la “terziarizzazione” dello sciopero

L’effetto mediatico che avvenimenti quali l’assemblea al Colosseo o lo sciopero indetto da USB che ha bloccato Roma è stato enorme. Così come le polemiche che ne sono scaturite. Ovviamente non succederà nulla né in termini di prevenzione intelligente né in termini di risoluzione dei problemi che hanno determinato quelle situazioni. Si preferisce continuare ad andare da indignazione a indignazione senza mai approdare a nulla. Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere. I protagonisti dello sciopero come strumento di lotta e di difesa dei propri interessi sono sempre meno gli operai (quelli veri). Ormai scioperano con più frequenza medici, avvocati, pubblici dipendenti, vigili del fuoco, controllori di volo, tassisti, notai, e prefetti. Le manifestazioni pubbliche sono sempre più partecipate da pensionati, studenti, migranti, ecologisti o gente comune. Gli operai, costretti a creare questo strumento e suoi utilizzatori principali e legittimi per almeno un secolo lo hanno in qualche modo ormai messo in soffitta. Aris Accornero, nella enciclopedia dei ragazzi della Treccani, fa risalire il termine sciopero al verbo latino “exoperare” cioè smettere di lavorare. È interessante osservare che il suo significato, nella declinazione individuale, è più associato a smettere di lavorare più per pigrizia o per scarsa voglia di lavorare del singolo, idea questa che, nel corso del 900, è sempre emersa, soprattutto nei giudizi sprezzanti di chi avversava lo sciopero. Diverso è il suo significato collettivo che lo conferma, da sempre, come strumento di lotta sociale. Anche in altre lingue assume sempre un significato aspro e duro; Huelga in spagnolo significa anche picchiare, cozzare; in inglese o in tedesco strike e streich significano anche attacco e colpo. Un termine forte dunque. Se pensiamo alle condizioni di partenza, di povertà estrema, di emarginazione sociale e culturale che hanno determinato l’esigenza di inventare strumenti di difesa così necessari e estremi per cambiare la propria situazione non possiamo non convenire che, oggi lo strumento si è trasformato in altra cosa. Così come il diritto di riunirsi in assemblea conquistato con migliaia di licenziamenti, morti ammazzati nelle manifestazioni e tragedie di ogni tipo. Se ci limitiamo al nostro Paese e leggiamo la storia sindacale tra gli anni 50 e lo statuto dei lavoratori ci rendiamo conto di cosa è stata quella stagione per la classe operaia italiana. Nulla però di tutto questo ha coinvolto le categorie di cui sopra. Nessun licenziamento ha riguardato né il pubblico impiego né le categorie professionali che, nel tempo si sono impadroniti e utilizzano, alcune con una certa dose di spregiudicatezza, questo strumento estremo non già contro un padrone ma inevitabilmente contro categorie di cittadini che, di volta in volte, vengono prese in ostaggio in vicende che non li riguardano minimamente e di cui ne pagano in esclusiva le conseguenze.

È proprio questo fenomeno di “terziarizzazione” del diritto di sciopero sul quale sarebbe necessario ritornare a riflettere. Stiamo parlando dello stesso diritto di chi lo esercitava nei confronti di una controparte dura e spesso insensibile e in grado di resistere o di concedere o di un’altra cosa? E quindi in questo caso non sarebbe utile trovare diversi canali di composizione visto che quelli fino ad oggi previsti non hanno portato a risultati apprezzabili? Pierre Carniti sosteneva che l’unica regola utile per non creare danni a terzi con uno sciopero è non farlo. Ovviamente era un paradosso. Però è significativo che l’attenzione di tutti è su come regolare un diritto e non su come rendere stabile forme di dialogo e di ricomposizione che siano più adatte ai tempi. Non porsi il problema di cosa c’è oltre allo sciopero e oltre alla sua regolamentazione con l’obiettivo di renderlo inutile è veramente un segno del degrado raggiunto. Lo hanno saggiamente messo da parte gli operai (quelli veri) che lo hanno inventato perché hanno constatato sulla loro pelle che oggi, i vantaggi possibili, sono decisamente inferiori ai costi necessari per realizzarli e quindi cosa aspettiamo a capire che il problema non è come lasciare intatto un simulacro del passato salvo poi svuotarlo dall’interno!  Più che costringerci ad accettare come inevitabile la terziarizzazione dello sciopero sarebbe meglio lavorare per cercare, insieme, come ricomporre i conflitti sociali nell’era della globalizzazione e della terziarizzazione dell’economia. Questa sarebbe una vera sfida.

