La conferenza stampa di fine anno di Conad ha portato allo scoperto tutto il lavoro di accompagnamento in corso per portare a compimento l’intera operazione e dare così anche risposte concrete sul piano occupazionale.
Se non ci si fa distrarre dalle fake news alimentate da chi non ha mai creduto in questa operazione si tratta di un lavoro sotto traccia che comprende i negoziati con i terzi interessati ad acquisire punti vendita, lo sforzo richiesto ai soci Conad e le prospettive degli spazi commerciali lasciati liberi dalla riduzione delle superfici negli IPER. Sulla carta le eccedenze previste sono già più basse dei 3105 esuberi dichiarati formalmente e solo la cautela che deve esserci in casi di queste dimensioni spinge l’azienda a non dare numeri più ottimistici. Personalmente ne sono convinto.
Chiunque si sia occupato di ristrutturazioni sa benissimo che ciascuna soluzione potenzialmente individuata deve poi realizzarsi nei numeri e nelle modalità che possano trasformare la volontà in certezza. Al di là delle letture strumentali e negative di questa operazione emerge un dato importante. Conad sta lavorando con grande convinzione per ridurre al minimo gli impatti occupazionali complessivi. Lo ha dichiarato Francesco Pugliese assumendosi un impegno forte sul quale verrà misurato. Se non fosse stato così, avrebbe potuto sorvolare sull’argomento. Come avrebbero fatto in molti.
Lo si capisce dall’aver bloccato il turn over non indispensabile, dalla rinuncia a mettere all’asta i PDV migliori privilegiando chi accetta di farsi carico delle eccedenze, dall’assorbimento in corso da tempo di un notevole gruppo collaboratori ex Auchan soprattutto nell’extra food presso le cooperative e dalla richiesta ai fornitori e all’indotto di dare un contributo alla soluzione del problema occupazionale.
L’errore madornale, a mio modesto parere, del sindacato è di essersi chiamato fuori pretendendo garanzie preventive non realistiche in questa fase. È la qualità del percorso e le verifiche che lo accompagnano che avrebbero fatto la differenza in un eventuale accordo. L’ho scritto fin dai miei primi pezzi.
Questa non è una ristrutturazione aziendale classica dove si può comprendere subito il destino delle persone coinvolte. Siamo di fronte alla “rottamazione” di una multinazionale che, in partenza, contava su diciottomila collaboratori e che va digerita in un contesto dove 2500 imprenditori se ne devono fare carico per la parte principale dirottando su terzi, che vanno individuati, ciò che non può essere digerito.
Nelle soluzioni si è parlato tanto di ciò che dovrebbe fare Conad. È normale. Chi lavorava per il gruppo francese ha immaginato possibile e in parte lo pensa ancora, una soluzione in continuità in linea con il proprio percorso lavorativo. Facile nei punti vendita dove il lavoro sostanzialmente non cambia, impossibile per dirigenti, quadri e impiegati delle sedi. Per loro c’è solo il ricollocamento esterno salvo per coloro che vantano una professionalità ritenuta utile nell’universo Conad o nelle aziende coinvolte.
Ad oggi però questo problema non è ancora diventato centrale come invece avrebbe dovuto essere. Innanzitutto ci sono stati errori di gestione da parte di BDC. Occorre prenderne atto. Le persone andavano gestite diversamente. Anche in una situazione oggettivamente difficile. Nessuno le ha convocate, ascoltate individualmente, rese consapevoli dell’impossibilità di un ricollocamento interno. Quindi non sono state preparate a lasciare l’azienda né supportate a farlo lasciandole in balìa delle fake news.
Questo ha generato disorientamento, avversione verso tutto e tutti, radicalizzazione delle posizioni. Lo si può vedere dalle prese di posizione in rete dove domina il rancore, la strumentalizzazione del disagio da parte di alcuni che spesso non sono nemmeno coinvolti direttamente e la ricerca disperata di solidarietà.
Gli incontri con i politici sono paradigmatici. Sembra che tutto ruoti sulla convinzione che Conad possa cambiare idea. Non sulle soluzioni possibili. Eppure la politica, soprattutto a livello locale, potrebbe fare molto. Non solo pressione nei confronti del Consorzio.
Innanzitutto per spingere il gruppo Auchan in espansione in altri comparti della GDO a dare ben altri contributi occupazionali ma anche verso l’intera GDO laddove chiede nuove autorizzazioni di insediamento locale. Così come la proposta lanciata da Francesco Pugliese di considerare l’inevitabile ridimensionamento degli ipermercati in corso che coinvolgerà presto o tardi tutta la GDO (cooperative comprese) come un elemento su cui riflettere per anticipare le crisi adattando e innovando gli strumenti che ne ammortizzerebbero le conseguenze sul piano occupazionale.
E questo rappresenterebbe di fatto un’evoluzione concreta del famoso articolo 24 del CCNL della distribuzione moderna che potrebbe assegnare alle federazioni del settore, a cominciare da Federdistribuzione e al sindacato di categoria, un ruolo di coordinamento e di rappresentanza complessiva in un possibile negoziato con il Governo.
Le otto regioni presenti al MISE, da parte loro, non dovrebbero limitarsi ad un ruolo passivo o di semplice pressione nei confronti di Conad ma al contrario potrebbero assumere un ruolo di co-protagonista nell’individuare le soluzioni possibili. La GDO è diversa da un insediamento industriale. È diffusa sul territorio, in crescita continua seppure con formati diversi e una presenza nazionale che rende più semplice il passaggio tra un’insegna e l’altra. E questo potrebbe favorire la costruzione di potenziali serbatoi di candidature a disposizione dell’intero settore perennemente alla ricerca di personale. E senza caricarne i costi sulla collettività.
Sulle sedi è chiaro che l’apertura della mobilità incentivata ridurrà la pressione da parte di coloro che si sono messi individualmente alla ricerca di una soluzione ma lascerà comunque al palo coloro i quali per ragioni professionali, anagrafiche e familiari avranno più difficoltà a ricollocarsi. Per loro andrebbe studiato un progetto preciso delimitandone il numero, supportandoli nella formazione o nella soluzione di problemi specifici, accompagnandoli nel loro percorso. Per questo andrebbero ascoltati individualmente e rapidamente.
Quello che io non capisco da chi sbraita in rete alla ricerca di soluzioni impossibili proclamandosi rappresentante (anonimo) di questi lavoratori è perché non pone questo problema concreto anziché perdersi in battaglie di retroguardia che lasciano in tempo che trovano.
Quando gli incastri dimostreranno che le soluzioni ricercate saranno in grado di dare i frutti sperati e i numeri caleranno a livello fisiologico, resteranno sul tavolo i problemi che erano evidenti fin dall’inizio. Le sedi e poco più. E il tempo che si è perso inutilmente.
Concordo. Bisogna lavorare e non sbraitare.
Passi indietro, orgoglio da una parte. Cercare, proporre soluzioni, chiedere ai politici, alle aziende del comparto di dare una possibilità lavorativa a chi non può cercare un lavoro da solo e a chi rimane senza una soluzione alla fine dell’indagine dell’antitrust, quando a palle ferme si potrà ragionare sulle soluzioni concrete rimaste senza risposta.