Pochi sanno dove si trova Susegana. È in Veneto, terra di lavoro duro scelta dalla multinazionale Eletrolux per costruire frigoriferi e per insistere nella ricerca di nuove relazioni sindacali. Recentemente ha messo a disposizione circa 26.000 metri quadrati inutilizzati per l’iniziativa, inaugurata da Zaia e dai sindaci delle 28 comunità locali coinvolte, degli orti solidali. Spazi nei quali si coltivano prodotti agricoli a disposizione della mensa e dei dipendenti in partnership con la Fondazione di Comunità della Sinistra Piave Onlus. Per le cronache è l’azienda che ha chiesto ai suoi addetti, uno per uno attraverso i capi, se fossero disponibili a lavorare il 15 agosto scavalcando le rappresentanze sindacali. In cento hanno detto si. Dunque ferragosto è, per loro, una normale giornata di lavoro. L’azienda non ha emesso un ordine di servizio, né fatto appello all’articolo 30 della legge Biagi. Nessuna forzatura. Ha messo a disposizione un incentivo economico e richiesto volontari. Questa operazione ha conquistato le prime pagine di molti giornali scatenando polemiche al calor bianco. Chi sono i 100? Eroi?, lavoratori disposti a cedere per un pugno di euro?, persone di buon senso che pensano al futuro della loro azienda? I titoli si sono sprecati. Lavorare al 15 di agosto è diventata una notizia importante. Mi immagino cosa penseranno, ad esempio, il milione di addetti del turismo che oggi lavorano, gli addetti ai musei, le forze dell’ordine, gli ospedalieri, i lavoratori della distribuzione, della logistica e dei trasporti. Oggi lavorano, a vario titolo, centinaia di migliaia di persone. Dipendenti, autonomi e imprenditori. E a questi andrebbero aggiunti quelli che vorrebbero lavorare ma non possono. E questo è quello che avviene in tutto il mondo. Che strano Paese è il nostro. In queste settimane alcuni tra i migliori giornalisti hanno contato con il pallottoliere quanti aderivano alla richiesta di lavoro volontario e ben retribuito a Susegana. Spero non invitino ai talk show alcuni tra gli “eroici” dipendenti per spiegarci le ragioni profonde della loro scelta. Questi cento hanno tolto dai guai tutti. I contrari al lavoro festivo che possono continuare a esprimere la loro contrarietà senza pagare dazio. I favorevoli che non dovranno evocare i rischi di delocalizzazione come spauracchio. Infine i cento che si prendono la maggiorazione. Nessuno si chiede cosa sta pensando in questo momento la casa madre di una multinazionale che si trova a dover elemosinare una presenza in fabbrica per produrre un frigorifero di alta gamma rischiestissimo dal mercato. Cosa pensa il vertice del gruppo Elettrolux di fronte alla classica soluzione all’italiana: lasciare al buon cuore dei singoli e non ad una capacità di gestione del sindacato interno ed esterno un picco produttivo che può ripetersi ovunque. È questo a pochi mesi da un sofferto accordo. È questo che mi preoccupa. Conoscendo come ragionano le multinazionali la soluzione trovata non è affatto soddisfacente ma segnala un problema di gestione in un Paese che, prima o poi, ritornerà come un boomerang sul tavolo di chi ha preferito non affrontarlo con responsabilità e coraggio. E allora saranno guai seri.
la contrattazione nella GDO ha un futuro?
le ultime vicende sindacali che hanno coinvolto diverse situazioni locali sono emblematiche di un contesto che cambia rapidamente non sempre compreso dagli attori in campo. Ha ragione Di Vico oggi sul Corriere a porre il problema. Nel comparto manifatturiero il sindacato viene puntualmente scavalcato dai lavoratori stessi chiamati direttamente o indirettamente dall’azienda in caso di picchi produttivi. Dalla vicenda FCA in avanti rare volte le imprese si sono fermate davanti alle prese di posizione di parte o di tutti i sindacati. E quando lo hanno fatto (vedi whirpool o altre) è stato per evidenti errori di gestione della vertenza. Diverso è il caso della GDO. Da un lato la disdetta del CCNL del terziario e la mancata sottoscrizione di un nuovo contratto specifico con Federdistribuzione evidenzia la debolezza reale del sindacato di settore. Lasciare oltre centocinquantamila lavoratori senza contratto dove le OOSS vantano il maggior numero di adesioni rispetto ad altri comparti del terziario è significativo di una difficoltà evidente di mobilitazione mentre dall’altro, la radicalizzazione