Oggi si perde il lavoro per molte ragioni. Principalmente per ristrutturazioni, riorganizzazioni o chiusure di attività dovute a crisi, acquisizioni, scelte imprenditoriali o manageriali sbagliate. Purtroppo la ragione è del tutto secondaria.
Quando nel 1989 Auchan entra in Italia chi avrebbe potuto pensare che trent’anni dopo se ne sarebbe andata così? Oggi è facile dirlo. È la somma degli errori che ha accompagnato la sua permanenza. Ma sono stati errori non percepiti con sufficiente lucidità all’interno. Allora, e per molti anni, entrare in Auchan, condividerne i progetti, investire le proprie competenze e capacità era una sfida assolutamente da accettare.
Una delle novità del nostro tempo è che la vita delle aziende è spesso più breve di quella dei lavoratori che vi iniziano il loro percorso professionale. Si entra e si esce, a tutti i livelli, spesso senza essere preparati a farlo. Oggi si scrive molto sulla difficoltà all’entrata.
La sensibilità dei media è concentrata su un tema che rischia però di essere fuorviante: il lavoro ci sarebbe anche ma i titoli o le competenze richieste non sono allineati con quelli richiesti dalle imprese. Quindi si crea un mismatch. Forse non molti sanno che è un termine che deriva dal basket e che sta ad indicare quando un atleta che attacca si trova fronteggiato da un avversario in condizioni di inferiorità.
Nel mondo del lavoro lo stato di inferiorità è sempre stato del candidato al momento dell’assunzione. Oggi, in molti interventi sull’argomento, si rischia di stravolgere la realtà mettendo lo stato di inferiorità esclusivamente sulle spalle delle aziende quasi colpevolizzando la situazione del candidato. Non è proprio così. Da un lato ci sarebbe una scuola che non prepara, dall’altro un impresa che trova risorse adeguate.
Se, guardando alla prospettiva, in molte situazioni specifiche questo è un problema reale e serio, in altre, al contrario, domina l’improvvisazione e quindi la determinazione di cercare altrove, il colpevole. La realtà è più variegata.
Ed è fatta anche da proposte economiche insufficienti, mercati del lavoro non allineati, errori nella gestione delle risorse umane interne, mancanza di capacità di previsione di medio/lungo periodo. I ridimensionamenti e i tagli nelle direzioni risorse umane in termini di professionalità e peso “politico” in azienda hanno fatto poi il resto.
Molte imprese, concentrate sul “qui e ora”, sui costi e sull’operatività, hanno trascurato il rapporto con il mondo della scuola, la formazione e i percorsi di carriera interni, hanno appiattito le strutture rendendo più complessa la sostituzione delle persone, hanno messo alla porta esperienze e professionalità difficili da ricostruire.
Il mercato, l’innovazione tecnologica, le dinamiche interne alle filiere produttive e l’appiattimento delle retribuzioni hanno fatto il resto. Il lavoro, la sua creazione, lo sviluppo delle persone non sono stati considerati centrali ma residuali. E il conto non ha tardato ad arrivare.
I processi di selezione spesso sono stati banalizzati, le stesse società esterne individuate si sono lanciate in una gara ossessiva tra di loro sui costi che ha peggiorato la qualità della competizione e così il circolo vizioso si è chiuso. Il risultato è che entrare in un’azienda, oggi, è molto più complesso e diverso che in passato. Così come passare da un’azienda ad un’altra. Inserirsi in una nuova realtà non è facile.
Le retribuzioni si sono, a loro volta, ridimensionate. Lasciare la propria azienda o investire in una nuova realtà sconosciuta è una scelta che va ponderata molto attentamente. Ma spesso si è costretti a farlo. Qui sta il punto. Il mondo del lavoro è ancora costruito su alcuni principi novecenteschi che oggi sono venuti meno. Ben fotografati dai contratti nazionali in vigore.
Si è creata così una sovrapposizione confusa tra posto di lavoro e lavoro. Il primo tutelato oltre ogni misura ma ormai ridotto ad un bidone vuoto dal contesto. Il secondo al vento e senza alcuna rete protettiva. Retribuzioni, inquadramenti professionali, percorsi di carriera, contributi pensionistici, tutele, diritti sindacali sono stati costruiti per un mondo del lavoro stabile, spesso concentrato in una sola azienda, con carriere lineari, retribuzioni crescenti e tutele legate più all’anzianità che alla persona.
Dalla sua, quest’ultima, ha solo la sua professionalità. E questa va costruita e mantenuta nel tempo. E la professionalità non è solo un mestiere nel quale si può anche eccellere ma è un insieme di competenze e di capacità complessive che consentono, una volta inseriti in un contesto, di lavorare con gli altri, per gli altri e attraverso gli altri. Oggi più che mai.
Tutto questo, però, si può e si deve apprendere. In un ambiente di lavoro, nel quale si è vissuti e cresciuti nel tempo, questi aspetti non sono oggetto di formazione continua. Ciascuno viene accettato un po’ per quello che è. Si investe poco sulle persone. Soprattutto sui senior. Ma fuori, nel mercato, certe caratteristiche diventano discriminanti.
A cominciare dai colloqui di lavoro. La diatriba tra selezionatori e candidati spesso nasce qui. I primi sanno cosa serve i secondi, no. E i primi verranno giudicati dai committenti sulla loro comprensione delle richieste aziendali. E sulle loro proposte. I secondi tendono a misurare la loro candidatura in base ad un giudizio di corrispondenza teorica ma non hanno a disposizione tutti gli elementi necessari. Frequentare le società di selezione, incontrare Head Hunter qualificati non serve solo per trovare lavoro. Serve per avere un confronto su come prepararsi al mercato. E costruirsi una rete di relazioni.
La recente iniziativa di Manageritalia, riservata ai manager, Career Fitness, pur all’inizio del suo perscorso e bisognosa di rodaggio che prevede informazione e condivisione di esperienze, consulenza di carriera e coaching, va in questa direzione. È un‘ intuizione importante. Peccato non sia ancora condivisa dalla loro controparte datoriale.
Prepararsi a cambiare, investire sulle proprie capacità e competenze rafforzandole, confrontarsi con esperti del mercato del lavoro è fondamentale per affrontare un mondo in rapido cambiamento. E tutto questo non va lasciato solo quando è ormai troppo tardi. Lì ci sono gli esperti di outplacement, quelli seri, che diventano fondamentali.
Da soli si rischia di non andare da nessuna parte. Occorre convincersi a muoversi per tempo. Quando il vento soffia ancora nelle vele. Non ci sono alternative. Il futuro non si attende, si fa.