Contratti aperti, uno spunto di riflessione..

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All’ordine del giorno non c’è solo il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Altri contratti attendono da lungo tempo una loro conclusione. Turismo, grande distribuzione, pubblici esercizi, dirigenti del terziario, solo per citarne alcuni tra i principali del mondo del terziario, segnalano una vera difficoltà a comprendere il profondo cambio di contesto e quindi la necessità di adeguare le rispettive strategie alle mutate condizioni e necessità delle imprese e dei lavoratori coinvolti. E, di conseguenza, al ruolo delle rispettive organizzazioni di rappresentanza. Fare a tutti i costi un contratto non è un imperativo categorico per nessuno. Se ne può fare anche senza. Almeno per un certo tempo. Per poterlo sottoscrivere, però, occorrono alcune condizioni irrinunciabili. Innanzitutto le parti si devono riconoscere e accettare. Che, piaccia o meno, l’interlocutore individuato dalla rispettiva controparte è colui che è seduto dall’altra parte del tavolo. Non si sceglie, si trova. E l’interlocutore, con tutta evidenza, rappresenta interessi e punti di vista diversi dai propri. In secondo luogo occorre comprendere ciò che è strumentale o tattico da ciò che, invece, è determinante e irrinunciabile per l’interlocutore. L’errore più frequente è la personalizzazione. I neofiti della contrattazione lo commettono spesso. Pensare che lo stallo sia causato dall’interlocutore, dalla sua mancanza di duttilità o dal suo eccessivo protagonismo e non dai problemi posti sul tavolo. In terzo luogo occorre evitare di ritenersi comunque in una posizione di forza o di poter giocare carte che, in altri tempi o in altri contesti hanno funzionato. Il mondo cambia. Il sistema relazionale, di conseguenza, cambia anch’esso. Non accorgersene, a certi livelli, segnala un evidente insufficienza di leadership. In quarto luogo occorre sapere sempre che i negoziati non si improvvisano ma si preparano. I cosiddetti “sherpa” esistono proprio per individuare i possibili punti di contatto. Non servono se si vuole litigare all’infinito. Quando i punti di contatto non ci sono significa solo che qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro preparatorio. O che il negoziato non è ancora maturo. In quinto luogo occorre capire quando, alla propria parte, va spiegata la natura concreta di ciò che è quel negoziato in quel contesto economico e sociale. Il cui esito è comunque una intesa che rappresenta quasi sempre la risultante di un equilibrio complesso tra dare e avere. In sesto luogo occorre capire quando è il momento di chiudere. Perché quando, e se, quel momento non viene colto, il negoziato tende a complicarsi ulteriormente. I sindacati (datoriali e dei lavoratori) servono proprio per trattare e sottoscrivere accordi altrimenti non servono a nulla. Sperare che le rispettive basi si accontentino di colpevolizzare la rigidità della controparte in eterno è un altro segno di indebolimento della propria leadership. Che prima o poi, si ribalterà su chi  lo sostiene. Infine la qualità del risultato. Firmare un contratto da cui non se ne ricava un buon giudizio è un segno di fragilità di un gruppo dirigente. Un accordo utile, per essere tale, lascia entrambi i contendenti “moderatamente” insoddisfatti. È la natura del compromesso a renderlo tale. Ma un gruppo dirigente che firma un accordo e un minuto dopo lo critica dovrebbe rassegnare le dimissioni. O per “intelligenza con il nemico” o per dabbenaggine. Gli accordi, ed è questa la chiave del successo, devono sempre chiudere una fase e saperne aprirne una nuova. Per questo chi li firma non è mai sconfitto. Anzi. Dimostra forza, lungimiranza e credibilità. È chi si tira indietro o chi sconfessa ciò che fa che dimostra solo di non essere all’altezza del mandato.

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