di alcune vertenze (vedi IKEA) testimonia la difficoltà di dare uno sbocco credibile ad una vertenza che rischia di non portare ad alcun risultato concreto. Senza contare che in situazioni di tensione ben più significative e importanti (Carrefour, Auchan, BILLA, PAM) le stesse sono state gestite diversamente sia sindacalmente che mediaticamente. Ma cosa sta succedendo nella GDO? È chiaro che il vecchio modello contrattuale che si reggeva su un CCNL del terziario di basso costo integrato da una contrattazione aziendale aggiuntiva non regge più e non da adesso. Ha cominciato BILLA nel 2004 con la disdetta del contratto integrativo e poi via via si sono aggregate molte altre imprese con alterni risultati fino a quando Federdistribuzione, sbagliando, ha pensato di di poter imporre alle OOSS un CCNL estremamente vantaggioso per le aziende aderenti per rimediare ai costi e agli errori organizzativi che le singole imprese avevano commesso negli anni con lo scopo di mantenere la pace sociale al loro interno. Sbagliando, ovviamente, perché era del tutto evidente che le OOSS non avrebbero potuto sottoscrivere un CCNL diverso da quello del Terziario firmato poi con Confcommercio e senza tenere conto dell’altro CCNL firmato dalle COOP che operano anch’esse nella GDO con una presenza significativa. Napoleone diceva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati meno che sedersi sulla punta delle loro baionette”. In altre parole una strategia di imposizione che ha portato l’intero comparto aderente a Federdistribuzione su di un binario morto. Questa situazione, sommata alle esigenze specifiche delle singole imprese, ha determinato la crisi delle relazioni sindacali impedendo quel salto di qualità necessario che, al contrario, ha trovato uno sbocco nella firma del CCNL del terziario con, ad esempio, la possibilità di derogare in pejus a fronte di esigenze specifiche. Personalmente credo che occorrerebbe partire dal contratto nazionale appena firmato da Confcommercio.. Pensare di sostituire la contrattazione nazionale con quella aziendale o di settore nel comparto dei servizi è un errore. Lo è perché, con la cultura attuale, assegnerebbe esclusivamente ai rapporti di forza il risultato. Lo si è visto nel passato a favore dei sindacati interni e esterni e lo si può vedere oggi a favore delle imprese. E lasciare ai rapporti di forza il risultato in un contesto dove non c’è una consapevolezza ed un riconoscimento reciproco stabilizzato e neppure una storia di relazioni sindacali costruttive porta a situazioni ingovernabili. Senza questa consapevolezza il settore scivolerà sempre più verso un modello di sindacato corporativo tipo quello dei centri della logistica e dei trasporti dove il sindacalismo confederale è stato stravolto è costretto ad inseguire i Cobas e le aziende non ne hanno tratto alcun vantaggio concreto. Per questo l’invito di Di Vico a ragionare su un nuovo modello di relazioni e regole del gioco è importante. Serve però la consapevolezza che occorre andare oltre agli attuali rapporti di forza e saper guardare lontano. Negli anni 70 quando i rapporti di forza erano favorevoli ai sindacati è nata la cultura della bilateralità. Forse oggi occorrerebbe fare un passo avanti e costruire una nuova cultura della collaborazione che significa condividere necessariamente momenti negativi (non subirli e basta) accettando i ridimensionamenti e i tagli necessari ma, contemporaneamente, creando le premesse per assicurarsi i benefici appena la stabilizzazione del mercato lo renderà possibile. Solo in questo modo può crescere una nuova consapevolezza. Ovviamente bisognerà avere la capacità di comprendere che sacrifici e benefici non possono essere per sempre. Dovranno avere una durata temporale accettabile e condivisa. Per questo il CCNL del terziario non può che essere il punto condiviso unico per tutto il comparto prevedendo semmai specificità, deroghe e condizioni particolari per coloro che decidono di adottarlo. Pensare che il percorso inverso sia praticabile e trovarsi alla fine con tre o quattro contratti nazionali solo nella GDO sarebbe un errore. Per non commetterlo occorrono imprese e sindacati che guardano avanti con maggiore fiducia nel futuro ma anche di rispetto dei rispettivi ruoli. Oggi più che mai.
Etica e Sindacato: occorre separare il grano dal loglio.
