Trentenni fra trent’anni

Ai bambini in futuro forse non dovremo più chiedere: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Piuttosto dovremmo dire: «Preparati ad essere in grado di fare tante cose». Secondo Rohit Talwar chi oggi ha 11 anni, probabilmente vivrà fino a 120 anni e rischia di lavorare fino a cento.
Incredibile? Forse è presto per dirlo. In Inghilterra, l’aspettativa di vita media oggi è oltre gli 80 anni e cresce ogni anno. A questi ritmi, un bambino di oggi vivrà almeno fino a 120 anni. E questa è una stima prudente. Contemporaneamente vediamo crescere i livelli di automazione nella vita quotidiana. Stanno nascendo nuove forme di smart software che rimpiazzeranno sempre più lavori. Questo porterà alla scomparsa di molti mestieri attuali, calcolati tra il 30 e l’80%. Da qui a 50 anni, saranno poche le persone che lavoreranno full-time. Molti non lavoreranno proprio. Sarà meglio o peggio? E chi li manterrà? Chi può dirlo?
Il sistema pensionistico e il welfare al quale siamo stati abituati si modificheranno profondamente nel prossimo futuro, perché è impossibile mantenerli con persone che vivranno fino a 120 anni. Quindi dovremo lavorare diversamente e molto più di oggi per essere sicuri di poterci mantenere fino a quelle età.
E questo solo per dire come è difficile immaginare come sarà la vita tra 20/30 anni.
Se trent’anni fa avessero proposto la legge Fornero o il Jobs act sarebbe scoppiata la rivoluzione. Negli anni 90 si poteva accedere tranquillamente alla pensione a 47 anni attraverso un mix costituito da CIGS, mobilità ed eventuali integrazioni aziendali consentendo di fatto un numero significativo di prepensionamenti. Il comparto industriale si è anche ristrutturato così. Altri tempi, dunque. Nessuno, allora, si è preoccupato delle conseguenze sul lungo periodo. Chi ha trent’anni oggi è nato allora. Nessuno  ha chiesto loro di condividere o meno quelle scelte. Allora quel sistema andava bene a tutti: sindacati, imprese e lavoratori. Molti dei beneficiati sono, oggi, i genitori di questi ragazzi. Qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi del conto lasciato alle future generazioni? Non credo. Non dimentichiamo che dopo la prima guerra mondiale il sistema pensionistico era a capitalizzazione. Quindi assolutamente autosufficiente. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale che ha bruciato praticamente tutte le risorse accumulate. Il dilemma, allora, fu se ricostruire il sistema precedente o andare sostanzialmente a debito tra generazioni. Scelta questa seconda strada si è scelto un sistema a ripartizione sapendo che, probabilmente, avrebbe retto per alcuni decenni. E così è stato. Cosa succederà tra trent’anni alle pensioni dei trentenni diventa oggi uno degli argomenti di una grande discussione spesso ansiogena. Noi possiamo solo limitarci ad aggiustamenti progressivi tra il vecchio sistema retributivo e quello contributivo. Non esiste “la soluzione definitiva”. Chi la propina è in mala fede. Parliamoci chiaro, nessuno può fare previsioni serie e attendibili su cosa succederà. Ci si può cimentare, ovviamente, però il rischio che si consideri solo la situazione attuale proiettandola in un futuro remoto è molto forte. Però solo con le variabili oggi a disposizione cioè al netto della tecnologia, delle innovazioni organizzative e sociali, delle crisi cicliche e della globalizzazione del lavoro. Nessuna riflessione sulla possibile evoluzione del contesto socio economico, nessuna sui flussi migratori reali; nessuna sul nuovo welfare necessario a generazioni che lavoreranno diversamente e più a lungo e con modalità completamente diverse. Per questo le ipotesi vanno prese con grande cautela. La drammatizzazione non serve. Tra trent’anni i trentenni non so se staranno meglio o peggio so solo, per certo, che loro ci saranno di sicuro e nel frattempo, a tutti noi, cittadini di oggi, viene richiesto di aiutarli a progettare un nuovo contesto economico, sociale e culturale diverso e funzionale a quello nel quale loro dovranno vivere. A noi il dovere di evitare di alimentare conflitti generazionali basati su ipotesi tutt’altro che scontate.

