Corresponsabilità e nuove relazioni industriali

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Non si può parlare di “Partecipazione” nel nostro Paese senza ricordare gli eccellenti studi del prof. Baglioni e dei suoi discepoli dell’Università Cattolica, molto vicini alla CISL, dei centri studi di derivazione datoriale come il Centro Studi sui problemi dell’impresa (CESIPI) ispirato dall’UCID (Unione Cristiana imprenditori e dirigenti) o altri soggetti molto attivi intorno agli anni 70/80. Anni di conflitto ma anche anni di ricerca sociale. Quella che manca oggi dove, purtroppo, i giuslavoristi (alcuni dei quali lontani anni luce dalla realtà delle imprese) hanno preso il sopravvento nelle discussioni sul tema. La stessa “prima parte dei contratti”, quella dedicata al confronto sulle strategie aziendali, puntava in quella direzione ma è durata, di fatto, una breve stagione sindacale. In quegli anni è decollata anche la “bilateralità” (soprattutto nel terziario) ma sempre come strumento discendente dal contratto nazionale a cui delegare solo compiti specifici, seppur importanti. Nulla di tutto questo ha contribuito a far crescere una nuova cultura nelle imprese e tra i lavoratori che, in qualche modo, superasse le dinamiche del rivendicazionismo e quindi della conflittualità tipici del modello di relazioni industriali italiano. Una conflittualità e un antagonismo che hanno, nel tempo, perso la loro spinta propulsiva, da parte sindacale, con l’avanzare delle crisi che si sono via via succedute. Quel modello ha però continuato ad esistere protraendosi, di fatto, fino ai giorni nostri. Il punto nuovo è che la globalizzazione, la conseguente crisi del fordismo e l’affermarsi di nuove culture e tecnologie, lo hanno reso marginale. Oggi non serve più “comprare” solo il tempo di una persona né considerarla un pezzo fungibile di un sistema più complesso. Oggi occorre costruire un rapporto continuo di scambio professionale e di reciproco interesse che implica: ingaggio, condivisione, remunerazione, coinvolgimento e sviluppo. Sempre più personalizzato e non necessariamente per tutta la vita. E questo modello rende inutile o marginale un sindacato che volesse continuare una politica rivendicativa di stampo tradizionale. Soprattutto in un contesto di PMI che nascono e muoiono con maggiore frequenza determinando quindi in un mercato del lavoro molto più competitivo, mobile e globale rispetto al passato. Ma un modello partecipativo ha bisogno di un contesto sociale e culturale che in Italia non c’è. Sia tra i lavoratori sia tra gli imprenditori. Così, mentre è scontato che per alcuni sindacati quel modello rappresenti un ancoraggio ideale, il tramonto del fordismo pone altre sfide, qui e ora. L’impresa oggi è inserita in filiere globali, ha un core business specifico, lavora sempre più con terzi e non appartiene più ad un settore in modo rigido. Sviluppa partnership con fornitori e clienti, interagisce a monte e a valle con il suo mercato e con i suoi consumatori. È un’impresa sempre più a rete dove i confini, le responsabilità e gli obiettivi si devono necessariamente condividere. L’impresa, sempre più deve collaborare con il mondo esterno ed evolvere anche al suo interno sulle stesse modalità di lavoro, sul suo contenuto, sul contributo che viene messo in campo dai collaboratori e sul suo riconoscimento. L’impresa non è più in grado di assumersi rischi di investimenti, diventati enormi, da sola né di goderne in solitudine i vantaggi generati. Deve necessariamente condividerli. A monte con produttori, fornitori, istituzioni e banche. A valle con i propri manager, collaboratori, territorio e consumatori. È la nuova frontiera della corresponsabilità di cui parla il neo presidente Boccia. L’impresa può crescere, generare ricchezza e distribuirla solo se il contesto ne favorisce lo sviluppo in un mondo sempre più competitivo. L’imprenditore da solo non può farcela. E l’azienda e il contesto nel quale è inserita rappresentano il nuovo perimetro nel quale il sindacato deve trovare la sua nuova posizione in campo. Altrimenti rischia di essere superfluo. I modelli di coinvolgimento, condivisione e ingaggio dei collaboratori sono già in una fase molto avanzata in molte imprese. E non comprendono il sindacato. Le aziende della tecnologia, dei servizi alle imprese e della consulenza si muovono spedite e innovano modalità di lavoro, luoghi e metodi di gestione dei collaboratori. Soprattutto con i più giovani. Certo, non tutto è cambiato, ma il modello di riferimento è quello. Ed è un modello che esce dai vecchi confini organizzativi e dai vecchi vincoli contrattuali. Per questo ritengo che la sfida lanciata da Federmeccanica sia importante. Perché è innanzitutto una sfida culturale. Presenta dei rischi per il sindacato? Certo che sì. Il rischio di relazioni dirette nell’impresa tra capitale e lavoro che escluda i sindacati confederali, il progressivo consolidamento di “sindacati aziendali”, la messa in discussione di un modello che faceva nella “solidarietà tra uguali” il suo punto caratteristico, la concorrenza non solo tra giovani e anziani ma anche tra lavoratori di aziende diverse o di Paesi differenti. Parlare di “corresponsabilità” può portare anche in questa direzione. Ma questo presuppone un sindacato che non reagisce alle sollecitazioni del contesto. Un sindacato rassegnato che attende le proposte altrui. Un sindacato che non ha una sua lettura della “corresponsabilità” come gradino verso modelli futuri ancora più innovativi. Personalmente non so come si chiuderà il negoziato sul rinnovo contrattuale dei metalmeccanici in corso. So che Federmeccanica ha posto “il” problema. Le organizzazioni sindacali possono accontentarsi di respingere in tutto o in parte il potenziale strategico contenuto in quella proposta. Possono non condividerla o perfino banalizzarla. Il rischio è che la sottovalutino perché la vera svolta è lì dentro. Non c’è, come sembra pensare Landini, una proposta provocatoria da respingere al mittente. C’è una impostazione che guarda lontano. Vedremo come andrà a finire.

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