internazionali. Ed è solo se le migliori intelligenze sociali del Paese decideranno di mettersi in gioco che si può sperare di venire a capo dei nostri problemi, di superare i rischi di frantumazione del Paese e di contrasto generazionale, di dare un senso e una speranza al mondo del lavoro e dell’impresa. Certo può essere ingenuo pensare che tutto ciò possa avvenire in un Paese che si è ormai acconciato per scontrarsi su tutto sperando così, di non cambiare nulla. Però io ho fiducia che il tempo del cambiamento sta arrivando. Non dobbiamo solo farci cogliere impreparati.

etica, dignità e senso del lavoro

In tempi di Jobs act e di lotta alla disoccupazione è difficile affrontare il tema del senso del lavoro, della sua organizzazione e delle modalità della prestazione in modo nuovo, diverso dal passato. È un tema centrale. Se ne sono accorte, nel mondo, le aziende più avanzate che hanno capito quanto occorra cambiare e proporre idee nuove che partano da una diversa filosofia del lavoro, della sua organizzazione, dei luoghi dove si svolge e che sappia mettere al centro la persona. In altre parole un luogo dove provare anche ad essere sereni e, perché no, addirittura felici. È l’altra faccia, altrettanto importante, del welfare aziendale o della responsabilità sociale dell’impresa. È l’impresa che sa anche guardare dentro se stessa. È l’idea, sempre più diffusa, che, per le persone, soprattutto le più giovani, è importante trovare un significato al proprio agire non solo nelle relazioni private e nella comunità nella quale sono inseriti ma anche nell’ambiente professionale. I tedeschi utilizzano un termine molto preciso:”Eigenschaften” (qualità umane). Un termine che non viene proposto per inseguire le mode farlocche che, purtroppo, in alcune imprese hanno caratterizzato le politiche di gestione delle risorse umane ma che punta a mettere concretamente le persone al centro rendendo compatibili ad esse l’eccesso di visione a corto termine, l’utilizzo strumentale di alcuni modi di essere (ad esempio: declamare valori e non praticarli, motivare senza essere motivati, utilizzare stage in modo scorretto, ecc.) e un’attenzione ai costi fine a se stessa così come si è prodotto in questi anni. È sempre interessante notare come lo scambio più importante che si realizza tra collaboratore e azienda nulla ha a che fare con l’impianto giuslavoristico che lo sorregge. Passione, creatività o entusiasmo non sono mai compresi né presi in considerazione. Tre caratteristiche, oggi molto più determinanti di ieri, che fanno la differenza tra due persone, ne caratterizzano l’impegno, il profilo professionale e il rapporto con la propria attività e il contesto aziendale. In altri termini mentre è normato con un dettaglio a volte esasperante l’aspetto quantitativo, disciplinare e normativo del rapporto ciò che dovrebbe caratterizzare la qualità della prestazione è pretesa (o data per scontata) ma non compresa nello scambio. È un po’ come se, la qualità dell’impegno, fosse solo un problema etico del singolo collaboratore. E non che il lavoro è innanzitutto realizzazione personale e riconoscimento sociale quindi ben più di una semplice prestazione dietro corrispettivo economico. E quindi coinvolge anche l’impresa. Questo limite discende sicuramente dalla cultura tayloristica che ha permeato la stragrande maggioranza delle organizzazioni aziendali, il contesto economico, sociale e contrattuale e ha, di conseguenza, contribuito a costruire il rapporto di lavoro con regole, norme e schemi che rendono molto difficile la valorizzazione della qualità del lavoro e del contributo specifico del singolo. La grande poetessa Wislawa Szymborska nella sua poesia sulla banalità del CV ci ricorda cosa è sempre stato considerato:…”Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano….” Ma oggi tutto questo non è più sufficiente. Oggi si discute di nuove competenze, nuove forme di selezione e di gestione delle risorse umane, nuovi ambienti di lavoro. Tutto questo rimette prepotentemente al centro l’importanza della qualità vera del singolo lavoratore. Ritorna d’attualità il senso che ognuno assegna o meno al suo lavoro e quindi le organizzazioni devono essere sempre più in grado di produrre senso perché anche la produttività migliora se alle competenze e all’impegno richiesto a ciascuno, il singolo trova anche un significato a quello che sta facendo e quindi è disponibile ad aggiungere un suo contributo specifico. Anouk Grevin, nota sociologa francese, sottolinea come:”..purtroppo per i managers tradizionali contano i risultati e non la misura di quanto chi li ottiene mette di se stesso. L’impegno che i lavoratori offrono, nessuno lo vede e lo valorizza e ciò crea nei lavoratori senso di frustrazione e di malessere.”
Imboccare questa strada significa saper ridare al lavoro un significato più vero, riconoscendo non solo l’impegno personale ma anche ciò che va oltre la prestazione e il suo riconoscimento economico e normativo. Una sfida vera per il management nei prossimi anni.
Il successo delle organizzazioni più performanti passerà dalla consapevolezza che le risorse umane sono uniche e insostituibili se coinvolte e messe in condizione di dare il meglio di sé. Ma questo implica una capacità manageriale e delle organizzazioni di rimettersi in gioco e creare momenti veri di ascolto e di risposta ai problemi, alle proposte e alla richiesta di protagonismo dei propri collaboratori.