Si fa presto a dire: “sei un Quadro”…

Secondo i dati diffusi da Manageritalia sulla base dei report elaborati dall’Inps, in Italia ci sono oltre quattrocentocinquantamila “quadri”. Età media 47 anni (45,6 per le donne) e prevalentemente di sesso maschile, sebbene le donne che ricoprono questo ruolo siano aumentate del 24% dal 2008 al 2012, diventando più numerose delle dirigenti di sesso femminile.
Quasi centomila i professionisti presenti solo nel terziario del nostro Paese. Una via di mezzo tra la figura del Dirigente, oggi anch’essa in crisi di identità, e altre figure tipiche dei tradizionali inquadramenti contrattuali.
Una categoria in crescita, relativamente giovane e in cerca, forse, di un riconoscimento definitivo.
Il nome, certo, non aiuta: Quadro.
Oggi da più parti soppiantato dal più familiare termine inglese “manager” accompagnato da “qualcosa d’altro” che ne completa o ne contorna il significato.
La prima volta che il termine “quadro” è stato utilizzato per indicare quella specifica declaratoria del personale di un’azienda, prevista dal Codice Civile, è stato nel 1931 ma, già nel 1752, secondo il Dizionario Storico della lingua francese, il termine (“inquadrare” per indicare un insieme di ufficiali e sottufficiali che comandano dei soldati di un reggimento oppure degli individui: i quadri di un battaglione, ecc.) venne usato per la prima volta nel gergo militare da cui derivano buona parte dei termini utilizzati dalla cultura tayloristica industriale.
All’estero, soprattutto in Francia, il termine “Cadre” si è affermato con maggiore forza e ha una sua dignità specifica. Da noi, no.
È un termine polisemico. Ha una sola etimologia (quadro deriva da quadrus, quadrato in latino).
In altri Paesi esiste un contratto nazionale specifico che ne definisce perimetro e confini. E ne stabilisce varietà, ruolo e responsabilità. Da noi, no.
Da noi essere “quadro” non conferisce alcun status sociale. Al mare, al vicino di ombrellone, la moglie non può dire:”Mio marito è un Quadro”.
Meglio un generico:” Mio marito è un Manager”.
Suona meglio. Il termine quadro non identifica professionalmente. Inquadra, appunto. Per questo è venuto in soccorso l’inglese. Che spesso viene usato a sproposito.
Quadro è una termine che identifica solo una declaratoria contrattuale e il conseguente livello retributivo. Su questo aspetto, credo, dovrebbe essere fatto uno sforzo maggiore di analisi e di identificazione di nuovi percorsi professionali possibili e di riconoscimento soprattutto in contesti organizzativi profondamente diversi dal passato.
In Italia, In termini di benefit aziendali, la vera differenza con la figura del dirigente la fa il welfare a disposizione. Sanità e previdenza, innanzitutto. E questi sono, per un quadro, contrattualmente insufficienti. Ormai l’auto, il cellulare e il p.c. li hanno quasi tutti. E quindi non distinguono ma, semmai omologano. Tra l’altro questi strumenti hanno perso la loro funzione di benefit “esclusivi” trasformandosi in normali strumenti di lavoro. Spesso invasivi. Non avendo un orario di lavoro definito il professionista rischia di essere solo sempre disponibile e rintracciabile. Il Quadro può ancora contare sull’art. 18 a differenza di altre figure apicali. Almeno per chi è oggi in azienda con un contratto a tempo indeterminato. Va da sé che è molto difficile pensare di restare in una posizione di responsabilità, pur tutelato dalla legge, in un’azienda che ha deciso di non credere nella possibilità di continuare il rapporto di lavoro. Quindi occorre mantenere nel tempi competenze specifiche, capacità, responsabilità e autonomia. Ma anche competenze trasversali. Per continuare ad essere competitivi sul mercato. Da qui l’esigenza di percorsi di formazione e sviluppo continui ed efficaci. Ma tutto questo confluisce in un termine giuslavoristico ormai insufficiente, “Quadro”, appunto. Difficile da affrontare contrattualmente perché è un termine che piace ancora ai sindacati perché fa tanto “categoria”: I “Quadri”. Blanditi, vezzeggiati e ascoltati quando fanno una scelta di campo sindacale. Meno quando vorrebbero avere voce sulle proprie specificità nei contratti nazionali e aziendali. Nelle imprese occupano ruoli di grande responsabilità, partecipano a team anche internazionali o, addirittura, sono l’alter ego dell’imprenditore. Fuori dall’azienda sono una categoria apicale di un contratto nazionale zeppo di figure professionali massificate. È questo che, forse, li rende disinteressati ad una omologazione dentro un contesto tradizionale. La fine del “Taylorismo” culturale e contrattuale forse li rilancerà e gli restituirà un perimetro e un ruolo maggiormente definiti. I temi di interesse vanno da un maggiore riconoscimento del loro contributo al successo dell’azienda alla creazione di un’area professionale meglio definita e diversificata. Infine è forte la richiesta di un welfare più importante, aziendale o contrattuale, che tenga conto di vecchie e nuove esigenze di una popolazione che spesso “vive” in azienda. Le giovani generazioni, le nuove tecnologie e un contesto più globalizzato e interdipendente costringeranno contratti e codice civile a fare un deciso passo in avanti. E questo, anche se difficile, è certamente auspicabile.