il dibattito sul reddito di alcuni sindacalisti che si è scatenato in rete in queste settimane sta portando con sé diverse interessate strumentalizzazioni. È singolare come alcune professioni siano più esposte di altre al pubblico ludibrio. Politici, sindacalisti e a volte lo stesso clero scontano sempre generalizzazioni semplicistiche ogni volta che uno o più esponenti di quei mondi viene coinvolto in scandali o comportamenti eticamente discutibili. Sembra che non esista responsabilità individuale. Ogni volta è l’intera categoria che deve difendersi o subire una condanna complessiva quanto generica. Non succede per i medici, i giornalisti, gli avvocati o per i giudici e neanche per i manager per citare alcune categorie spesso soggette a critiche causate da comportamenti non sempre irreprensibili. La prima giustificazione è che alcune professioni sono considerate da una parte dell’opinione pubblica, eticamente importanti e quindi chi vi accede deve essere diverso, unico, superiore. Se, per certi versi è comprensibile per il clero, per le altre c’è molta strumentalità in questa visione. Politici e sindacalisti sono spesso oggetto di critiche a prescindere e, nella scala di gradimento popolare, non occupano quasi mai i primi posti. Per certi versi godono di pessima fama. E allora perché accanirsi quando viene alla luce un comportamento individuale scorretto? E soprattutto, perché i più incarogniti accusatori sono coloro i quali non nutrono alcun rispetto a prescindere per queste professioni? La prima riflessione che mi sento di fare è che c’è un mondo mediocre che non ama chi fonda il proprio agire sull’etica. Essere onesti e disponibili verso gli altri, pensare al bene comune, cercare di perseguirlo, impegnarsi ben oltre ciò che il corrispettivo economico consentirebbe è sempre visto con sospetto. Chiunque abbia frequentato sindacalisti, preti o politici seri si rende conto che la stragrande maggioranza è gente per bene. Soprattutto che si è orgogliosi di averli come amici. Sono persone speciali, uniche che ti trasmettono una grande serenità e fiducia nel futuro. Sono un grande antidoto al pessimismo della ragione. Spesso lontani mille chilometri dalle piccole miserie con cui ciascuno di noi, comuni mortali, deve confrontarsi quotidianamente. Disponibili, seri, pronti a darti una mano. A volte ingenui, sinceramente scandalizzati di fronte alle piccole e grandi ingiustizie di tutti i giorni alle quali noi siamo purtroppo rassegnati. Una cosa che mi dispiace è proprio questa volontà dei mediocri di voler gettare sempre il bambino con l’acqua sporca. Questa incapacità di rispettare le persone per bene e generalizzare sempre comunque. Mi immagino come si sentano in questi giorni decine di migliaia di sindacalisti di base dentro e fuori i luoghi di lavoro additati da giornalisti trasformati in giudici improvvisati o da intellettuali che fanno della provocazione il loro stile improvvisamente accumunati a chi sa muoversi con disinvoltura incollato alla propria poltrona da anni. Poche mele marce nella cassetta ma sufficienti a costruire un’opinione sulla qualità di tutte le mele. Lo stesso discorso vale per i preti pedofili o per i politici disonesti. A chi giova distruggere ciò che di buono c’è nelle professioni che fanno dell’impegno sociale, politico o religioso un punto distintivo forte? Io credo che occorra indignarsi sicuramente nei confronti dei disonesti ma avendo ben chiaro la differenza tra il grano e il loglio. Poi servono, ovviamente, i regolamenti, i codici, le espulsioni e le condanne perché le prediche non bastano e i disonesti non devono mai avere il sopravvento. Né il “così fan tutti.” Ma occorre anche avere il coraggio del rispetto. Con molti sindacalisti e politici onesti mi sono confrontato e mi confronto tutti i giorni. Spesso abbiamo opinioni e visioni differenti nel merito dei problemi ma il rispetto per chi sceglie di impegnarsi con gli altri e per gli altri, per quanto mi riguarda, non viene mai meno.
Londra H 24 un futuro auspicabile?
lo scontro tra sindacati e amministrazione locale a Londra va ben oltre il problema del funzionamento notturno della metropolitana. C’è in gioco un’idea di futuro della città e del modo di vita occidentale. Una città in funzione h24 e Londra si propone come modello di riferimento. A prima vista è un modello che può piacere. Chi non vorrebbe avere tutto e subito? Una città in grado di offrire ogni cosa è di permettere di viverla a ciclo continuo ha certamente un suo fascino. È facile prevedere che scenderanno in campo molti sostenitori di questa ipotesi con buoni argomenti provocando un dibattito dove sarà difficile distinguere le rispettive buone ragioni riuscendo contemporaneamente a separarle dagli interessi generali di breve e di lungo periodo. Ma cosa c’è dietro una città che funziona h24? Prima di tutto una organizzazione del lavoro delle attività della città completamente diverse, una sorta di ciclo continuo che coinvolge tutti, servizi privati e pubblici da ridisegnare su chi dovrà lavorare dunque più occupati, non necessariamente professionalizzati. E qui sorge un primo problema. Da un lato ci sarà chi può permettersi di vivere e lavorare in orari decenti non mettendo in gioco i suoi e i cicli biologici dei suoi cari, dall’altro una massa notevole di persone che per vivere dovranno adattarsi alla nuova realtà mettendo in gioco il proprio sistema relazionale e familiare, la propria salute e il proprio reddito. Chiunque abbia mai lavorato nei turni di notte può capire la portata del problema solo da questo punto di vista. Un secondo problema è rappresentato dalla necessità di riorganizzare i servizi per chi lavora: trasporti, welfare, asili, scuole, ecc. a meno che non si pensi che che questo sia un problema da mettere in carico agli individui coinvolti. In questo caso nascerebbe la necessità di creare un mercato del lavoro estremamente povero aperto a immigrati e poveracci indigeni disposti a tutto pur di avere un reddito. Cioè un modello sociale darwiniano dove i più forti sopravvivono decorosamente e gli altri saranno costretti ad arrangiarsi. Quindi una messa in discussione radicale dei diritti e delle conquiste sociali del ‘900. Un terzo problema è rappresentato dalle regole della concorrenza soprattutto nei confronti delle attività commerciali. I piccoli esercizi se non saranno costretti a chiudere dovranno lavorare prendendo come modello gli asiatici che tengono aperte le loro attività senza garantire alcun particolare standard di servizio europeo. Infine la qualità della vita. Nelle famiglie, nei quartieri e nella città. Ottima per turisti, ovviamente meno per i residenti. Quindi ci si orienterà verso quartieri riservati a chi potrà permetterselo e gli altri si arrangeranno. Una bella prospettiva, mi sembra. Manzoni diceva:”non tutto ciò che viene dopo è progresso.” Mi sa che aveva ragione..