GDO al bivio: l’intransigenza può essere una tattica, non una strategia..

Non c’è ancora una sentenza definitiva ma il Tribunale di Torino sembra aver imboccato una strada che può modificare i piani di Federdistribuzione che, nel frattempo a leggere i comunicati e i toni utilizzati, continua ad essere poco conciliante con le organizzazioni sindacali. L’intransigenza mostrata nel voler realizzare un proprio contratto nazionale non sta portando ai risultati sperati; il contratto non c’è e difficilmente ci sarà. Soprattutto non ci sarà nulla di diverso e di specifico rispetto al CCNL del terziario. Quindi, in estrema sintesi, tanto rumore per nulla. Al di là delle imprese che decideranno se e come seguire le indicazioni di Federdistribuzione, un dato è certo: l’intransigenza, se non è finalizzata ad un obiettivo preciso si trasforma spesso in un boomerang. Prendiamo ad esempio il tema delle liberalizzazioni. Si è partiti anche qui da una posizione intransigente. O tutto o niente. Confcommercio, pur condividendo la necessità di superare anche al proprio interno, le posizioni più ostili alle liberalizzazioni aveva tentato di trovare sintesi nell’interesse di grandi e piccole superfici. Tutto inutile. Altre organizzazioni hanno cavalcato l’opposizione più intransigente mentre Federdistribuzione, legittimamente, ha colto la possibilità di ottenere il massimo e quindi non ha voluto sentire ragioni. Oggi quella vittoria rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. La politica sta facendo altre scelte che rimettono in discussione ciò che sembrava scritto sulla pietra. Dario Di Vico in un suo articolo ha invitato alla ragionevolezza le imprese della GDO invitandole a rientrare in gioco. Personalmente condivido quel pezzo. Era sbagliata l’intransigenza di allora è sbagliata quella di chi, oggi, vorrebbe rimettere in discussione tutto ribaltando la situazione. Occorre trovare un punto ragionevole di equilibrio. Sugli orari, sulla crisi delle grandi superfici, sul ridisegno delle città e, quindi sulle nuove aperture, ha poco senso procedere in ordine sparso. Così come sui contratti. Ha senso applicare nella GDO tre contratti nazionali con tre welfare differenti? Io non credo. Ovviamente non spetta a me individuare soluzioni ma, credo, che sia corretto interrogarsi sul confine tra tattica e strategia e, soprattutto, se, la difficoltà a dotarsi di una strategia aiuta le imprese in un momento nel quale si cominciano a cogliere i primi segnali di una ripresa.