Eravamo in centomila allo stadio quel dì…

È di oggi la notizia che il codacons pretenderà il rimborso del prezzo del biglietto di Expo a causa delle enormi file che rendono impraticabile una visita minimamente decente dell’esposizione. Sono sincero. Ho provato tenerezza per gli avvocati che hanno suggerito questa mossa. Roba da altri tempi.
Chiunque sia stato in Expo dopo agosto ha ben compreso la trasformazione che stava maturando sia nella composizione che nella numerosità dei partecipanti. Ormai tutti ben oltre l’Expo. Non era solo un problema di appartenere o meno alla schiera dei ritardatari che non volevano perdersi l’esposizione. Ci saranno stati anche questi. Ma restano una minoranza. Expo si è, via via, trasformato in una specie di Woodstock dove esserci è diventato più importante che vedere. Certo i padiglioni sono interessanti, gli odori o i profumi sono un po’ una via di mezzo tra un festival dell’unità e il mercante in fiera, le costruzioni sono affascinanti, ardite e particolari, ma la calca, la folla, il desiderio di essere in questo posto, qui e ora, ha superato ogni altra necessità o fatica. Follia collettiva? Non so. Io vedo centinaia di migliaia di persone contente. Un sabato mattina mi seduto in un bar all’entrata Triulza ad osservare le ondate di amici, scolaresche, coppie, single che alle dieci del mattino si accalcavano all’entrata e poi alla sera li ho osservati all’uscita. Stanchi ma felici. Avranno avuto, si e no, la possibilità di visitare due o tre padiglioni. Molti, tra di loro, chiacchieravano progettando di tornarci appena possibile. Le discussioni erano più che altro sulla lunghezza delle code a cui avevano partecipato. In realtà non avevano visto quasi niente ma erano stati lì. In mezzo a coetanei sorridenti e disciplinati. Ecco. A parte qualche incazzatura per i furbi esperti della “non coda” o in grado di infilarsi nelle cosiddette fast track le persone, sembravano serene e disciplinate. Si aspettavano questo e questo hanno trovato. Un grande luogo di incontro, di struscio collettivo di presenza. Ci sono alcuni avvenimenti che restano in ciascuno di noi, per sempre. Al di là di chi li ha organizzati. Si depositano in fondo ai nostri ricordi ed emergono quando ci si trova, la sera, con gli amici. Alcuni sono molto personali altri sono solo una testimonianza del tipo: io c’ero. Tutto qui. L’Expo per molti è uno di questi momenti. Adriano Celentano cantava nel ’67 un improbabile: “..Signorina se non sbaglio lei ha visto l’inter milan con me. Ma come fa lei a non ricordare. Noi eravamo in centomila allo stadio quel di’. Io dell’ in Inter Lei del mi Milan…” Potenza dei riti collettivi….

