la visione uno non se la può dare…..

le trattative per il rinnovo di qualsiasi contratto sono un test interessante per misurare la presenza o meno della capacità di visione dei negoziatori. Il negoziato è, per sua natura, un compromesso e quindi giocano sicuramente un ruolo i rapporti di forza, il contesto generale e/o aziendale, la personalità e la stima che i rappresentanti assegnano alla propria controparte e anche la fiducia che ciò che si concorda sarà rispettato. Però in ogni negoziato si afferma sempre un senso, una direzione di marcia un elemento che rappresenta la ragion d’essere della trattativa: la capacità di inserire quegli obiettivi in una strategia credibile e riuscire a trasmetterla ai propri interlocutori. Fu così per la CISL negli anni 50/60 con la contrattazione articolata e poi dall’insieme dei sindacati confederali negli anni della svolta dell’Eur e dell’assunzione di forti responsabilità per arrivare poi fino alla concertazione. Poi il vuoto. Dall’altra parte fondamentalmente Confindustria e Confcommercio hanno creato due modelli in parte uguali per l’influenza del taylorismo, in parte diversi perché al centro delle negoziazioni di area Confcommercio il welfare contrattuale ha sempre avuto un peso rilevante dimostrando, in questo modo, una notevole capacità di visione. Visione presenti anche nelle controparti sindacali di quella fase storica. Ovviamente su Confindustria e sulle sue categorie ha pesato la necessità di reggere l’urto maggiore causato dai rapporti di forza in campo e quindi la necessità di difendere tout court le imprese. In quegli anni sono nati tra l’altro lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore, le leggi sulla sicurezza sul lavoro, la contingenza e il suo superamento, ecc. Tutti elementi che, nel bene e nel male, hanno segnato, per una generazione, un protagonismo è una partecipazione che ha avuto effetti positivi su tutta la società italiana. Cosa accumulava richieste e strategie era la visione di un futuro da condividere. Oggi non è più così. Sembra prevalere la navigazione a vista, il breve periodo, i tatticismi. Le richieste (un tempo si chiamavano piattaforme) sono mediocri. E tutte tese a mantenere ciò che c’è. Anzi. sembra più importante limitarsi a condizionare le richieste datoriali senza valutare se le stesse sono dannose per il futuro dei propri associati, inutili o potrebbero, nel tempo, provocare più problemi di quanti ne risolvano nel breve. E qui diventa evidente la mancanza di visione. Nessuno è disponibile a partire dal contesto. Azzerando ciò che va azzerato e costruendo un contenitore e naturalmente nuovi contenuti degni di reggere il medio/lungo termine. Da qui la crisi dei modelli contrattuali e la scorciatoia che oggi va per la maggiore che affiderebbe la soluzione al livello aziendale. Nessuna riflessione sulla nuova cultura necessaria, sugli strumenti, sui contenuti  e sul modello di sindacato piú idoneo ad affrontare quello che è un vero e proprio cambio di paradigma economico e sociale. Ha ragione Bentivogli quando dice che un Sindacato, pur unitario, senza una strategia non va da nessuna parte. Però temo sia poco ascoltato. E questo vale sia per il sindacato confederale ma anche per i piccoli sindacati o le associazioni  di nicchia. Un rinnovo contrattuale deve avere un soggetto, un cuore e un’anima. Un perché, innanzitutto. Non basta che sia scaduto. Questo poteva valere in passato. Oggi non è più sufficiente. Anche qui, la visione del futuro. O c’è o non c’è. E se non c’è non basta alzare la voce.

Nel 2050 ci saranno ancora le organizzazioni di rappresentanza?

