L’accordo alla fine si farà. Non è questo il punto. Siamo ancora ai preliminari perché la materia è complessa e gli interessi in campo sono di difficile composizione.
Non è comunque un negoziato facile e Confindustria non può non continuare ad insistere per tentare di raggiungere un’intesa. Il Presidente Vincenzo Boccia ci ha messo la faccia fin da subito.
Il Patto di fabbrica è la riaffermazione di una primazia della Confederazione sul sistema delle relazioni industriali che non può (dal suo punto di vista) essere messo in discussione. Sono cambiati i tempi, sono cambiati i pesi specifici ma le relazioni sindacali italiane hanno storicamente sempre avuto in Confindustria il soggetto che dava le carte.
Oggi non è più così. Non lo è nelle loro federazioni di settore dove tutti si sono mossi in ordine sparso. Non lo è a livello confederale dove Confindustria ha sempre dettato le regole del gioco ma non ha mai avuto un contratto nazionale suo, non lo è più neanche a livello di leadership sull’intero sistema perché Confcommercio e le associazioni degli Artigiani che rappresentano insieme la stragrande maggioranza delle imprese del Paese si sono mosse autonomamente e hanno già raggiunto accordi significativi con le stesse controparti.
Il Sindacato non ha fretta e quindi spinge sui contenuti proprio laddove Confindustria è più debole. Questa asimmetria negoziale ribaltata è una sorta di legge del contrappasso. Da un lato una Confindustria indubbiamente meno forte sul fronte imprenditoriale cerca un’intesa con una controparte che ne annusa le difficoltà e quindi alza la posta.
Il patto di fabbrica resta un’arma a doppio taglio. Può assorbire il sindacato in una logica aziendalista o rilanciarne il ruolo negoziale proprio laddove è più debole. Quindi gli impegni, le parole utilizzate e lo scambio politico non può essere inconsistente o pericoloso per i confederali. Soprattutto dopo la firma di tutti i contratti nazionali.
D’altra parte il Presidente di Confindustria sa che non può mettere in difficoltà le sue imprese associate scaricando loro addosso un modello contrattuale, che rischia di aggiungere costi e vincoli che oggi non hanno. E di ridare ruolo al sindacato anche laddove non lo esercita da molto tempo soprattutto nelle imprese fuori dai radar della politica che sono la stragrande maggioranza.
Il suo resta un progetto ambizioso. Rilanciare una primazia in una fase dove l’industria, i suoi valori e la sua cultura sono declinanti per rimetterla al centro delle politiche del Paese, rimettere Confindustria in gioco dopo le difficoltà interne non ancora superate, mettere un freno all’espansione di Confcommercio e degli Artigiani sul terziario innovativo, e dare un segnale di governo forte all’intero sistema industriale e ai suoi settori.
Per il sindacato è una partita altrettanto importante. Le difficoltà di Confindustria e la sua determinazione a raggiungere comunque un’intesa spingono i confederali ad alzare decisamente la posta. Sul tavolo c’è l’esigenza, legittima, di pesare, una volta per tutte, anche gli interlocutori datoriali.
Così come, più che l’adozione di un modello precostituito c’è l’esigenza di individuare una soluzione innovativa che sostenga lo sviluppo della contrattazione decentrata, che faccia chiarezza sulla filosofia di fondo del patto di fabbrica e che metta un freno sia alla numerosità dei contratti che ai rischi di dumping che ne derivano. Welfare e bilateralità possono ovviamente aiutare a definire il perimetro ma è su un punto preciso che la proposta verrà misurata.
Il patto di fabbrica presuppone un coinvolgimento dei lavoratori laddove il lavoro cambia e la produttività si crea e laddove i reciproci comportamenti sostengono o deprimono le sfide di business su cui sono impegnate le nostre imprese.
Se questo è chiaro non lo sono altrettanto le contropartite per il sindacato. Almeno fino ad oggi. Il rinvio a fine luglio serve per permettere ad entrambe le parti di completare una riflessione sulle esigenze altrui.
È una buona cosa. Vedremo se sarà sufficiente a chiudere la partita.