Generalmente il problema delle aperture domenicali viene ridotto ad una questione di interesse esclusivo delle imprese della Grande Distribuzione. Consumatori e attività collaterali non sembrano destare, nel dibattito in corso, alcun interesse. Da una parte il diritto al riposo dei dipendenti che non vorrebbero lavorare durante le festività, dall’altra l’esclusiva volontà di profitto delle grandi imprese della distribuzione organizzata. Un’idea quindi di consumismo esasperato che cancella i diritti dei lavoratori. Una sorta di fordismo applicato ai consumi che riduce il lavoratore ad un ingranaggio di un sistema.
Un’idea vecchia che nasconde una cultura d’altri tempi. In questo modo non si vedono il contributo all’occupazione che la grande distribuzione ha sempre dato anche nei momenti di crisi di altri comparti, i forti investimenti in formazione e sviluppo professionale proposti ai collaboratori, l’opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro di figure ritenute fragili e difficilmente impiegabili altrove e, infine formule di lavoro flessibili che rispondono alle nuove esigenze dei consumatori.
E, altrettanto importante, la possibilità per l’industria di ridurre gli stock nei magazzini (vedi outlet e altre formule), il consolidarsi di attività artigianali e commerciali collaterali e la trasformazione profonda di luoghi che, oltre agli acquisti, consentono di passare il proprio tempo libero in compagnia.
All’interno di questo contesto pochi sembrano comprendere le conseguenze che si innescherebbero a seguito di una qualsiasi decisione improvvida su questa materia. Per questo credo sia utile ripercorrere le critiche principali alle liberalizzazioni cercando di proporre risposte di buon senso.
1) La domenica è un giorno da dedicare al riposo
Per la stragrande maggioranza delle persone la domenica è un giorno di riposo. Quasi 5 milioni di lavoratori, però, lavorano la domenica. 3,4 sono lavoratori dipendenti e gli altri 1,3 sono autonomi (artigiani, commercianti, esercenti, ambulanti, agricoltori, ecc.). Un lavoratore dipendente su cinque è impiegato la domenica, i lavoratori autonomi, invece, registrano una frequenza maggiore: quasi 1 su 4. I lavoratori della GDO sono quindi una minoranza.
Anche per questo la volontà di intervenire appare strumentale. Nei centri commerciali e negli outlet ci sono centinaia di attività che non c’entrano nulla con la Grande Distribuzione in senso stretto ma che subirebbero un contraccolpo economico altrettanto grave. Argomento questo di cui nessuno parla.
2) Negli altri Paesi Europei non si lavora alla domenica
Non è proprio così. Secondo una ricerca Eurofound la quota di lavoratori in Europa che hanno dichiarato di lavorare almeno una domenica al mese ha raggiunto il 30% nel 2015, dal 27,5% nel 2005 e al 28% nel 2010. Nel 2015, più del 10% di tutti i lavoratori europei ha lavorato almeno tre domeniche al mese. Il nostro Paese figura addirittura tra gli ultimi nella graduatoria.
Nonostante questo c’è comunque una differenza sostanziale tra noi e gli altri Paesi. In Italia sono 7 anni che le liberalizzazioni hanno determinato una situazione di fatto completamente diversa. Le aperture alla domenica e nei festivi sono una realtà consolidata fatta di investimenti, addetti dedicati, abitudini dei consumatori modificate.
Ritornare indietro significa danneggiare le imprese grandi e piccole, gli investimenti, l’occupazione e tutte le attività collaterali sorte proprio perché nate o consolidate dopo le liberalizzazioni. E, infine, va sottolineato, difficilmente riaprirebbero l’1,9% dei piccoli negozi che sono spariti non solo per la concorrenza della GDO dal 2012.
3) Il prolungamento degli orari e il lavoro domenicale e festivo non ha portato alcun aumento delle vendite
In alcuni comparti o insegne è così. In altri, no. Nei centri commerciali, ad esempio, le aperture domenicali hanno ammortizzato la fase recessiva sui consumi e hanno comunque contribuito con un aumento del 3%. In tutti questi anni sono però cambiate le abitudini di acquisto delle persone. Quindi le domeniche sono diventate molto frequentate nei punti vendita.
E, d’altra parte sta crescendo, in alcuni comparti, la concorrenza dell’on-line aperto h24 7 giorni su 7. La domenica resta un giorno importante per i consumatori e per i fatturati delle imprese. È diventato il secondo giorno di incasso settimanale con 12 milioni di presenze solo nella GDO.
