La recente presentazione del nuovo Fondo Sanitario di Confcommercio rilancia l’impegno e la presenza di una delle più importanti organizzazioni di rappresentanza in un segmento fondamentale del welfare nel nostro Paese. Nel mese di dicembre una iniziativa, altrettanto importante, promossa congiuntamente da Confindustria e Confcommercio ha presentato una proposta di costruzione di un secondo pilastro sanitario integrativo. Segnali chiari di un rinnovato impegno laddove le principali confederazioni datoriali sono già presenti, insieme alle organizzazioni sindacali di riferimento, nei fondi contrattuali per dirigenti e dipendenti. Oggi la spesa sanitaria pubblica rappresenta il 6,9% del PIL, l’obiettivo al 2019 è di abbassarla al 6,5%. Il grado di sostenibilità finanziaria del sistema sanitario va riducendosi per una serie di fattori (demografia, domanda sociale crescente, innovazione in ambito sanitario, farmaceutico e tecnologico, riduzione spesa pubblica) mentre cresce la spesa privata che oggi è di circa 30 miliardi di euro (senza dimenticare un sommerso che viene stimato in circa 15 miliardi) e, infine, i 9 miliardi a carico delle famiglie per l’assistenza alla non autosufficienza. Questi dati dimostrano in modo inequivocabile l’importanza di un secondo pilastro efficiente e integrativo con indubbi vantaggi sia per il cittadino che per lo Stato. I fondi sanitari, oggi, intermediano 4/5 miliardi di spesa e assistono circa sette milioni di italiani ma, ispirandosi agli stessi principi del sistema sanitario nazionale (equità e universalismo), ne costituiscono indubbiamente lo strumento più idoneo a completare il sistema. Al di là del fatto che la salute è un bene primario irrinunciabile e inestimabile e che tutti devono essere messi in condizione di potersi curare, un secondo pilastro forte consentirebbe indubbiamente un recupero di gettito sulla spesa sanitaria non tracciata, un sistema più efficiente, una maggiore educazione del cittadino alla spesa stessa e, ultimo ma non ultimo, vantaggi economici complessivi a saldo positivo. Lo strumento del fondo in autogestione consente di redistribuire le risorse integralmente agli assistiti senza dispersioni derivanti dalla remunerazione dell’azionista e della struttura commerciale e distributiva, voci che costano molto nell’ambito dei processi e dei prodotti assicurativi. Così come la possibilità per tutti di accedervi. Infatti, in queste proposte, non sono previsti vincoli né per l’età né per lo stato di salute degli iscritti. L’assunzione del rischio è “governata” basandosi su analisi statistico-attuariali in grado di evidenziare ex ante se lo schema che si gestisce è sostenibile o meno. Per questo motivo il controllo di organismi sul modello della Covip non solo è auspicabile ma potrebbe anche essere utile mettere, a disposizione del legislatore, l’esperienza maturata dai fondi già operativi sia sul tema della sostenibilità, del monitoraggio tecnico che della gestione degli investimenti. Sanità e previdenza integrativa rappresentano due priorità importanti nella costruzione del nuovo welfare. Così come è importante che a questo ripensamento partecipino, con un ruolo da protagonista, le organizzazioni di rappresentanza.
Boeri? Preferisco i Mon Cheri.
Oggi non è popolare difendere i redditi medio alti. Esiste una convinzione diffusa che tutto ciò che supera una certa soglia di reddito sia fondamentalmente ingiusto e, in qualche modo disonesto. Figuriamoci quando si parla di pensioni. Gli argomenti messi sul tavolo cambiano a seconda del punto di discussione ma il problema resta. I giovani che rischiano di non percepire alcuna pensione, i vitalizi degli ex parlamentari, le baby pensioni, gli over 50, tanto per citare alcuni casi, sono messi lì a dimostrare che l’ingiustizia è evidente e che quindi un taglio netto sa da fare. Ovviamente, per ottenere il consenso generale, si mischia il tutto con abilità e si presentano tutti i percettori di pensione medio alte come “ladri di futuro”. Boeri ha buon gioco a presentare la sua proposta come equa e ragionevole. In un colpo solo si pone al centro del dibattito e lancia la sua candidatura a livello politico individuando un nemico facile: 350.000 “pensionati d’oro”. Per intenderci quelli da 2.200 euro netti in su. Senza alcuna distinzione. Beh! Io non sono d’accordo. E questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché questi cittadini hanno sempre pagato e pagano regolarmente le tasse. Oltre il 50% del loro reddito. Vederli etichettati come potenziali “ladri di futuro” da Boeri e da chi la pensa come lui non mi piace. In secondo luogo perché non mi piace l’idea che si possa essere giudicati dall’importo della pensione e non da come si è costruita in molti anni di lavoro. Queste persone hanno lavorato, hanno pagato i contributi richiesti, hanno costruito un reddito e, oggi, quando sono più deboli e attaccabili li si incolpa di egoismo sociale e di non voler rinunciare ad una parte della loro pensione per consentire una presunta operazione di equità interna al sistema. Poco importa se l’INPS è un carrozzone che mischia previdenza con assistenza, pensioni del settore privato e pubblico, dirigenti che hanno pagato i loro contributi e dirigenti che non lo hanno fatto, baby pensioni e prepensionamenti delle ferrovie o di altri settori e via discorrendo. Tutto questo non importa. Importa indicare un nemico fragile. Un “nemico” che oggi ha un reddito comunque costruito grazie al suo impegno e