Ancora sulla “provocazione” di Dario Di Vico

un vecchio proverbio arabo recita:”tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Mi sembra spieghi bene la piega che sta prendendo il dibattito sulla provocazione di Dario Di Vico sul ruolo del sindacato nelle nostre imprese. Al di là delle legittime opinioni un dato sembra emergere con chiarezza: in molte imprese il sindacato o non esiste o non esercita nessun ruolo. Inoltre, in  alcune imprese, il contesto economico, la presenza di politiche di gestione delle risorse umane o la cultura imprenditoriale o manageriale hanno sviluppato o stanno sviluppando un sistema di gestione positivo per i lavoratori (e per l’impresa) che esclude la necessità di intermediare con le organizzazioni sindacali. Nella gestione dei manager  e dei K people c’è sempre stato questo approccio. La concessione di benefit oltre l’auto, il telefonino e il p.c. si è diffusa in molte realtà, soprattutto multinazionali comprendendo via via assicurazioni, asili privati per i figli, contributo per affitto, rimborso spese mediche, ecc. fino ad arrivare a soluzioni più specifiche per rendere la vita degli espatriati meno ossessionata dalla burocrazia servizi di pagamento delle bollette, tintoria, gestione del tempo libero, ecc. L’obiettivo era chiaro: migliorare il clima interno, trattenere i migliori, rendere più complesso il lavoro dei cacciatori di teste che si trovavano a dover fare i conti non solo con la retribuzione da offrire ai potenziali candidati ma con benefit che non tutte le aziende erano disposte a concedere più rivolti alla qualità della vita. Ovviamente questi benefit erano e sono riservati ad un numero ridotto di persone. La profondità della crisi e i mutamenti profondi del mercato del lavoro li hanno messi in discussione e, via via, sono scomparsi. È rimasta però la cultura che li aveva generati che è ben altro rispetto al cosiddetto “paternalismo” che viene evocato ogni volta che si esce da quanto previsto dal CCNL ma che è molto ambito dalle persone. In un’azienda ciò che conta veramente è il clima. Un contesto positivo ti fa sentire parte di una squadra vincente indipendentemente dal tuo ruolo. Hai la consapevolezza di essere in un’azienda che crede nelle proprie risorse e che investe in formazione, sviluppo e magari in qualcosa in più che altrove non c’è. Avere la possibilità di essere valutati, aiutati a crescere, corretti, incentivati e ben altra cosa che non contare nulla. Tutto questo non ha nulla ha che fare con il paternalismo. È un sistema di gestione che funziona e che va ben oltre il rispetto o meno del CCNL, dell’inquadramento pofessionale e della gestione collettiva. Punta sul merito, sull’adesione ai valori aziendali, sull’individuo. È questo checché ne pensino i detrattori, funziona e spinge a performance migliori, al coinvolgimento e alla crescita. Ovviamente questo riguarda quella parte dei collaboratori che per ruolo individuale o per appartenenza a reparti importanti può fare la differenza per quell’impresa. Detto questo alcune imprese non si fermano qui. Vanno oltre e propongono sistemi premianti specifici per gruppi o per l’insieme dei lavoratori. Oppure propongono forme di welfare aziendale che comprendono sconti in palestre, spacci, ecc. e, perché no, forme di integrazione della previdenza e della sanità. Alcune lo fanno consorziandosi, altre da sole. Tutto questo non c’entra nulla con il sindacato? Dipende. Dopo aver perso la battaglia sui superminimi individuali o di gruppo adesso ha senso bollare come paternalistica o sbagliata una realtà che premia non solo il singolo lavoratore ma spesso l’intera collettività? Io non credo. Ci sono aziende che se lo possono permettere o che sperimentano modelli gestionali innovativi. Basti vedere la sede di Facebook a Milano o di Google solo per fare un esempio per rendersi conto che in molti casi  ruoli, scrivanie, coinvolgimento sono necessariamente diversi. Sono realtà dove il sindacato non c’è o se c’è non interferisce quasi mai. Anzi. E allora dov’è il problema. Non c’è antisindacalità in tutto questo. C’è una proliferazione di modelli gestionali e organizzativi diversi dal tayolorismo che consentono di costruire un patto nuovo e diverso tra impresa, management e collaboratori. Dove si sa benissimo che si può essere licenziati l’indomani o che l’azienda può anche fallire e quindi conviene a tutti scambiare professionalità con formazione, crescita e contropartite che vanno oltre l’aspetto economico. Ovviamente non è cosí per tutti. È quindi c’è spazio per il welfare contrattuale che va consolidato e dotato di governance efficaci, c’è spazio per un sindacato moderno che non scambia per paternalismo il welfare della luxottica altrimenti non verrà compreso dagli stessi lavoratori. Ma se non vuole diventare un sindacato a cui ci si rivolge solo quando quel patto viene meno si deve prender atto che la fine del taylorismo e l’affermarsi di una cultura propria delle nuove generazioni che pretendono maggiore maturità nel rapporto di lavoro con più coinvolgimento, possibilità di crescita personale e meno burocrazia impone un salto culturale. Altrimenti il rischio non è che il sindacato scompaia ma che declini diventando, purtroppo, marginale.

Collaborare è meglio di partecipare…..

Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali  e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.

Manager sarà lei!

Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.