4) Gli acquisti si potrebbero effettuare durante la settimana
Non è sempre così. Potrebbe esserlo per i negozi di vicinato se le regole valessero per tutti. Non è così per gli iper, gli outlet o per i centri commerciali lontano dalle città. Se ne acuirebbe solo la crisi con tutte le conseguenze collegate. Così come per i comparti più sottoposti alla concorrenza della rete.
Secondo l’Istat gli acquisti domenicali sono preferiti dai residenti del Centro Italia, con il 25,6%. La quota scende al 23,1% nel Mezzogiorno. Nelle aree urbane sono soprattutto i residenti nel centro delle aree metropolitane (25,6%) a effettuare acquisti domenicali.
5) I lavoratori non vengono pagati correttamente
I lavoratori vengono pagati in base alla contrattazione nazionale e aziendale. La maggiorazione è del 30% per il lavoro domenicale contro il 15% degli straordinari. Nei festivi, a differenza delle domeniche, il lavoro è su base esclusivamente volontaria. Se ci sono comportamenti scorretti non riguardano l’intero settore. Andrebbero denunciati e perseguiti. E comunque i sindacati possono sempre avviare un confronto con le imprese sulle indennità, sulle esenzioni o sulla rotazione dei lavoratori attraverso la contrattazione aziendale.
6) Una regolamentazione drastica favorirebbe i piccoli esercizi e ripopolerebbe i centri storici
Non è così. Forse poteva esserlo in passato. Oggi la realtà è un’altra. I luoghi dove sono ubicati i centri commerciali e gli outlet non svolgono solo funzioni di vendita ma anche di intrattenimento. Chiuderli nei festivi non porterebbe affatto alla situazione precedente. Anzi. I piccoli negozi avrebbero comunque difficoltà a ritornare nei centri storici soprattutto per gli affitti.
E chi lavora fuori dai centri storici? E nelle periferie delle città? Davvero qualcuno pensa in questo modo di riavere quel 1,9% di piccoli negozi chiusi dal 2012? Polemiche tra associazioni a parte dovrebbero crearsi ben altre condizioni. Andrebbero incentivati, creati consorzi, centri commerciali di via che, comunque, per funzionare. avrebbero bisogno di avere anch’essi le aperture domenicali. Per farlo, però occorrono progetti, tempo e risorse di sistema.
Al contrario i problemi che si creerebbero sono seri e immediati per chi ha fatto, in questi anni, investimenti importanti. Basti solo ricordare che gli investitori internazionali controllano il 70% dei centri commerciali italiani. Senza dimenticare che nei centri stessi si sono ormai insediate una pluralità di piccole attività dirette o in franchising, bar, ristoranti, attività di svago, centri medici, ecc. che non hanno nulla a che fare con la GDO in senso stretto.
I centri commerciali, in Italia, è bene sottolinearlo occupano direttamente circa 500.000 persone senza calcolare i danni a tutte le attività che non appaiono mai nelle discussioni sul tema: industrie produttrici, smaltimento magazzini, attività di servizi, trasporti, logistica, ecc.
7) Spostare il negoziato a livello regionale/locale consentirebbe di tarare meglio le soluzioni
Non è così. L’esperienza insegna che ogni regione ha fatto quello che ha voluto. Spesso in concorrenza con le regioni vicine. A livello locale oneri di urbanizzazione, assunzioni e favori di ogni tipo hanno dominato la scena nelle fasi espansive. Per questo le regole devono essere uguali e valere per tutto il territorio nazionale. Ogni azienda le può poi articolare nei singoli territori in base a specifiche esigenze dei suoi consumatori. Anche oggi nei territori dove il mercato non lo richiede molte insegne non aprono la domenica. Aprire un punto vendita la domenica non è un obbligo. È un opportunità.
8) I consumatori torneranno alle abitudini precedenti
Probabilmente, si. Ma perché impedire a milioni di persone di passare la domenica dove pare a loro? I centri commerciali non sono solo luoghi di vendita. Può piacere o meno ma sono anche luoghi di intrattenimento per famiglie, giovani e anziani. Obbligarli a fare altro confondendo una critica ai modelli di consumo con la possibilità di consumare e intrattenersi fuori casa non è una scelta corretta.