GDO. Essere di nuovo protagonisti o rischiare di essere irrilevanti: forse è arrivato il momento di riflettere

Da osservatore esterno ho maturato una personalissima convinzione: la grande distribuzione avrebbe sicuramente bisogno di farsi sentire, oggi più di ieri. La necessità di continuare a contribuire al processo di ammodernamento del sistema distributivo italiano, il rapporto con l’agricoltura nazionale e con l’industria di trasformazione; la riorganizzazione e rinnovamento dei formati e quindi il rapporto con le pubbliche amministrazioni; la necessità di mettere mano a un modello efficace di contrattazione nazionale e aziendale, i nuovi modelli organizzativi, la qualificazione, la formazione e il welfare del personale presuppongono la presenza di una forte spinta associativa che sappia guardare oltre le specifiche esigenze di concorrenza e di equilibrio tra insegne. Questa ultima necessità credo sia ormai superata così come si è conclusa la fase dove ad alcune insegne è riuscito il disegno di rafforzarsi definitivamente a spese di altre. Adesso occorrerebbe decisamente andare oltre. Non nei convegni o sulla stampa dove la professionalità di ottimi specialisti può fare la differenza ma dove si trovano le soluzioni, dove si incide sul serio e dove si determinano le decisioni a proprio o altrui favore. E non è più, sia chiaro, un problema tra grande e piccola distribuzione. È un problema di strategia. Che oggi sembra non esserci o non essere incisiva come dovrebbe essere necessario. Il perché è evidente. La GDO ha sempre condizionato la contrattazione nazionale di categoria pur non gestendola mai in prima persona. Lo ha fatto per oltre trent’anni. In altri termini con poco più di duecentomila addetti ha sempre dettato le condizioni di un contratto che copre oggi oltre tre milioni di persone. E ne ha tratto benefici indiscutibili. Purtroppo negli anni, anziché capitalizzare queste opportunità, ha preferito cedere a richieste assurde dei sindacati a livello aziendale costruendo accordi con vincoli organizzativi e costi relativi che dovrebbero essere contestati e trattenuti dalla pensione dei Direttori del personale e dei board che si sono succeduti in quegli anni. L’impasse di oggi è anche figlia di quel passato. E questa impasse porterà inevitabilmente con sé le tradizionali liturgie natalizie, le vertenze legali con i relativi costi e consoliderà ancora di più l’impressione, nel Paese, che nella grande distribuzione il lavoro è povero, mal pagato e di scarso interesse per chi vuole crescere e investire su se stesso. E, nei dipendenti, l’idea che le loro aziende non sono disponibili a concedere ciò che altre aziende dello stesso settore sono state disponibili a dare. Reazioni inevitabili quando si tira troppo la corda. E confondere, come si sta facendo, i limiti, i ruoli e le potenzialità di livelli contrattuali differenti porta ancora di più a non essere compresi. Così come sulle aperture e sulla pianificazione degli orari dove la GDO ha contribuito a costruire, a suo tempo in Confcommercio, una posizione forte mediana ma condivisa e inattaccabile sia sul versante sindacale che nelle diverse regioni. Anzi ha avuto il merito di condizionare non poco la posizione della più grande confederazione del terziario, favorendo un importante dibattito interno positivo e costruttivo ben diverso rispetto ad altre organizzazioni, come ad esempio Confesercenti, che si sono messe, anche per questo, alla testa di posizioni abolizioniste tra le più intransigenti. Oggi è chiaro che la posizione di Federdistribuzione non trova grandi ascolti e, probabilmente, rischia di essere accantonata rimettendo inevitabilmente in discussione abitudini e comportamenti di consumo ormai consolidati. Risultato, questo, che non giova a nessuno. E anche su questo tema, la difficoltà a costruire alleanze propositive, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Infine il rapporto con l’agricoltura nazionale. C’è in atto da sempre una guerra tra industria alimentare e agricoltura che passa quasi sotto traccia sulla stampa mentre continua la polemica esplicita sulla presunta “voracità” della GDO e sulla sua evidente volontà di “affamare” l’agricoltura nazionale magari a vantaggio di altri Paesi esteri. È certamente scandaloso e inaccettabile. Ma perché accade tutto ciò? Non certo per mancanza di volontà o di impegno di Federdistribuzione. È un problema di massa critica, di alleanze, di capacità o meno di finalizzare iniziative di sostegno che, quando il vento soffia contro, diventano più impegnative e complesse da realizzare. Per questo occorrerebbe tornare ad essere protagonisti costruendo le convergenze necessarie con chi ci sta. Occorre però avere la volontà e saper rimettere in fila i problemi valutando i percorsi possibili. Soprattutto quelli che non si sono sufficientemente valutati perché si è stati troppo occupati a cercare scorciatoie impraticabili. A volte qualche passo indietro aiuta a osservare meglio lo scenario che si ha di fronte. Personalmente vedo tre priorità: trovare un punto di incontro con le organizzazioni maggiormente rappresentative sulle aperture che non penalizzi fortemente le imprese della GDO e che sappia trovare un equilibrio praticabile così come ritrovare con loro e con le organizzazioni sindacali un percorso serio e costruttivo sulla contrattazione nazionale che sappia andare oltre le disfide giudiziarie che, per loro natura, non portano da nessuna parte e i desideri impossibili della prima ora e, infine, riprendere un iniziativa che riporti un equilibrio sostanziale nella filiera dalla produzione al consumo. Per fare questo occorre crederci, lavorare con ostinazione ma anche con lungimiranza dando per scontato che non c’è alcuna soluzione a portata di mano ma che occorre comunque provarci verificando chi ci sta e a quali condizioni. E se queste condizioni, pur diverse dai propri desideri, incontrano le esigenze delle imprese. Le aziende oggi, hanno bisogno di punti di riferimento. Il compito di una federazione è di aiutarle ad individuarli.

