Il prof. Michele Tiraboschi sembra non avere dubbi: un accordo che, sostanzialmente lascia i nodi irrisolti rischia di non servire a nulla. Tra Confindustria e Sindacati confederali, l’accordo sulla contrattazione e sulla rappresentanza sembrerebbe in dirittura di arrivo.
Cosa sta succedendo allora nel mondo delle relazioni industriali, lato Confindustria? Tra un’intesa utile e innovativa e una solo possibile perché comunque politicamente significativa prima delle elezioni la scelta sembra sia caduta su quest’ultima opzione. Almeno così raccontano gli “spifferi” che precedono la firma finale.
Il cosiddetto “Patto di fabbrica” evocato da Vincenzo Boccia fin dal suo discorso di insediamento a Presidente di Confindustria partiva dalla convinzione che il necessario rinnovamento della cultura imprenditoriale, la capacità stessa di affrontarne le sfide che la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione metteva loro davanti e la necessità di crescere in dimensione per poter competere su tutti i mercati avrebbe reso necessario rompere gli schemi e i limiti novecenteschi proprio a partire da un profondo cambiamento del sistema delle relazioni industriali e quindi dei modelli contrattuali. E, tutto questo, avrebbe dovuto essere all’insegna di una rinnovato disegno collaborativo tra imprenditori e lavoratori.
Una convinzione che aveva fatto nascere la speranza che, finalmente, le organizzazioni di rappresentanza avrebbero potuto convergere su modelli sociali e contrattuali innovativi.
Le prime dichiarazioni di Camusso, Furlan e Barbagallo furono di attesa ma anche di interesse proprio perché la stagione dei più importanti contratti dell’industria si era, nel frattempo, avviata in ordine sparso. Le stesse dinamiche relazionali tra i tre sindacati sembravano addirittura promettere convergenze importanti. Almeno in termini di unità di azione. L’entusiasmo iniziale si è, però, presto esaurito.
Confcommercio e altre organizzazioni datoriali hanno raggiunto, senza troppo clamore, i rispettivi accordi con i sindacati confederali mentre chimici, meccanici e alimentaristi si apprestavano a firmare unitariamente i loro contratti nazionali togliendo, di fatto, a Confindustria il governo del quadro generale del sistema.
Gli stessi contratti nazionali firmati contenevano visioni e strategie differenti anche tra le stesse categorie dell’industria. Più nel solco della continuità chimici e alimentaristi più innovativi i metalmeccanici. Sul tavolo del negoziato attuale però sono sempre restate due questioni non di poco conto.
La richiesta di Confindustria di entrare con un proprio contratto di riferimento nel cosiddetto “terziario industriale” e la richiesta dei sindacati di esigibilità certa, e quindi di estensione, della contrattazione aziendale in un quadro di modifica e di alleggerimento della contrattazione nazionale.
La prima indigesta ai sindacati e foriera di dumping salariale tra imprese e settori in competizione. La seconda indigesta alle imprese che non sembrano disponibili ad accollarsi alcun obbligo di contrattazione aziendale. A quel punto la portata del Patto di fabbrica si è inevitabilmente sgonfiata.
Gaetano Sateriale della CGIL su Twitter però si dichiara comunque soddisfatto “se nell’accordo ci saranno regole sulla rappresentanza, se i CCNL potranno andare oltre inflazione e se si aprirà davvero una nuova stagione di contrattazione decentrata”. A mio modesto parere auspici interessanti seppur di ardua attuazione concreta.
Così come la giornalista Nunzia Penelope che, sul Diario del Lavoro, ritiene che un accordo tra Confindustria e sindacati confederali è comunque importante prima delle elezioni perché impedirebbe (o condizionerebbe) un intervento legislativo prossimo venturo. Preoccupazione, questa, sicuramente da condividere.
Marco Bentivogli e Carlo Calenda hanno, però, da poco rotto gli indugi e presentato una proposta che, di fatto, si pone tra le divergenze tra i sindacati e i tatticismi di Confindustria rilanciando la questione industriale a tutto tondo ma contemporaneamente anche quella della importanza del confronto tra imprese e sindacati a livello aziendale.
Quasi contemporaneamente, è partito un segnale di guerra nel comparto chimico ben sintetizzato da Emilio Miceli, segretario generale della Filctem CGIL: “Con la sua chiusura al confronto sulle verifiche inflattive, l’organizzazione datoriale, pensa di cambiare la natura del contratto stesso per assecondare Confindustria e ricondurre l’insieme dei contratti dell’industria sotto l’influenza del CCNL dei metalmeccanici.”
Uno scontro che non abbassa per nulla la tensione e rischia però di determinare uno stallo generalizzato. Con o senza accordo confederale.
La morale che se ne ricava però è molto semplice. Le imprese (non solo quelle industriali), pur non confessandolo apertamente, non vogliono alcuna estensione della contrattazione aziendale. Anzi. Vorrebbero una maggiore libertà di manovra a livello aziendale pur all’interno di regole generali. Meglio se nazionali. Soprattutto non vorrebbero due livelli (nazionale e aziendale) aggiuntivi né che i contratti nazionali vadano oltre il recupero inflattivo.
I sindacati confederali (insieme o in parte) pur non condividendo questa impostazione, hanno comunque interesse a concludere un accordo nel solco di quelli che lo hanno preceduto pur senza nutrire soverchie illusioni sulla esigibilità di quanto sarà concordato.
Se così sarà il vertice di Confindustria ne uscirà, però, comunque indebolito dovendo rimandare al prossimo percorso contrattuale delle sue categorie la soluzione delle differenti strategie presenti al proprio interno abdicando ad un ruolo che gli era sempre appartenuto.
Il rischio è però che, senza punti di riferimento autorevoli e credibili e un governo forte del sistema delle relazioni industriali la disintermediazione nei confronti delle rispettive organizzazioni di rappresentanza riprenda con forza dal basso. E non solo nei confronti del sindacato confederale. Con tutte le conseguenze negative del caso.