al suo lavoro. Ha potuto usufruire del calcolo della pensione con il metodo retributivo semplicemente perché questo valeva per tutti fino al 1994 e non solo per i percettori di pensioni medio alte. Come si fa adesso a pretendere che chi ha sempre pagato oltre il 50% di tasse per una vita oggi debba subire una pesante decurtazione del reddito? Perché di questo si tratta al di là delle balle mediatiche. E queste pensioni non c’entrano nulla con i vitalizi dei politici o gli “aggiustamenti” delle pensioni dei sindacalisti. Questa è una decurtazione del reddito attuale in contrasto con regole e leggi in vigore che hanno determinato l’accesso alla pensione di quelle persone e, naturalmente, l’importo corrispondente. Si dice che comunque qualcuno deve pur pagare per consentire un operazione di equità interna al sistema. Perché deve essere solo un’operazione interna al sistema dovrebbe essere spiegato. È una scelta come un’altra. Non è come prendersela con gli evasori. Lì si tratta di una categoria che non ha rispettato la legge. Qui è diverso. Boeri oggi come Fornero ieri. Gli esodati sono nati con un’operazione analoga. Prendersela con pochi, tanto nessuno reagirà. Questa è la filosofia. Anche allora fu detto che non c’erano alternative. La tecnica è sempre quella: caricare il problema su una piccola parte del Paese che non può reagire. Veniamo ai supposti beneficiari da questa manovra. Gli over 50 a basso reddito. In parte, guarda caso, prodotti proprio dalla legge Fornero. Usarli oggi cinicamente come scudi umani dopo averli prodotti e poi dimenticati è veramente scorretto. Anziché preoccuparsi di come renderli appetibili fiscalmente per reinserirli al lavoro si pensa di cavarsela con un mini assegno di cinquecento euro al mese per tacitarli. Renzi e Poletti per il momento hanno saggiamente frenato l’impeto riformatore del professore. Speriamo sia lungimiranza e non semplice calcolo politico. Staremo a vedere. Forse è il caso di dire:”Dio ci salvi dai professori”.
Welfare aziendale e welfare contrattuale: quali prospettive.
Il welfare aziendale piace molto ai media. Ci fa tanto assomigliare alle grandi imprese di altri Paesi. Ci fa assomigliare a quelle realtà dove la dimensione aziendale, il sistema contrattuale e fiscale consente alle aziende di investire sul questa forma di salario indiretto che produce retention, clima positivo e integra l’intervento pubblico. In Italia rischia di essere un percorso sterile. Per quanto le aziende possano investire su questo filone la dimensione delle aziende, la distribuzione sul territorio di strutture pubbliche adeguate, i limiti dell’intervento pubblico presente e soprattutto futuro, in termini di assistenza e previdenza rendono difficile un approccio che fa perno sul singolo imprenditore. Per questo occorre puntare decisamente sul welfare di derivazione contrattuale. Consente economie di scala, opportunità che coprono grandi e piccole imprese, controllo sul piano della qualità dell’offerta. È strano come osservatori attenti si lascino sfuggire questa dimensione che già oggi coinvolge circa cinque milioni di persone nei diversi settori merceologici. Capisco che oggi, tutto ciò che comprende tra i promotori le organizzazioni di rappresentanza, non è percepito come positivo e propositivo ma questo è. Fondi contrattuali come EST, QUAS, FASDAC solo nel settore del terziario rispondono alle esigenze di natura sanitaria di oltre un milione e mezzo di lavoratori dipendenti. Forse non fa notizia come la LuxOttica di Del Vecchio ma certamente risponde ad un problema sentito. Non nasce oggi ma nasce in anni dove la scelta tra salario diretto e salario accessorio non era facilissima da fare e dove, anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti e dei dirigenti hanno convenuto con la Confcommercio scelte innovative. È strano che, proprio oggi, quando Confindustria si pone giustamente, e tra mille critiche, di seguire lo stesso percorso, si voglia sottacere i risultati già ottenuti nel terziario. Certo ci sono problemi di governance, di approcci burocratici da superare e di tenuta in prospettiva di alcuni di questi fondi. Ma ci sono problemi di strategia che potrebbero orientare le parti socie, a cominciare da Confindustria, Confcommercio e le associazioni degli artigiani a guardare avanti magari ipotizzando convergenze utili a costruire masse critiche simili a quelle presenti in alcuni Paesi europei. Ma una cosa è certa; questa è la strada da percorrere in Italia. Inseguire le pur lodevoli iniziative di singoli imprenditori non porta da nessuna parte. Occorre far crescere una cultura nuova che favorisca la creazione di fondi privati importanti che sappiano dialogare anche con il pubblico portando risparmi, razionalizzazioni ed efficienza nel l’erogazione dei servizi senza togliere alcun spazio agli interventi delle assicurazioni sul piano individuale. Comprendere fino in fondo i vantaggi che comporterebbe un consolidamento di una politica seria a sostegno della previdenza complementare. Per questo, credo, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione a ciò che le parti sociali stanno facendo, individuarne pure limiti ed errori, ma evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. Progetti del genere modificano culture radicate, creano forme di collaborazione tra le parti, danno nuove prospettive e ruolo ai corpi intermedi. C’è molto da fare ma la strada è quella. Le scorciatoie, seppur benemerite, non portano da nessuna parte.