I corpi intermedi oltre le caricature

ci risiamo. Adesso tutte le responsabilità e i ritardi di questo Paese sarebbero da addebitare al Sindacato. Il Presidente di Confindustria, ma non solo lui, ritorna su un vecchio luogo comune. Il Sindacato, tutto il Sindacato senza alcuna distinzione non sarebbe in grado di cambiare e di muoversi alla velocità imposta dal contesto. E, questa volta, lo afferma un imprenditore che ha fatto del dialogo e del confronto con le parti sociali un suo tratto distintivo nella gestione delle sue aziende. Perché dirlo ma, soprattutto, perché dirlo ora quando il confronto sul modello contrattuale e sulla rappresentanza sta ritornando al centro del dibattito. Squinzi non parla a caso e il luogo da cui ha lanciato questo messaggio è estremamente significativo. Personalmente credo che uno dei meriti fondamentali di Squinzi sia quello di aver archiviato definitivamente la stagione degli accordi separati. Fin dall’inizio del suo mandato il messaggio è sempre stato chiaro: Confindustria tratta con il sindacato confederale e non con parte di esso quindi o evolve in chiave unitaria tutta l’interlocuzione o non ci potrà essere alcuna interlocuzione. Molti hanno letto, sbagliando, questa posizione come uno schiaffo alla CISL e una forte apertura di credito nei confronti della CGIL di Susanna Camusso alle prese con l’opposizione interna della FIOM di Landini. Un’opposizione interna più mediatica e chiacchierona che concreta in grado, però, di provocare la reazione della Fiat e l’uscita da Confindustria della stessa. E questo per Squinzi era ed è un problema vero. E quindi una CGIL in grado di ritornare a firmare accordi e ad esercitare il suo ruolo nel sistema di relazioni industriali a livello nazionale avrebbe comportato un rinnovato ruolo di Confindustria sia sul fronte interno che esterno. E questo risultato è stato sicuramente raggiunto. Poi però è arrivato Renzi con la sua carica di insofferenza nei confronti di tutti i corpi intermedi anch’egli  indisponibile a percorrere una strada di accordi separati con i sindacati. E questo non tanto perché condivideva la scelta del Presidente di Confindustria di spingere il Sindacato verso una posizione unitaria e costruttiva ma per poterlo trasformare in un avversario superabile, lento nelle decisioni e facile da accusare di conservatorismo e di essere uno dei freni alla crescita e allo sviluppo del Paese. Due strategie diverse che in comune avevano solo la messa in soffitta la stagione degli accordi separati. Più concreta e orientata a ricostruire un contesto utile quella del Presidente di Confindustria, più finalizzata alla rottura di equilibri consolidati e quindi anche del rapporto tra organizzazioni datoriali e sindacali quella di Renzi. La strategia del Presidente di Confindustria, condivisa anche dalle altre organizzazioni datoriali, ha sostanzialmente funzionato, la CGIL è tornata al centro della scena, ha firmato anch’essa l’accordo sulla rappresentanza e, nel Terziario, l’importante CCNL che nelle due tornate precedenti era stato firmato solo da CISL e Uil di categoria mettendo in un angolo Landini e la sua strategia politica di opposizione sociale. Oggi nessuno ipotizza il ritorno alla stagione degli accordi separati. Ovviamente il Presidente di Confindustria non era e non è mosso dalla volontà di limitarsi a ricostruire il sindacato unitario, ci mancherebbe. Il suo obiettivo era di ricostruire una apparente simmetria nella relazione dentro la quale poter perseguire i propri obiettivi. Anche perché i rapporti di forza oggi sono indiscutibilmente a favore delle imprese. Rappresentanza e rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, procedure di raffreddamento del conflitto, regole di approvazione dei contratti, decentramento di parte dei contenuti della contrattazione sono gli obiettivi nei confronti del sindacato. E questi obiettivi sono realizzabili o attraverso un’intesa che in questo momento si presenta difficile o attraverso una legge. Da qui i toni (quasi di sfida) dal palco della festa  azionale dell’unità.  E da qui il messaggio di sostegno al Governo sul fisco. È una mossa forte per restare in gioco. Al sindacato manda a dire, sbrighiamoci altrimenti se ne occuperà la politica con tutti i rischi conseguenti e al Governo che l’appoggio di Confindustria è fuori discussione ma è condizionato dai risultati concreti che si otterranno sul fisco e non dai proclami. Di fronte non tanto a questa sortita ma a ciò che questa sortita significa il sindacato deve rispondere non già scendendo sul piano della legittima polemica ma trovando le risposte e le strade per ricostruire un serio cammino unitario su proposte praticabili. Tutti i corpi intermedi sono ad un punto critico del loro percorso. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” era un vecchio slogan della CISL. Sono passati piú di vent’anni. Questo è il punto vero. Ci sono segnali incoraggianti. Dai sindacati dell’industria della CISL, da alcune regioni del Nord dove cresce la consapevolezza che occorre fare un deciso passo avanti. In questi anni la deriva identitaria ha impedito l’affermarsi di una nuova cultura condivisa e praticabile fuori dai propri confini organizzativi. Ma il sindacato, tutto il sindacato come gli altri corpi intermedi hanno una vitalità e una capacità rigeneratrice spesso sottovalutata da chi non li frequenta da vicino. E questa vitalità presente soprattutto nei territori è destinata a produrre esigenze di cambiamento e di innovazione. Io credo che, quando la polvere della polemica si abbasserà e lascerà il campo alle proposte e al negoziato lì occorrerà essere presenti con idee e strategie praticabili. Questo è quello che conta.