Il 900 è alle nostre spalle?
se c’è una cosa chiara dopo la vicenda che ha coinvolto la Grecia è che debito e democrazia sono diventativun ossimoro. Puoi fondare nuovi partiti, puoi protestare come ti pare ma in una economia globalizzata e interdipendente prima paghi i tuoi debiti e poi, nel mondo, qualcuno forse ascolta la tua opinione. È questo non vale solo per la Grecia. Ovviamente questa affermazione rende necessario un profondo lavoro di riscrittura di ciò che è indispensabile per ricostruire un patto di convivenza tra popoli e tra comunità. Io non temo l’esplosione di localismi o l’affermazione di movimenti demagogici. Lo do per scontato. Come do per scontato che una loro eventuale vittoria in un Paese termina un secondo prima o un secondo dopo l’ affermazione elettorale. Alla prova di Governo il meccanismo è comunque destinato ad incepparsi. Come in Grecia. Credo oggi si possa sempre più parlare di una entità politica ed economica sovranazionale che governa, attraverso il debito e le regole che lo governano, i singoli Paesi decidendone la crescita o il declino, costringendo chi democraticamente li dirige a politiche compatibili con quanto deciso altrove e rendendo inutili filosofie, istituzioni e pratiche costruite nei secolo precedente.. Il declino delle politiche nazionali parte da qui. Non è un caso che Mario Draghi messo di fronte alla scelta tra fare il Governatore della BCE o il Presidente della Repubblica in Italia non ha avuto il minimo dubbio nel restare dov’è. A quel livello, come nelle multinazionali, la nazionalità non conta nulla. Contano le competenze e l’accettazione di valori e filosofie tipiche di quella cultura. Il punto quindi non è ratificare la subalternità di un popolo all’altro come sembrano propendere oggi i media. Secondo me non c’è una supremazia tedesca. C’è una supremazia economico finanziaria sul mondo che in Europa è garantita dalla Germania per le sue politiche compatibili con quella visione. Ma anche la Germania deve sottostare alle regole che il suo apparato economico e finanziario ha contribuito a scrivere. Quindi il problema è di tutti. E se fosse così non è sufficiente votare un partito o un movimento per cambiare verso. Tutto ciò che va in quella direzione trova consenso nel mondo economico finanziario mentre ciò che non risponde a quei requisiti porta al declino e quindi all’intervento esterno, diretto o indiretto. Da questo ne discende che tutti i tentativi messi in atto per uscire soli o in compagnia da queste regole sono destinati al fallimento. Se continuiamo a pensare con la testa nel 900 rischiamo di ridurre il tutto ad uno scontro tra ultra liberisti e keynesiani, quindi affrontabile politicamente o elettoralmente.vChi pensa questo è convinto che esploderanno conflitti nazionalistici o localismi e che questo farà cambiare la politica nei singoli Paesi. Io credo che tutto questo non avverrà fino a quando ci saranno Paesi indebitati e subalterni e quindi impossibilitati ad avere una strategia credibile in altri Paesi dove, anche se vincessero forze disponibili al cambiamento, si troverebbero a dover spiegare al proprio elettorato appena conquistato con promesse demagogiche che è giusto in un mondo globalizzato sacrificarsi per i vicini o rinunciare all’uovo oggi in vista di una ipotetica gallina domani. La crisi della socialdemocrazia europea in fondo nasce da qui. Se sviluppa una politica progressista perde i voti, se si sposta al centro si snatura. Ed è lo stesso motivo per cui la destra è destinata a vincere molte battaglie ma a perdere la guerra perché è costretta a spostarsi sempre più a destra entrando anch’essa in conflitto con l’establishement. Quindi continuerà un processo di omologazione economica, politica e sociale in atto. Se così fosse a noi non resta che continuare sulla strada intrapresa per recuperare quella credibilità internazionale che non possiamo avere in questa situazione. Rimettere a posto i nostri conti utilizzando il massimo di flessibilità che i nostri partner ci consentiranno di utilizzare. Sul versante negativo abbiamo sul nostro territorio le tre principali organizzazioni criminali mondiali, uno dei più alti debiti, una parte importante del Paese, il sud, messo peggio della Grecia e un’altra parte, il nord in grado di integrarsi rapidamente con il mondo se marciasse da solo. Sul versante positivo abbiamo oltre quattro milioni di imprenditori, la seconda manifattura d’Europa, un Paese affascinante da rilanciare nel mondo e oltre al Made in italia e alla creatività che tutti ci invidiano, una capacità di resistenza e di adattamento fondamentali nelle fasi di cambiamento. Dovremmo poter contare su qualcuno che parla chiaro al Paese e su uno sforzo di convergenza tra “gli uomini di buona volontà” presenti in tutti gli schieramenti politici. Solo così guadagneremo la possibilità di dire la nostra. Non sarà molto in un mondo globalizzato e interdipendente ma è certamente la base per poter avere il tempo di ricostruire quei punti di riferimento che nel 900 erano chiari e che oggi non esistono piú.