Condividere, collaborare, partecipare. Una sfida non facile per il Paese

passare dalla cultura del conflitto a quella della partecipazione non è facile. Soprattutto quando resta l’ideologia del conflitto ma non più la possibilità di farlo. Restano i rancori, le accuse reciproche, la paralisi. È chiaro che non si partecipa né per forza né perché non ci sono altre alternative. In questi casi si subisce solo l’iniziativa altrui.  Purtroppo in Italia siamo fermi qui. Io credo che occorrerebbe procedere per gradi. Innanzitutto sul piano macro. È vero o no che i corpi intermedi sono in discussione? Quindi occorre partire da lì trovando un terreno comune tra sindacati, imprese e associazioni rappresentative sull’identificazione di alcune semplici regole del gioco condivise. E occorrerebbe farlo in fretta. Riconoscimento reciproco, accordo sulla rappresentanza, salvaguardia della contrattazione nazionale, tutele minime per chi non ha un contratto nazionale di riferimento, consolidamento del welfare contrattuale. Ovviamente questo non basta. Occorre andare avanti. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle  nuove imprese di decollare rapidamente. Cosa serve ai lavoratori? Riduzione del cuneo fiscale, politiche attive, tutele minime, incrementi salariali legati all’andamento aziendale, flessibilità nel lavoro e tra lavori. Beh! Un sindacato in grado di collaborare con le imprese, che sostiene la ripresa e  la accompagna, che condivide con gli imprenditori gli elementi fondamentali di una rinnovata politica economica utile all’ammodernamento del Paese ricrea le condizioni per una ripresa vera di un ruolo propositivo che è altro rispetto alla vecchia concertazione. L’asimmetria di oggi condanna all’irrilevanza tutto il sindacato e aspettare con pazienza sulla riva del fiume che cambi qualcosa non è mai una buona politica. Quindi una strategia di collaborazione basata su elementi concreti, misurabili e condivisibili. Nel frattempo occorre continuare un processo di confronto unitario che abbandoni decisamente le ormai superate derive identitarie che si sono impadronite del confronto tra sindacati confederali. E, infine, un grande appuntamento nazionale condiviso che sappia coinvolgere il Paese con un linguaggio chiaro e diretto e che prospetti un percorso riformista, partecipativo e unitario. Ciascuno nel proprio ruolo e nelle proprie prerogative dovrebbe capire che il momento necessità di una svolta e di una leadership visionaria che sappia guardare al futuro. Il 900 è alle nostre spalle. Inutile voltarsi. Oggi, ci ricorda in una bellissima poesia Antonio Machado, non c’è un sentiero segnato da percorrere, la via si fa camminando ma, soprattutto, nessuno può più ritornare sui propri passi.