In rete compare spesso questa domanda. In genere si parla di Confindustria soprattutto dopo il caso Fiat. Come tutto ciò che sa di ‘900 sembra destinato a restare alle nostre spalle. Ma è proprio così? Io credo di no. L’impresa da sola può fare molto. Può aprire, sottoscrivere un contratto, può affermarsi sul mercato. Può innovare, mettersi in rete, sviluppare il proprio capitale umano e può anche chiudere. L’impresa ha il suo ruolo sociale ed economico indipendentemente da tutto. Ma l’impresa da sola non va da nessuna parte. Non è in grado di proporre leggi che ne tutelino l’iniziativa indipendentemente dal colore del Governo, non è in grado di gestire le regole del gioco, non è in grado di muoversi, in assenza di precisi punti di riferimento, nelle filiere nazionali e globali. Quando l’impresa ha bisogno di uscire dal suo particolare deve saper individuare e trovare un livello che tuteli anche i propri interessi ma non solo quelli. Quindi le esigenze delle imprese intese come categoria sono aggiuntive e differenti. Confindustria ha rappresentato questa esigenza per tutto il 900. E continuerà a farlo anche in futuro. Potrà cambiare nome, mission, uomini, modalità di approccio ma l’esigenza di tutela politica ed economica resterà. È certo che le aziende singole possono lasciare l’organizzazione senza subire alcun contraccolpo. È successo anche per i sindacati dei lavoratori. Fino a quando qualcuno si è accorto che il loro peso organizzativo era irrilevante nelle imprese e, di conseguenza, è crollato anche il loro peso politico. Senza contrappesi una società si sfalda. Tra territori, generazioni, categorie economiche, interessi. In tutto il mondo questi contrappesi esistono. Forse sono in crisi di identità e di ruolo. Ma esistono. Non credo si trovino senza prospettiva. Siamo in una fase di transizione tra un paradigma economico e sociale che è finito e uno nuovo che non c’è ancora. Oggi la politica, l’economia, le religioni, i vecchi e nuovi player mondiali stanno ridisegnando ruoli, compiti e funzioni. In questo disorientamento generale si rischia sempre di gettare il bimbo con l’acqua sporca. Occorre avere chiaro gli interessi di lungo periodo delle imprese e del Paese e avere una visione del futuro coerente. Nel breve, purtroppo, hanno ragione tutti. Prevalgono gli esperti in scorciatoie. Ma non esistono soluzioni semplici per problemi complessi. Confindustria e le altre organizzazioni datoriali sanno di dover cambiare ma spesso i loro “cacicchi” locali non hanno alcuna intenzione di farlo e tendono a conservare la propria rendita di posizione. Fino a quando dura. Fortunatamente noi italiani siamo bravissimi ad avvicinarci all’orlo del baratro ma altrettanto bravi a non finirci dentro. Sarà così anche per le organizzazioni di rappresentanza.

Le delusioni e le opportunità di Raffaele Morese

Manca un ultimo passaggio, in corso presso le Commissioni parlamentari, per avere definitivamente come legge il Jobs act. Si tratta di validare nelle prossime settimane i decreti delega previsti dalla normativa generale già licenziata dalle Camere. Sarà un’ occasione per fare qualche aggiustamento ulteriore, ma la sostanza non cambierà. Il Ministro Poletti è molto contento (si è brindato al Ministero dopo l’approvazione, nei tempi previsti, da parte del Consiglio dei Ministri). Molto meno i destinatari con, ovviamente, tutte le sfumature del caso.

A parte quelli che la considerano una contro riforma, le delusioni non mancano. Su molti punti la discontinuità con il passato non è netta ( le Agenzie per i controlli ispettivi, per le politiche attive e per la salute e sicurezza nascono con il vizio del cerchiobottismo; il lavoro autonomo e professionale viene sfiorato e anche maldestramente; il lavoro dipendente sconta la persistenza di forme di flessibilità non aliene dalla catalogazione come “cattiva”). Su altri, non si è osato abbastanza, com’era nelle aspettative e anche nelle dichiarazioni iniziali del Governo (la questione dei disabili e quella delle pari opportunità). Infine, va detto che passano per adeguamento alla modernità, alcuni passi indietro nelle tutele individuali (controlli a distanza e demansionamento professionale).

Su tutti questi punti, troneggia il vuoto sulle politiche per la formazione. Ci si attendeva un grande rilancio dell’attività di orientamento sia per i giovani che per gli adulti verso l’educazione e ci si ritrova più o meno a ciò che già esiste. Con la differenza che sia il giovane in cerca di lavoro, sia il licenziato sulla base della nuova normativa, sia chi perde il lavoro e ne deve cercare un altro (la NASPI dura molto meno che la CIGS) si trovano meno tutelati di prima, perché non dispongono di strumenti efficaci e potenziati di politiche attive del lavoro.