Lobby e buona politica
questa idea che la rappresentanza e/o la tutela degli interessi collettivi siano sempre e comunque negativi o forieri di conservazione la trovo inaccettabile. È vero che nel nostro Parlamento e nel Paese agiscono e intervengono lobbies e lobbisti che hanno come unico scopo quello di favorire interessi particolari. E su questo è giusto intervenire con una regolamentazione chiara che eviti abusi. Detto questo però non è possibile far passare l’idea che tutto ciò che è difeso dalle organizzazioni di rappresentanza (datoriali, sindacali, associazioni, ecc.) sia assimilabile alle lobbies. Non è così. Battersi contro la liberalizzazione totale degli orari è una battaglia di progresso o di conservazione? In tutta Europa esiste una regolamentazione sulle aperture dunque sono conservatori pure loro? La battaglia contro la desertificazione dei centri storici e quindi contro le licenze facili all’insediamenti dei centri commerciali è stata sempre vista come una lotta anti moderna. E adesso che abbiamo desertificato i centri storici delle medie città del nord e abbiamo in crisi i centri commerciali sorti nel frattempo come funghi dove sono i sostenitori della modernizzazione a vanvera che hanno imperversato sui quotidiani negli anni scorsi? E allora non facciamo di ogni erba un fascio. Ci sono liberalizzazioni utili e altre meno altre addirittura sono dannose. Abituiamoci a distinguere le une dalle altre. Le farmacie, ad esempio, sono un’altro film. Hanno accettato di buon grado di trasformarsi negli anni in piccoli supermercati del benessere e della salute e adesso non possono lamentarsi se i supermercati propongono prodotti prima presenti solo nelle farmacie. Così vale per molte altre situazioni. Quali sono gli interessi dei cittadini e chi deve tutelarli? Alesina e Giavazzi sembra propendano per una democrazia diretta. Solo i cittadini sono in grado di difendersi dalle lobbies. Io non credo. basta andare ad un’assemblea di condomino per rendersi conto di come si muove la società civile allo stato brado…. Esistono le associazioni, i sindacati le organizzazione di rappresentanza che servono anche a questo. Ce ne sono di tutti gli orientamenti e quindi possono e debbono intercettare le esigenze dei loro rappresentati e difenderle. Alla politica il ruolo di mediazione. Oggi sembra un’utopia. Ma se non ritorniamo a dare importanza alla democrazia delegata e quindi al ruolo delle organizzazioni di rappresentanza non arginiamo le lobbies. Le aiutiamo e basta.