la “terziarizzazione” dello sciopero

L’effetto mediatico che avvenimenti quali l’assemblea al Colosseo o lo sciopero indetto da USB che ha bloccato Roma è stato enorme. Così come le polemiche che ne sono scaturite. Ovviamente non succederà nulla né in termini di prevenzione intelligente né in termini di risoluzione dei problemi che hanno determinato quelle situazioni. Si preferisce continuare ad andare da indignazione a indignazione senza mai approdare a nulla. Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere. I protagonisti dello sciopero come strumento di lotta e di difesa dei propri interessi sono sempre meno gli operai (quelli veri). Ormai scioperano con più frequenza medici, avvocati, pubblici dipendenti, vigili del fuoco, controllori di volo, tassisti, notai, e prefetti. Le manifestazioni pubbliche sono sempre più partecipate da pensionati, studenti, migranti, ecologisti o gente comune. Gli operai, costretti a creare questo strumento e suoi utilizzatori principali e legittimi per almeno un secolo lo hanno in qualche modo ormai messo in soffitta. Aris Accornero, nella enciclopedia dei ragazzi della Treccani, fa risalire il termine sciopero al verbo latino “exoperare” cioè smettere di lavorare. È interessante osservare che il suo significato, nella declinazione individuale, è più associato a smettere di lavorare più per pigrizia o per scarsa voglia di lavorare del singolo, idea questa che, nel corso del 900, è sempre emersa, soprattutto nei giudizi sprezzanti di chi avversava lo sciopero. Diverso è il suo significato collettivo che lo conferma, da sempre, come strumento di lotta sociale. Anche in altre lingue assume sempre un significato aspro e duro; Huelga in spagnolo significa anche picchiare, cozzare; in inglese o in tedesco strike e streich significano anche attacco e colpo. Un termine forte dunque. Se pensiamo alle condizioni di partenza, di povertà estrema, di emarginazione sociale e culturale che hanno determinato l’esigenza di inventare strumenti di difesa così necessari e estremi per cambiare la propria situazione non possiamo non convenire che, oggi lo strumento si è trasformato in altra cosa. Così come il diritto di riunirsi in assemblea conquistato con migliaia di licenziamenti, morti ammazzati nelle manifestazioni e tragedie di ogni tipo. Se ci limitiamo al nostro Paese e leggiamo la storia sindacale tra gli anni 50 e lo statuto dei lavoratori ci rendiamo conto di cosa è stata quella stagione per la classe operaia italiana. Nulla però di tutto questo ha coinvolto le categorie di cui sopra. Nessun licenziamento ha riguardato né il pubblico impiego né le categorie professionali che, nel tempo si sono impadroniti e utilizzano, alcune con una certa dose di spregiudicatezza, questo strumento estremo non già contro un padrone ma inevitabilmente contro categorie di cittadini che, di volta in volte, vengono prese in ostaggio in vicende che non li riguardano minimamente e di cui ne pagano in esclusiva le conseguenze.

È proprio questo fenomeno di “terziarizzazione” del diritto di sciopero sul quale sarebbe necessario ritornare a riflettere. Stiamo parlando dello stesso diritto di chi lo esercitava nei confronti di una controparte dura e spesso insensibile e in grado di resistere o di concedere o di un’altra cosa? E quindi in questo caso non sarebbe utile trovare diversi canali di composizione visto che quelli fino ad oggi previsti non hanno portato a risultati apprezzabili? Pierre Carniti sosteneva che l’unica regola utile per non creare danni a terzi con uno sciopero è non farlo. Ovviamente era un paradosso. Però è significativo che l’attenzione di tutti è su come regolare un diritto e non su come rendere stabile forme di dialogo e di ricomposizione che siano più adatte ai tempi. Non porsi il problema di cosa c’è oltre allo sciopero e oltre alla sua regolamentazione con l’obiettivo di renderlo inutile è veramente un segno del degrado raggiunto. Lo hanno saggiamente messo da parte gli operai (quelli veri) che lo hanno inventato perché hanno constatato sulla loro pelle che oggi, i vantaggi possibili, sono decisamente inferiori ai costi necessari per realizzarli e quindi cosa aspettiamo a capire che il problema non è come lasciare intatto un simulacro del passato salvo poi svuotarlo dall’interno!  Più che costringerci ad accettare come inevitabile la terziarizzazione dello sciopero sarebbe meglio lavorare per cercare, insieme, come ricomporre i conflitti sociali nell’era della globalizzazione e della terziarizzazione dell’economia. Questa sarebbe una vera sfida.