Il jobs act tra luci e ombre.

ancora una volta i numeri rischiano di trasformarsi nel giudizio di Dio. Lo scontro tra favorevoli e detrattori è ormai al calor bianco. Gli interventi si sprecano. Il Jobs act genera assunzIoni o sono gli sgravi fiscali che spingono le aziende a scegliere il contratto a tutele crescenti? È corretto mettere a disposizione una massa di sgravi così rilevanti alle imprese senza che queste risorse generino assunzioni aggiuntive? La sospensione dell’art. 18 era proprio necessaria? Dall’altra parte diversi esponenti del Governo e dei partiti di maggioranza con dichiarazioni ottimiste e rassicuranti che, ogni mese, ci raccontano la loro versione. in mezzo la credibilità del nostro Paese. Il Jobs act ha un indubbio valore simbolico che va ben oltre i suoi aspetti concreti. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti. È, per certi versi, come la legge Fornero. Sono atti che si trasformano in  elementi fondamentali a sostegno della nostra credibilità internazionale. Che ci piaccia o meno. Ed è da qui che bisogna partire per formulare giudizi obiettivi, altrimenti si trasforma in uno scontro tra  ragionieri con il pallottoliere. Ovviamente il Governo esagera ed enfatizza i risultati e non considera i giudizi di merito che, spesso, manifestano buone ragioni. E questo irrita fortemente, chi, pur condividendo una strategia riformista seria, non ha condiviso l’impostazione del provvedimento. Non possiamo non considerare che il Jobs act viene dopo la legge Biagi ma non me rappresenta l’evoluzione. Per certi versi è un passo indietro. Nella Biagi c’era la chiara consapevolezza che il lavoro era cambiato e che sarebbe cambiato ancora di piú e che il problema principale fosse creare opportunità di lavoro. Il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sta perdendo di significato e non sarà certo il contratto a tutele crescenti a invertire la tendenza. Nel Jobs act c’è un’idea del lavoro più tradizionale. Forse più “confindustriale” e meno terziaria proprio mentre l’economia si sta terzarizzando sempre di più. Però era anche l’unica strada praticabile per il PD (prima della diaspora interna) impegnato fino a poco tempo fa in una critica serrata della legge voluta dal centro destra in un periodo di forti divisioni sindacali. C’era voglia di voltare pagina sperando in un diverso atteggiamento della sinistra PD e della CGIL. Non è un caso che tutti i tentativi di disponibilità al dialogo portati avanti  dalla CISL sono stati fatti cadere. Adesso non si può tornare indietro facilmente anche perché l’idea che la tipologia del lavoro classico a tempo indeterminato è l’unica da perseguire e tutto il resto è precarietà è sicuramente prevalente nel Paese e nelle forze politiche. È prevalente ma, purtroppo, è sbagliata e impraticabile. Il 60% del PIL è prodotto dal settore terziario che, per sua natura ha bisogno di flessibilità del lavoro e di tipologie differenti. L’industria, che piaccia o meno, continuerà a produrre dove è piú conveniente quindi non offrirà grandi sbocchi occupazionali nel Paese e, infine, la ripresa, se ci sarà, sarà jobless. Il mercato del lavoro per i giovani è ormai globale e, comunque, le carriere saranno costituite da un patchwork di attività che dovranno essere assemblate in modo completamente diverso da quelle delle generazioni precedenti con tutti i problemi di welfare da gestire individualmente e contrattualmente anche perché il welfare pubblico sarà ine inevitabilmente  ridimensionato. Per questo occorrerebbe piú coraggio e più visione del futuro sia da parte delle organizzazioni datoriali che sindacali. Il lavoro che cambia non può essere solo argomento da convegni. Deve ritornare ad essere materia di riflessione e di proposta. Però una cosa deve essere chiara. Il punto di partenza deve tenere conto del contesto nazionale e internazionale nel quale siamo inseriti, gli obblighi e la credibilità che dobbiamo mantenere e possibilmente accrescere e, infine, il contenuto delle proposte che devono essere utili ad accompagnare il processo di integrazione e di cambiamento, anche culturale, che abbiamo di fronte.