un passo avanti e due indietro
l’endorsement alla proposta Cisl sulla riforma della contrattazione di Di Vico non mi convince. Dal punto di vista del metodo non credo sia utile continuare a spingere sulle divisioni sindacali sperando di trascinare la Cgil o puntando ancora ad accordi separati tra organizzazioni datoriali e sindacali. Quella stagione si è fortunatamente conclusa e non ha nessun senso riaprirla. Anche perché, è bene sottolinearlo, la deriva identitaria e la stagione delle divisioni hanno prodotto guasti sia sulla qualità dell’iniziativa sindacale complessiva ma anche sul necessario rinnovamento dei gruppi dirigenti e della loro capacità propositiva. Landini, che piaccia o meno, è uno dei tanti sottoprodotti della stagione delle divisioni. Nel contenuto dell’articolo non condivido definire comunque quella proposta una buona base di discussione. Sul primo punto. La CGIL e le sue categorie sono impegnate in uno sforzo di rinnovamento, ringiovanimento e sburocratizzazione che dovrebbe trovare maggiore attenzione negli osservatori e nei media. L’attuale segreteria confederale è impegnata concretamente in una battaglia vera sulla natura e sulle prospettive del sindacato e, il radicamento sociale e la sua concreta e certificabile rappresentatività, meriterebbero maggiore rispetto. Anche da parte del nostro Premier che, sottovalutando il ruolo e il peso delle organizzazioni di rappresentanza, riesce in una missione impossibile: non prendere minimamente in considerazione la Cisl e le sue aperture con conseguenze immaginabili e non comprendere la differenza tra la Cgil i suoi dirigenti e i suoi militanti rispetto alla minoranza del suo partito. È vero che può esserci maggiore sintonia con loro su alcuni punti programmatici rispetto alla visione blaeriana di Renzi ma è altrettanto vero che sono mondi diversi. L’insofferenza di molti importanti dirigenti politici della minoranza PD nei confronti della Cgil è cosa nota. Non capirlo è un errore. Inseguire l’altrui elettorato dando per scontato che il proprio non abbia alternative è possibile; pensare però che gli iscritti alla Cgil siano sempre e comunque parte del proprio elettorato è un errore. Lo è sempre stato, con tutte le delusioni del caso, per chi ha pensato di uscire dal sindacato portandosi appresso un pacchetto di voti “sicuri” ma inesistenti e lo sarà per chi pensa di poterne fare comunque a meno. Pesi e contrappesi in una società complessa sono importanti. Sottovalutarli è sbagliato ancorché inutile. È vero che anche in altre confederazioni o categorie ci solo segnali di nuovi approcci e c’è forse maggiore velocità di cambiamento (vedi ad esempio l’idea del sindacato dell’industria nella Cisl) ma il processo di sburocratizzazione in corso nella Cgil andrebbe considerato con maggiore attenzione. Nel merito posso condividere che, la presenza di una proposta da parte Cisl, è di per sé un fatto positivo. Ma è il contenuto che non mi convince perché non affronta la ragione principale alla base della crisi del sistema contrattuale italiano. Il punto centrale è la rigidità del sistema attuale che si fonda su un modello statico, sia esso centrale o aziendale, basato su diritti acquisiti che si mantengono inalterati nel tempo anche quando i tempi cambiano e centrati su un modello organizzativo collettivo e tayloristico. Qualsiasi riforma che non parta dalla revisione della struttura del salario, dalla modificabilità delle condizioni in rapporto all’attività concreta svolta dal lavoratore, alla reversibilità di tutto ciò che viene contrattato all’interno di una durata certa, al legame con l’andamento aziendale, a sgravi fiscali mirati, e ad un consolidamento del welfare contrattuale è destinata a produrre poco. Non dimentichiamo mai che la contrattazione aziendale è un fenomeno sostanzialmente irrilevante sul totale delle imprese. E quindi non può reggere, soprattutto di questi tempi, un operazione che rischia solo di aggiungere costi e vincoli alle imprese. e questo non credo sia una buona cosa, soprattutto non credo sia praticabile.
ISTAT, la cruda realtà e una possibile risposta
è in atto una modesta ripresa senza sostanziale occupazione aggiuntiva. Occorre farsene una ragione perché solo così si potranno individuare risposte concrete. L’articolo di Di Vico oggi sul Corriere conferma i dati usciti dall’istat e smentisce l’ottimismo di chi, dall’inizio dell’anno, un mese annuncia il successo del jobs act e il mese successivo non sa bene cosa dire. Dovrebbero tutti darsi una calmata altrimenti alla confusione seguirà una caduta di credibilità che colpirà tutti: ottimisti, pessimisti e commentatori. Un dato mi sembra chiaro: non c’è alcun incremento sostanziale dell’occupazione. Continuo a pensare che l’esigenza di disegnare un percorso credibile e la necessità di ottenere immediatamente dei risultati importanti non si sposano facilmente in nessuna situazione tanto meno in un contesto economico e sociale come il nostro e quindi l’invito alla cautela è sempre necessario. Il Jobs act rappresenta una risposta tattica ad una difficoltà concreta: impostare una strategia di lungo periodo. È certamente un metamessaggio rivolto al mondo sulla nostra volontà di fare determinate riforme, è un segnale inviato alle imprese soprattutto quelle che hanno bisogno di lavoro tradizionale, è un messaggio rivolto a quella parte della società che vuole crederci perché sente aria di ripartenza, è un messaggio alla politica e ai sindacati. È un messaggio che costa caro in termini economici ma, è evidente, che non può essere la soluzione del problema. La soluzione sta nella ripresa economica sulla quale però pesa il ragionamento presentato da Di Vico oggi è cioè che siamo di fronte ad una parziale ripresa di un ciclo economico probabilmente senza alcuna ripresa occupazionale. O con modeste risposte sul piano occupazionale. Questo impone necessariamente la riflessione e la definizione di approcci diversi. Susanna Camusso parla della necessità di un “piano per il lavoro”, Pierre Carniti, tempo fa, aveva proposto una leva civile europea per il lavoro dei giovani, altri autorevoli punti di vista hanno parlato di edilizia, lavori pubblici, salvaguardia del territorio, ecc. Domenico de Masi invita a partire da una lotta decisa dello Stato contro la criminalità organizzata e con un grande progetto formativo come pilastri indispensabili per rilanciare il sud. Opinioni certo scollegate tra di loro. Personalmente mi domando perché non si ha il coraggio di lanciare una grande iniziativa di confronto aperto a tutti nel Paese. Una conferenza nazionale sull’occupazione che coinvolga le nostre migliori teste e che affronti il tema da tutti i punti di vista e elabori proposte praticabili. Una sorta di chiamata in campo costruttiva, propositiva, utile. Un contributo alla solitudine del Governo costretto a mosse tattiche in mancanza di una strategia condivisa dal Paese. Per una volta la politica inconcludente, i benaltristi, gli oppositori di principio, i legulei e tutta la compagnia di giro del non per il no lasciamoli a casa. Condividiamo le nostre migliori proposte e spingiamo tutti nella stessa direzione. I dati, purtroppo, parlano chiaro. Non abbiamo molto tempo da perdere e le risorse da dedicare sono poche. Per una volta, fidiamoci della nostra capacità di collaborare e di costruire.