Con un argomento non privo di fondamento, si è rinviato alla modifica costituzionale del Titolo V ogni ragionamento su questo versante. Ma resta il fatto che ora e chissà per quanto, l’Agenzia per le politiche attive non ha piena agibilità sul suo braccio armato, i centri per l’impiego, che vanno sotto la giurisdizione delle Regioni, mentre le politiche formative continueranno a svilupparsi ad “arlecchino” a secondo delle sensibilità delle Regioni. Da notare che in Germania, non solo funziona una potente Agenzia nazionale del lavoro (120000 addetti, contro gli 8000 in Italia) ma la formazione professionale è competenza esclusiva dello Stato. Evidentemente i conti tra Stato e Regioni sono stati per l’ennesima volta rinviati.

Ma ci sono anche opportunità che si sono aperte e non possono essere sottovalutate. Innanzitutto, che la riforma ha carattere di sistema e quindi prescinde dalle congiunture economiche. D’altra parte abbiamo sempre detto che l’occupazione non si fa con le norme, ma che queste servono per dare stabilità ad un sistema. Quello del nostro mercato del lavoro ha raggiunto livelli insopportabili di dualità e quindi di caoticità, proprio perché si sono succedute norme prodotte da valutazioni emergenziali o di breve periodo. Il Jobs act ha dalla sua il vantaggio di favorire un riaddensamento occupazionale attorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. I primi dati sull’andamento delle entrate e delle uscite dal mercato del lavoro sembrano confermare questa prospettiva. Svuotare le tante sacche di precarietà non risolve la questione della disoccupazione, ma almeno stabilizza maggiormente che in passato chi un lavoro ce l’ha.

Se, com’è auspicabile, nei prossimi anni si renderà strutturale la riduzione degli oneri previdenziali per i nuovi assunti, si potrà diminuire ulteriormente il ricorso a forme di flessibilità spurie e dare alla dualità del mercato una configurazione fisiologica e non patologica com’è stato finora. La discussione, dunque, si sposterà sulle politiche che si adotteranno sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo e professionale.

In secondo luogo, va apprezzato il rilancio del contratto di solidarietà come strumento principale di governo dei processi di ristrutturazione. La sua concreta incentivazione impegnerà le parti sociali a gestire con il consenso l’utilizzo di tutti i lavoratori nelle situazioni di scarsa produzione e ciò rafforzerà la tendenza a farsi carico dell’insieme delle persone. Si interrompe così una prassi consolidata di selezione del personale che, al di là delle buone intenzioni, tendeva a creare figli e figliastri. Per non dire che, anche sull’onda di una pratica diffusa dei contratti di solidarietà difensivi, si potrà discutere, con minore veemenza ideologica, della necessità di ridistribuire il tempo di lavoro in modo strutturale.

Infine, il Jobs act ripropone in positivo il ruolo del sindacato, innanzitutto nei luoghi di lavoro. Questo è decisivo, perché è lì che si dovranno trovare gli “n” equilibri tra crescita della produttività e benessere dei lavoratori, tra ottimizzazione della produzione e livelli occupazionali, tra scelte organizzative e di modernizzazione e consenso della gente. Il rilancio non è scritto come fatto formale. Non c’è nessuno inchino al potere di intermediazione del sindacato, nella legge. Ma prevedendo che l’occupazione confluisca prevalentemente attraverso il contratto a tempo indeterminato, sebbene a tutele crescenti, irrobustisce le basi dell’autorità sindacale, che potrà essere esercitata per l’insieme della popolazione occupata in quel luogo.

Non sono opportunità di poco conto, soprattutto se si tiene presente che è una riforma non perfetta ma anzi alquanto lacunosa. Sono queste potenzialità che, se adeguatamente gestite, potranno consentire quegli aggiustamenti e quei cambiamenti che ancora mancano per renderla apprezzabile appieno.