GDO al bivio: l’intransigenza può essere una tattica, non una strategia..

Non c’è ancora una sentenza definitiva ma il Tribunale di Torino sembra aver imboccato una strada che può modificare i piani di Federdistribuzione che, nel frattempo a leggere i comunicati e i toni utilizzati, continua ad essere poco conciliante con le organizzazioni sindacali. L’intransigenza mostrata nel voler realizzare un proprio contratto nazionale non sta portando ai risultati sperati; il contratto non c’è e difficilmente ci sarà. Soprattutto non ci sarà nulla di diverso e di specifico rispetto al CCNL del terziario. Quindi, in estrema sintesi, tanto rumore per nulla. Al di là delle imprese che decideranno se e come seguire le indicazioni di Federdistribuzione, un dato è certo: l’intransigenza, se non è finalizzata ad un obiettivo preciso si trasforma spesso in un boomerang. Prendiamo ad esempio il tema delle liberalizzazioni. Si è partiti anche qui da una posizione intransigente. O tutto o niente. Confcommercio, pur condividendo la necessità di superare anche al proprio interno, le posizioni più ostili alle liberalizzazioni aveva tentato di trovare sintesi nell’interesse di grandi e piccole superfici. Tutto inutile. Altre organizzazioni hanno cavalcato l’opposizione più intransigente mentre Federdistribuzione, legittimamente, ha colto la possibilità di ottenere il massimo e quindi non ha voluto sentire ragioni. Oggi quella vittoria rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. La politica sta facendo altre scelte che rimettono in discussione ciò che sembrava scritto sulla pietra. Dario Di Vico in un suo articolo ha invitato alla ragionevolezza le imprese della GDO invitandole a rientrare in gioco. Personalmente condivido quel pezzo. Era sbagliata l’intransigenza di allora è sbagliata quella di chi, oggi, vorrebbe rimettere in discussione tutto ribaltando la situazione. Occorre trovare un punto ragionevole di equilibrio. Sugli orari, sulla crisi delle grandi superfici, sul ridisegno delle città e, quindi sulle nuove aperture, ha poco senso procedere in ordine sparso. Così come sui contratti. Ha senso applicare nella GDO tre contratti nazionali con tre welfare differenti? Io non credo. Ovviamente non spetta a me individuare soluzioni ma, credo, che sia corretto interrogarsi sul confine tra tattica e strategia e, soprattutto, se, la difficoltà a dotarsi di una strategia aiuta le imprese in un momento nel quale si cominciano a cogliere i primi segnali di una ripresa.