Sindacalisti, fate qualcosa!
l’accorato appello di Antonio Padellaro dalle colonne del Fatto Qutidiano sembra aver sortito l’effetto di una sveglia. Già tre autorevoli risposte (Susanna Camusso, Maurizio Landini e Marco Bentivogli) hanno presentato tre punti di vista autorevoli sulla crisi del sindacalismo italiano e sulle possibili risposte. Da un lato non è possibile non registrare che c’è una consapevolezza evidente sulla crisi di ruolo che stanno attraversando tutte le organizzazioni di rappresentanza siano essere datoriali che sindacali. La globalizzazione, la transizione economica e sociale in atto e la mancanza di luoghi di mediazione e/o di redistribuzione efficaci rendono difficile l’iniziativa a tutti i livelli. Inoltre il continuo processo di disintermediazione e la nascita di movimenti politici e sociali trasversali riducono certamente lo spazio di manovra. Infine la deriva identitaria e la crisi del rapporto tra partiti e sindacati determina una schizofrenia nei comportamenti e nelle scelte che incide sulla militanza e sulla strategia dei differenti soggetti. Ultimo ma non ultimo la difficoltà per un semplice lavoratore giovane o meno giovane di comprendere se le differenze e le contrapposizioni manifestate dai più siano tali da giustificare la debolezza dell’iniziativa. Qualche decennio fa forse era più semplice: Obiettivo, lotta, risultato. Ma oggi, pur su obiettivi minimi e spesso di buonsenso, non c’è né lotta, né risultato. O, per dirla meglio, la distanza tra l’intenzione è la realtà è troppo ampia. Spesso la definizione dell’obiettivo stesso è materia complessa e macchinosa. Se prendiamo ad esempio il recente rinnovo del CCNL del Terziario non possiamo non registrare che la mancata applicazione dello stesso da parte di molte aziende aderenti a Federdistribuzione avviene nel disinteresse generale. Quasi duecentomila lavoratori senza contratto in aziende strutturate e con una discreta presenza sindacale senza un welfare decente e senza adeguamenti salariali ottenuti e operativi in altre aziende simili pur in realtà prive di una presenza sindacale significativa. È un paradosso, ovviamente. Come uscire da questa situazione? Personalmente credo alla necessità di un approdo legislativo sia sulla rappresentanza che sulle regole del gioco. Lasciare alle parti la materia, cioé ai rapporti di forza in campo, è roba di altri tempi. Mi ricordo il dibattito nel sindacato negli anni ’70 sull’esigenza o meno della legge 300. Oggi nessuno nega, nel sindacato, l’importanza che quella legge ha avuto per la crescita stessa della presenza sindacale nel tessuto produttivo e sociale del Paese. Ovviamente le regole senza una strategia servono solo a creare una nuova burocrazia. Ed è su questo che può e deve riprendere un rinnovato cammino unitario evitando che, la deriva identitaria, continui a produrre i suoi frutti nefasti. Segnali positivi ce ne sono in quasi tutte le organizzazioni e nelle rispettive categorie. Camusso e Bentivogli hanno indicato alcune piste possibili. Non ancora convergenti ma possibili. Ed è un buon passo in avanti. Landini vada pure per la sua strada e per salotti televisivi. Si perderà nel labirinto dei distinguo della micronesia leaderistica dell’estremismo inconcludente. Nei corsi aziendali c’è un detto crudo che rende bene la situazione: quando la velocità del contesto esterno è superiore a quella del contesto organizzativo interno la fine è cominciata. Forse è una profezia esagerata o forse vale solo per le aziende non per le grandi organizzazioni di rappresentanza. È sicuramente un’affermazione forte ma, credo, non possa non essere un elemento di riflessione vero all’interno delle organizzazioni stesse.