Riforma della contrattazione: spunti di riflessione

una concreta riforma della contrattazione non può prescindere innanzitutto dalla costruzione di regole e di riconoscimenti reciproci tra le parti chiamate ad esercitare questa funzione. Definire chi è legittimato a trattare, su quali materie, a quale livello, in che quantità e con quali scadenze non è affatto secondario. Come non è affatto secondario stabilire se la contrattazione aziendale, alternativa o integrativa del CCNL, sia libera o obbligatoria e cosa succede se non arriva ad alcuna conclusione in tempi ragionevoli. In altri termini, mentre il semplice rispetto del CCNL mette, di fatto, tutte le aziende sullo stesso piano, come sarà possibile escludere situazioni di dumping contrattuale, seppur mascherato dalla volontà di un confronto strumentalmente trascinato all’infinito? (vedi ad esempio il caso della GDO dove Federdistribuzione ha aperto un tavolo di confronto impossibile da chiudere per le distanze sul merito del negoziato). Se la contrattazione non dovrà essere più sostenuta dalla messa in campo dei rapporti di forza e non dovrà  assumere le caratteristiche di una semplice  “tassa” (obbligatoria) sul lavoro ha bisogno di nuove regole e di nuovi approcci anche da parte del Sindacato che dovrebbe accentuare la sua natura costruttiva e collaborativa puntando anche ad una diversa professionalità dei suoi negoziatori. Non meno dalle imprese che dovrebbero riconoscere al sindacato, cosa tutt’altro che scontata, un ruolo propositivo e, di fatto, “intrusivo” nella destinazione degli eventuali incrementi dì produttività definita e prodotta dalla contrattazione stessa. E questo non in pochissime realtà aziendali come è oggi ma in tutte quelle imprese che vorranno cimentarsi nella contrattazione aziendale. Detto questo ha sicuramente ragione il prof. Ichino quando sostiene che è il governo della massa salariale, oggi sbilanciata sul CCNL, il punto centrale del problema, secondo il prof. Ichino, è che non può esserci alcun decentramento se non si affronta questo punto prevedendo deroghe, oggi non previste, che consentano alle imprese di destinare somme importanti al negoziato aziendale. Il problema c’è ma, personalmente, non credo sia risolvibile in questo modo. Non lo è per il Sindacato e non lo è per la stragrande maggioranza delle imprese piccole e medie. Un diverso approccio potrebbe essere dato da una riforma complessiva del salario contrattata e condivisa a livello centrale. Un nuovo modello salariale che preveda una parte minima in linea, ad esempio, con la CIG, una parte legata alla professionalità espressa e, infine, una parte legata all’andamento aziendale. La prima stabilita a livello nazionale, la seconda nella quale potrebbe essere concordato un range minimo e massimo a livello nazionale con applicazione a livello aziendale e la terza esclusivamente a livello aziendale. Ovviamente il CCNL potrebbe stabilire i minimi complessivi di riferimento delle singole voci per evitare situazioni distorsive e governare il welfare contrattuale. Questa impostazione, supportata da interventi legislativi e di modifica del codice civile, potrebbe consentire una gestione dei costi migliore per le aziende e spingere per la costruzione di un modello di formazione permanente a supporto della crescita e dell’impiegabilità dei lavoratori. Inoltre il coinvolgimento sull’andamento aziendale spingerebbe sicuramente ad una maggiore collaborazione e a un ruolo marcatamente propositivo le stesse organizzazioni sindacali. Per le aziende i vantaggi sarebbero dati dalla reversibilità legata ad elementi oggettivi di una parte della retribuzione individuale, di una maggiore spinta alla produttività individuale e di gruppo e a potenziali e interessanti sgravi fiscali. Per il sindacato e per i lavoratori i risultati sarebbero altrettanto evidenti. Un rapporto più consapevole maturo con la propria impresa, più formazione e crescita professionale, minori problemi per gli over 50 che, pur guadagnando di meno se non dovessero ricoprire ruoli professionali adeguati, non si troverebbero in situazioni di grave difficoltà personali sul mercato. È in un mix di questo tipo tra contratto nazionale e aziendale, tra esigenze dell’azienda e tutela del lavoratore che può essere trovata la soluzione migliore. Il punto ineludibile è che è comunque necessario che cambi il sistema attuale altrimenti vedo inevitabile che la crisi del modello attuale porti ad una giungla dove l’individuo è sempre più solo e nella quale sarebbe molto più difficile muoversi visti i ritmi e i problemi posti dalla globalizzazione e dalla competitività per le imprese.