Ancora sulla “provocazione” di Dario Di Vico

un vecchio proverbio arabo recita:”tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Mi sembra spieghi bene la piega che sta prendendo il dibattito sulla provocazione di Dario Di Vico sul ruolo del sindacato nelle nostre imprese. Al di là delle legittime opinioni un dato sembra emergere con chiarezza: in molte imprese il sindacato o non esiste o non esercita nessun ruolo. Inoltre, in  alcune imprese, il contesto economico, la presenza di politiche di gestione delle risorse umane o la cultura imprenditoriale o manageriale hanno sviluppato o stanno sviluppando un sistema di gestione positivo per i lavoratori (e per l’impresa) che esclude la necessità di intermediare con le organizzazioni sindacali. Nella gestione dei manager  e dei K people c’è sempre stato questo approccio. La concessione di benefit oltre l’auto, il telefonino e il p.c. si è diffusa in molte realtà, soprattutto multinazionali comprendendo via via assicurazioni, asili privati per i figli, contributo per affitto, rimborso spese mediche, ecc. fino ad arrivare a soluzioni più specifiche per rendere la vita degli espatriati meno ossessionata dalla burocrazia servizi di pagamento delle bollette, tintoria, gestione del tempo libero, ecc. L’obiettivo era chiaro: migliorare il clima interno, trattenere i migliori, rendere più complesso il lavoro dei cacciatori di teste che si trovavano a dover fare i conti non solo con la retribuzione da offrire ai potenziali candidati ma con benefit che non tutte le aziende erano disposte a concedere più rivolti alla qualità della vita. Ovviamente questi benefit erano e sono riservati ad un numero ridotto di persone. La profondità della crisi e i mutamenti profondi del mercato del lavoro li hanno messi in discussione e, via via, sono scomparsi. È rimasta però la cultura che li aveva generati che è ben altro rispetto al cosiddetto “paternalismo” che viene evocato ogni volta che si esce da quanto previsto dal CCNL ma che è molto ambito dalle persone. In un’azienda ciò che conta veramente è il clima. Un contesto positivo ti fa sentire parte di una squadra vincente indipendentemente dal tuo ruolo. Hai la consapevolezza di essere in un’azienda che crede nelle proprie risorse e che investe in formazione, sviluppo e magari in qualcosa in più che altrove non c’è. Avere la possibilità di essere valutati, aiutati a crescere, corretti, incentivati e ben altra cosa che non contare nulla. Tutto questo non ha nulla ha che fare con il paternalismo. È un sistema di gestione che funziona e che va ben oltre il rispetto o meno del CCNL, dell’inquadramento pofessionale e della gestione collettiva. Punta sul merito, sull’adesione ai valori aziendali, sull’individuo. È questo checché ne pensino i detrattori, funziona e spinge a performance migliori, al coinvolgimento e alla crescita. Ovviamente questo riguarda quella parte dei collaboratori che per ruolo individuale o per appartenenza a reparti importanti può fare la differenza per quell’impresa. Detto questo alcune imprese non si fermano qui. Vanno oltre e propongono sistemi premianti specifici per gruppi o per l’insieme dei lavoratori. Oppure propongono forme di welfare aziendale che comprendono sconti in palestre, spacci, ecc. e, perché no, forme di integrazione della previdenza e della sanità. Alcune lo fanno consorziandosi, altre da sole. Tutto questo non c’entra nulla con il sindacato? Dipende. Dopo aver perso la battaglia sui superminimi individuali o di gruppo adesso ha senso bollare come paternalistica o sbagliata una realtà che premia non solo il singolo lavoratore ma spesso l’intera collettività? Io non credo. Ci sono aziende che se lo possono permettere o che sperimentano modelli gestionali innovativi. Basti vedere la sede di Facebook a Milano o di Google solo per fare un esempio per rendersi conto che in molti casi  ruoli, scrivanie, coinvolgimento sono necessariamente diversi. Sono realtà dove il sindacato non c’è o se c’è non interferisce quasi mai. Anzi. E allora dov’è il problema. Non c’è antisindacalità in tutto questo. C’è una proliferazione di modelli gestionali e organizzativi diversi dal tayolorismo che consentono di costruire un patto nuovo e diverso tra impresa, management e collaboratori. Dove si sa benissimo che si può essere licenziati l’indomani o che l’azienda può anche fallire e quindi conviene a tutti scambiare professionalità con formazione, crescita e contropartite che vanno oltre l’aspetto economico. Ovviamente non è cosí per tutti. È quindi c’è spazio per il welfare contrattuale che va consolidato e dotato di governance efficaci, c’è spazio per un sindacato moderno che non scambia per paternalismo il welfare della luxottica altrimenti non verrà compreso dagli stessi lavoratori. Ma se non vuole diventare un sindacato a cui ci si rivolge solo quando quel patto viene meno si deve prender atto che la fine del taylorismo e l’affermarsi di una cultura propria delle nuove generazioni che pretendono maggiore maturità nel rapporto di lavoro con più coinvolgimento, possibilità di crescita personale e meno burocrazia impone un salto culturale. Altrimenti il rischio non è che il sindacato scompaia ma che declini diventando, purtroppo, marginale.

Collaborare è meglio di partecipare…..

Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali  e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.

Manager sarà lei!

Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.