9) E’ la crisi del settore che produce cali occupazionali non le chiusure domenicali
Certo. La crisi c’è ed è pesante. All’orizzonte ci sono rischi di aumento dell’IVA, la concorrenza della rete e la necessaria riorganizzazione dei formati e del comparto. Poter contare o meno sulle domeniche e sulle festività non è però un elemento secondario. L‘ indeterminatezza scoraggia gli investimenti, anticipa la chiusura di molti punti di vendita, deprime i fatturati. Semmai ci fosse in assoluto un momento sbagliato dove mettere mano alle festività o alle domeniche è certamente questo. Comunque un eventuale provvedimento coinvolgerebbe inevitabilmente qualche decina di migliaia di posti di lavoro.
10) La Grande Distribuzione è tutta uguale
Non è vero. Un discount è diversi da un outlet. Così come i negozi di vicinato rispetto ad un centro commerciale. Così come le attività in franchising. Se poi si pretende, in Italia, di poter decidere cosa è luogo turistico e cosa non lo è, dove aprire e dove tenere chiuso, ci si infila in un ginepraio indefinito dove si altera solo la concorrenza tra insegne in base alla loro localizzazione e quindi si penalizzano imprese e lavoratori insediati magari a pochi chilometri di distanza. Soprattutto quelli già in difficoltà.
11) La concorrenza del web è marginale
Certo, oggi solo alcuni settori sono coinvolti direttamente. La regola “stesso mercato stesse regole” però non vale per tutti. La rete è aperto tutti i giorni h24, fa promozioni, sconti e consegne a domicilio. E’ destinata comunque a crescere. Nessuno però contesta questo canale. Né come crea lavoro, né come lo retribuisce, né come lo tutela. Se questa crescita avverrà mettendo “piombo alle ali” alla GDO questo aggraverà solo la crisi in atto soprattutto in alcuni comparti. Sempre secondo l’ISTAT il 32% della popolazione italiana ha fatto acquisti online nell’arco dell’anno precedente l’indagine. In Germania negli ultimi 12 mesi ha fatto acquisti online il 75% della popolazione, in Francia il 67% e in Spagna il 50%. La tendenza è evidente.
12) Cobas e sindacati confederali sono contrari
I Cobas sono contrari a prescindere. Addirittura sono interlocutori privilegiati del Governo in carica. E questo la dice lunga su chi ha ispirato il provvedimento. Nel settore della GDO non hanno però alcun seguito tra i lavoratori. Ci sarà una ragione. O no? Per il sindacato confederale la valutazione è più articolata. C’è chi è contrario al lavoro festivo, chi vorrebbe una maggiore rotazione dei lavoratori, chi migliori condizioni economiche per gli stessi. Sono materie comunque gestibili con la contrattazione tra le parti.
13) I piccoli esercizi pretendono che la GDO venga ridimensionata
Le difficoltà di molte attività tradizionali non dipende dalla GDO. Troppo facile mettere gli uni contro gli altri. Molti piccoli si sono specializzati e tengono testa alla GDO, altri si sono insediati nei centri commerciali, altri ancora hanno problemi di concorrenza più con il web che con le grandi superfici. Riproporre vecchie logiche è un errore. Il pluralismo distributivo va difeso con equilibrio. Ridimensionare le prospettive del commercio off line, grande o piccolo, lasciando libero l’on line di agire senza regole è un errore.
14) Le associazioni di settore non sono unite
E’ così. Basti dire che ci sono più contratti di lavoro nello stesso comparto. E tutti in dumping tra di loro. Purtroppo la concorrenza associativa non aiuta ad arrivare ad una proposta comune che al contrario sarebbe molto utile. Le difficoltà maggiori sono presenti in quelle confederazioni che hanno al proprio interno una pluralità di esigenze difficili da portare a sintesi.
15) Cosa pensano i consumatori
Sono ovviamente favorevoli alle aperture. Lo dicono tutte le indagini proposte. Secondo la rilevazione di Noto Sondaggi, il 56 per cento è favorevole infatti all’apertura domenicale dei centri commerciali e dei negozi. Soltanto il 33 per cento degli italiani si trova d’accordo con la proposta del ministro Di Maio.
Arrivati a questo punto cosa si può fare?
La speranza degli operatori economici, delle loro federazioni e delle associazioni dei consumatori è che, dopo le nuove audizioni, il Governo si renda conto delle gravi conseguenze sul settore e sull’occupazione di un provvedimento sulla materia e modifichi profondamente l’impostazione assunta o almeno individui una soluzione ragionevole, condividendola con i rappresentanti di questo mondo. Nel caso però dovessero essere messe in atto forzature i consumatori andrebbero coinvolti in prima persona dalle imprese organizzando una forte reazione di protesta adeguata attraverso petizioni, prese di posizioni o ulteriori strumenti di pressione.