Riforma della contrattazione: farla in fretta o farla bene?

Quante sono realmente le imprese che spingono per avere un nuovo modello contrattuale? Quante lo ritengono necessario? Ma soprattutto quali vantaggi concreti ne ricaverebbero? Chiunque vuole mettere mano al modello contrattuale italiano deve partire da queste semplici domande. I vantaggi per le organizzazioni sindacali sono evidentemente più chiari.  Partiamo dalla realtà. Se prendiamo l’intero universo delle imprese italiane non possiamo non prendere atto che la contrattazione aziendale con le organizzazioni sindacali è presente in un numero esiguo di aziende. Se poi dovessimo entrare nel merito della qualità della contrattazione ci accorgeremmo che ciò che riguarda gli aspetti economici sono trattati da un numero ancora meno significativo di imprese e quasi sempre le organizzazioni sindacali si limitano a ratificare sostanzialmente le proposte aziendali. È la legge del pendolo. Le aziende contrattano solo se hanno problemi che sono costretti a condividere. In caso contrario decidono unilateralmente. Ovviamente ci sono eccezioni e esempi “virtuosi” di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali ma, appunto, si tratta di eccezioni. Addirittura molte imprese di diversi settori sono impegnate a smontare i contenuti storici della loro contrattazione aziendale. Indennità, gettoni, percentuali aggiuntive al CCNL, mensilità aggiuntive, salario aziendale fisso, esclusione delle prestazioni domenicali, ecc. sono azzerate o rimesse in discussione quasi ovunque. In molti casi queste particolari condizioni erano già limitate ai collaboratori di vecchia data e non coinvolgevano i nuovi assunti già da molti anni. Se questa premessa è vera siamo in una situazione dove la stragrande maggioranza delle imprese, oggi, preferirebbe non contrattare alcunché con le organizzazioni sindacali. Questo non significa che non ci sia disponibilità ad operare economicamente sulle risorse chiave come peraltro già avviene o a legare parte del salario all’andamento dell’impresa o ad obiettivi specifici. Quindi qualsiasi riforma, per le imprese, non potrà prevedere incrementi di costi che non siano supportati da concreti (e sottolineo concreti) aumenti di produttività. Il professor Ichino cerca di risolvere il problema attraverso una proposta interessante ma, temo di difficile applicazione. Sostanzialmente lasciare ad ogni impresa la facoltà di applicare o meno il CCNL dotandosi, in quel caso, di un contratto aziendale equivalente costruito sulle specificità e sulle esigenze dell’impresa stessa. In alcuni e limitati casi potrebbe essere una buona soluzione. Gli attuali CCNL non consentono deroghe suglia aspetti economici e quindi non lasciano quello spazio necessario a costruire un sistema di incentivazione specifico. Nelle imprese medio grandi potrebbe essere una opportunità da percorrere. Oscar Giannino si spinge oltre auspicando addirittura la predisposizione di un “kit negoziale” che le organizzazioni datoriali potrebbero mettere a disposizione dei loro associati. Il kit del bravo negoziatore. Il caso Fiat ha fatto scuola e quindi sembra tutto abbastanza semplice. Purtroppo non è così. La storia della contrattazione aziendale nel nostro Paese è nota. Le aziende dove le organizzazioni sindacali erano radicate e più forti concedevano risultati normativi ed economici maggiori che poi venivano estesi a tutti attraverso la contrattazione nazionale anche a quelle aziende che non avevano alcun interesse ad accettarle o pressioni sindacali interne. E questo fino a quando le imprese maggiori hanno ben compreso che “nascondendosi” dietro le piccole e medie imprese potevano invertire una tendenza che loro stessi avevano contribuito a creare. Ritornare indietro è possibile ma occorre farlo con grande cautela. Oggi il rapporto tra imprese e sindacato è asimmetrico quasi ovunque. Ieri non era cosí. Domani chissà. Il CCNL è un punto di riferimento per la stragrande maggioranza delle imprese italiane e mantiene una funzione di equilibrio. Inoltre evita fenomeni di dumping contrattuale. Seguire le esigenze di poche seppur importanti aziende non è una scelta corretta. Semmai è l’esatto contrario. Per questo ci vuole cautela ed sarebbe buona cosa lasciare la scelta e la costruzione di una proposta alle parti sociali ovviamente facendo tesoro del contributo indispensabile dei veri esperti e studiosi della materia.

