Contratto nazionale del commercio. I sindacati hanno ragione ma le aziende non hanno torto…

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Difficile fare pronostici. Da una parte le buone ragioni del sindacato di settore. L’inflazione colpisce gli addetti come i consumatori. Tenere fermo il rinnovo a oltre due anni dalla scadenza per le diatribe tra le controparti datoriali rischia di trasformarsi in un boomerang. Ha ragione Vincenzo Dell’Orefice della Fisascat CISL a sottolineare che nascondersi dietro l’aumento dei costi per evitare il confronto di merito di un contratto nazionale, che ha una vigenza pluriennale, non è un motivo sufficiente. “Chi non vuole rinnovare un contratto trova sempre un motivo (il covid, la guerra, l’inflazione ecc).” Il punto è, come ci ricorda un  saggio proverbio africano,  che chi vuole sul serio qualcosa cerca una strada. Non una scusa.

Aggiungo che le stesse associazioni datoriali, in primo luogo  Confcommercio e Federdistribuzione impegnate in una estenuante competizione sulla rispettiva rappresentatività nel comparto rischiano di perdere la necessaria autorevolezza fondamentale per guidare un negoziato  complesso. I segnali ci sono tutti. Da un lato la fuga dal CCNL di Federdistribuzione di alcune aziende associate verso altre formule contrattuali, mascherato, in termini numerici, con l’arrivo di importanti nuove aziende.

Dall’altro le dichiarazioni di Donatella Prampolini responsabile Confcommercio dell’area  lavoro quando annuncia che per impedire giochi al ribasso nel prossimo rinnovo di altre organizzazioni datoriali andrà  richiesta ai sindacati “una clausola di salvaguardia con l’obiettivo di impedire il dumping contrattuale”. La Confcommercio avrà quindi bisogno di un pezzo di carta firmato dai sindacati in sede di rinnovo che garantisca un riallineamento economico/normativo nel caso  altre organizzazioni datoriali dovessero ottenere di più dagli stessi sindacati.

Confcommercio non è più in grado di mettere in campo l’autorevolezza del Presidente Sangalli ormai ai titoli di coda né il peso della confederazione su questa materia né la fermezza necessaria con le rispettive controparti. Donatella Prampolini ha addirittura definito “furbata” lo sconto salariale ottenuto da Federdistribuzione e da Confesercenti nel rinnovo precedente. Non un tragico errore dei sindacati che non si dovrà più ripetere pena l’interruzione di ogni relazione seria. Oggi serve una garanzia scritta. È proprio la fine di un ciclo.

Ma sul rinnovo, e questo va sottolineato,  pesano anche le ragioni delle imprese. Sarebbe un errore limitare l’analisi a quelle dei sindacati e l’impasse delle rappresentanze. E i segnali nelle vertenze aziendali aperte non incoraggiano facili ottimismi. Dal mondo cooperativo a PAM passando per  Eurospin solo per citare gli ultimi casi sta emergendo da parte sindacale un’avversione pregiudiziale ogni volta che il tema  della produttività viene declinato nelle situazioni concrete.

All’interno del perimetro aziendale è evidente che se per un’industria manifatturiera  l’efficienza delle risorse e il tempo impiegato influiscono sulla qualità e sul costo del  prodotto finale calcolarla in un comparto economico come quello della Grande Distribuzione dove al centro c’è il cliente, i suoi comportamenti  e la sua soddisfazione, il discorso si complica.  Sostanzialmente imprevedibile nella sua decisione di scegliere se e quando entrare in un negozio piuttosto che in un altro, interessato a trovare uno o più prodotti specifici con un livello di servizio adeguato e poco propenso a fare lunghe code alle casse.

Compito del gestore del tempo di lavoro degli addetti è garantire tutto questo in termini di orario di apertura del punto vendita, gestione della logistica di  magazzino, riempimento continuo degli scaffali, pulizia del negozio e pianificazione dell’organico necessario. Su quest’ultimo punto la produttività del lavoro si estrinseca garantendo la minima differenza possibile sul piano individuale tra le potenziali attività presenti nelle ore di presenza al lavoro in un determinato periodo e quelle effettivamente retribuite. Quindi la produttività del lavoro  cresce quando l’organico è gestito senza ridondanze, all’interno di un costo complessivo previsto a budget, distribuito sugli afflussi  delle persone e quando il clima interno consente le necessarie correzioni in corsa e tutti gli elementi concorrono affinché il cliente esca soddisfatto dopo l’acquisto così da decidere di ritornarci in futuro.

La produttività del lavoro non si realizza solo guardando  alle prestazioni singole dei dipendenti in sé ma ai tempi di risposta di ciò che sta a monte del negozio, alle metodologie e ai processi di lavoro. Più efficiente ed efficace sarà una determinata gestione, maggiore sarà l’indice di produttività. Ovviamente gli imprevisti sono all’ordine del giorno per varie ragioni (rotture di stock, assenze improvvise, flussi di clientela, ritardi o errori nella consegna della merce, ecc. e il contratto nazionale, laddove è applicato alla lettera può però introdurre elementi di rigidità organizzativa. Alcune prevedibili (ferie, pause, distribuzione dell’orario di lavoro, effetto promozioni, ecc.) altri meno (malattie, afflusso clientela, rischieste di pulizie improvvise, imprevisti, ecc.).

La contrattazione nazionale ha affrontato e risolto alcune problematiche specifiche (nastri orari, malattie brevi, picchi di attività, pause, ecc.) mentre la contrattazione aziendale  è spesso venuta incontro a queste problematiche derogando le rigidità presenti nei testi contrattuali (apertura nuovi punti vendita, utilizzo straordinari, lavoro domenicale, turnazioni, ecc.). Pensare oggi di proporre ulteriori scambi tra incrementi di produttività nel contratto nazionale e richieste salariali in un comparto dove l’innovazione tecnologica non sposta più di tanto il problema e dove gli incrementi di produttività già si ottengono riducendo l’occupazione e migliorandone il suo utilizzo rischia di essere fuorviante.

Per questo è necessario ritornare nel punto vendita affrontando ciò che il CCNL ha determinato in un’epoca dove la crescita continua rendeva possibili gestioni delle risorse più lasche.  Il sindacato conosce benissimo le differenze applicative tra le diverse insegne e nei territori. Così come sa che la presenza sempre più diffusa del franchising ha effetti anche sulla qualità del lavoro e sul rispetto delle regole del gioco.  L’organico di un punto vendita non è oggi né comprimibile né incrementabile quindi al di là dell’obiettivo di tenere sotto controllo il costo del lavoro non potendo aumentare significativamente il proprio fatturato le leve a disposizione comprendono inevitabilmente i tempi determinato, i part time involontari e gli orari spezzati e la polivalenza delle mansioni anche verso il basso.

E questo penalizza (in termini di confronto)  le superfici più grandi proprio nel momento di massima crisi contribuendo inevitabilmente ad accentuarne  il declino o i punti vendita dove la presenza sindacale introduce rigidità nella gestione dell’orario e nella sua distribuzione.

Da qui viene parte delle ostilità delle singole imprese a negoziare. Dalla convinzione che il sindacato non riesca a comprendere le dinamiche di un negozio in un contesto di crisi e della centralità del servizio al cliente. Quindi torti e ragioni più che aiutare ad individuare soluzioni possibili rischiano di lasciare il campo ai rapporti di forza. E il rinnovo contrattuale resta fermo.

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