lo sciopero è “solo” un diritto?
ovviamente c’è la Costituzione e quindi parliamo di un diritto particolare, giustamente tutelato per le sue implicazioni sociali, politiche e di conseguenza giuslavoristiche. Ma non è questo il punto. La garanzia costituzionale era ed è necessaria a tutela di un diritto che dovrebbe consentire la maggiore simmetria sociale possibile tra imprenditore e lavoratore. Almeno così era nelle intenzioni degli estensori di quell’articolo. Poi in quel diritto si sono infilati ben altre tipologie di attività, soggetti e situazioni che nulla avevano a che fare con uno strumento a disposizione del più debole trasformandolo in un diritto di chiunque esercitabile comunque. Nel tempo il legislatore, i parlamenti e i sindacati confederali hanno via via partorito codici di regolamentazione o di autoregolamentazione che ne hanno fortemente ridimensionato l’esercizio trasformandolo, di fatto, da un diritto individuale (pur sempre in vigore) in un diritto collettivo con regole e modalità tutto sommato accettabili. Purtroppo tutto questo non poteva reggere in un contesto di proliferazione di sigle sindacali, migrazioni tattiche tra una sigla è l’altra al solo scopo di mantenere privilegi individuali e perdita di consenso e di potere da parte delle grandi organizzazioni confederali. Nel settore privato questa situazione ha avuto scarsi effetti concreti salvo forse in settori particilari come i trasporti e la logistica. Nel pubblico, al contrario, la proliferazione delle sigle sindacali ha portato alla situazione odierna. Generalmente queste sigle si limitano alla proclamazione dello sciopero per costringere il potere pubblico locale o nazionale ad una risposta ma, la mancanza di risorse e di interlocutori in grado di rispondere, l’acuirsi di tensioni dovute al procrastinarsi dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, la concorrenza stessa tra sindacati spesso degenera in situazioni di grave difficoltà. Se tutto questo però fosse limitato alle sole dinamiche costituzionali costituirebbe un problema sociale e politico limitato all’esercizio di un diritto. Favorevoli e contrari si potrebbero confrontare per giorni senza venirne a capo così come è stato fino ad oggi dove la destra accetta di buon grado lo sciopero di professionisti e/o di categorie particolari ma si indigna se lo stesso diritto viene messo in campo da categorie tradizionalmente deboli, mentre la sinistra non si indigna se lo sciopero viene utilizzato dalle categorie di cui sopra per reazione pavloviana all’esercizio di un diritto ma ne difende sostanzialmente l’esercizio per tutte le altre categorie. Ma non è questo il punto. Il punto è se terzi, cittadini, turisti, malati, viaggiatori, consumatori, debbano subire un danno senza averne alcuna responsabilità né possibilità di intervento. In altre parole se l’esercizio di un diritto può provocare danni a terzi che vengono trasformati in ostaggi di vicende a causa delle quali viene messo in discussione un loro diritto altrettanto importante. E allora che fare? Una via passa certamente dalla regolamentazione del diritto di sciopero estendendo ad altri settori la definizione delle modalità di proclamazione ed effettuazione delle agitazioni, la possibile precettazione, l’addebito di eventuali danni agli individui o ai sindacati che non rispettano le regole e quindi puntare a norme che riducano il rischio per gli eventuali terzi anche se questo non è assolutamente sufficiente. Lo abbiamo visto: un’assemblea in un’ora “strategica”, un ricorso ad assenze improvvise, una migrazione da una sigla all’altra provoca simpatie, opportunismi e via discorrendo che lasciano al palo le buone intenzioni. Occorre fare altro. Definire regole che impediscano la proclamazione di scioperi non preceduti da referendum con quorum significativi e che non lascino mai nelle mani di pochi la decisione, sanzioni pesanti per i trasgressori, precettazione automatica nel caso di rischio di danni indiretti, possibilità di sottoscrivere contratti e accordi limitati ai sindacati maggiormente rappresentativi che rispondono delle loro azioni o dei mancati controlli. Un vecchio sindacalista diceva:”l’unica regola valida per evitare che uno sciopero produca danni è non farlo”. Forse è vero. È certo però che la situazione sociale non sta migliorando e quindi dobbiamo prevedere una recrudescenza di questi fenomeni. Il problema è che avverranno in un contesto di minore credibilità e maggiore debolezza delle grandi organizzazioni sindacali. E questa debolezza, prima o poi lo capiremo tutti, non è un bene per il Paese. Per questo chi ha responsabilità politica di governo dovrebbe evitare continui processi di delegittimazione o di sottovalutazione di questo aspetto della vita democratica del Paese. Prima che sia troppo tardi.