Ritornare ad investire sul capitale umano. Un dovere per ogni impresa.

Philip Kotler ci ha abituato a interessanti anticipazioni di quello che potrà essere l’evoluzione del business nel futuro. Non a caso parla di evoluzione H2H come evoluzione del B2B e del B2C. H2H che significa semplicemente Human to Human. La parola chiave sarà sempre di più rappresentata dalla personalizzazione. Ma come si può personalizzare il rapporto con il cliente in un contesto che rischia di essere sempre piú spersonalizzato come nell’impresa di oggi? Un altro esempio che segnala un cambiamento in corso è rappresentato da Starbucks. L’azienda americana ha deciso di sostenere economicamente i propri dipendenti che vogliono riprendere a studiare iscrivendosi all’università. L’azienda sa benissimo che i propri collaboratori (chiamati significativamente partner) potrebbero andarsene una volta raggiunto il loro obiettivo professionale ma non ritiene questo rischio un problema. Ha capito che l’apprendimento e la formazione continua rsppresentano la base sulla quale costruire un serio rapporto di partnership con vantaggi reciproci. In futuro dovrà essere così per tutte le imprese. La convinzione che l’impiegabilità di un collaboratore non sia un problema dell’azienda è figlia del contesto che abbiamo attraversato in questi anni. L’impresa trova nel mercato del lavoro ciò che serve, assume, decide inquadramento e retribuzione e, infine, licenzia quando le capacità o le competenze o i comportamenti o il costo espressi dal singolo non sono più in linea con i dettami aziendali. Questa impostazione che avrebbe dovuto favorire la nascita di una cultura di partnership vera tra impresa e collaboratore è degenerata a causa  dell’assimetria del rapporto di potere tra i contraenti il patto stesso. La crisi ha poi fatto il resto. Basti solo sottolineare che fino a dieci anni fa era normale restare in una azienda per tre quattro anni e poi cambiare per migliorare la propria posizione. Oggi molte imprese non superano i tre quattro anni di vita e quindi spesso non sono in grado di onorare nessun patto pur sottoscritto con convinzione. Per questi e altri motivi lo scambio è stato via via sostituito dall’imposizione di comportamenti pretesi, dall’impossibilità a mantenere accordi sottoscritti trasformando cosí, in molti casi, il rapporto di lavoro in un vincolo solo per uno dei contraenti. È questo non crea certo quel clima necessario nel quale la prestazione individuale mette in circolo il massim possibile. E non basta più ricorrere alle classiche liturgie aziendali per motivare, spingere e coinvolgere i propri collaboratori che vengono sempre più percepite come finte e prive di coerenza. Nel breve le aziende hanno pensato di affrontare il problema quasi esclusivamente sul piano generazionale. Fuori gli over qualcosa e dentro stagiaire o giovani con il miraggio della carriera. I cosiddetti talenti. Politiche retributive estremamente selettive, strutture piatte, coinvolgimento full time o meglio h24. Ma questo, nel lungo periodo, funziona solo se la cultura del lavoro e dell’impegno professionale restano quella delle generazioni precedenti improntate su di un’etica del lavoro a prescindere. Quelle che vengono, in molte realtà, messe alla porta. Le nuove generazioni chiedono altro. Impegno si ma anche vita privata, formazione continua, crescita professionale, gerarchie meno opprimenti e più coerenti. Capi che insegnano e coinvolgono. Non che sfruttano idee e proposte. Rispetto e riconoscimento. Ma tutto questo non si ottiene con l’imposizione o con le regole del contesto precedente. Altrimenti nasce la disaffezione, il disimpegno e, prima o poi, la contestazione. Cambiare significa anticipare e rimettere le direzioni risorse umane a lavorare seriamente sul capitale umano a loro affidato. Significa considerare le risorse umane un patrimonio aziendale e non numeri in mano a capì isterici. Significa investire. Formazione continua finalizzata ad una effettiva impiegabilità della risorsa. Percorsi di carriera, colloqui di valutazione e sviluppo finalizzati alla crescita professionale. Un’azienda è innanzitutto rappresentata dal clima interno. È sentirsi parte di una squadra coerente e leale con i suoi membri che fa la differenza. Creare il contesto necessario è innanzitutto compito dell’impresa. E sarà la vera sfida dei prossimi anni.