La vicenda dell’interruzione del negoziato per il rinnovo del CCNL di Federdistribuzione è certamente da inserire in un contesto più ampio che vede, non solo le imprese della GDO, in difficoltà sul versante dei fatturati, dei margini e del costo del lavoro in particolare. La ricerca di nuovi modelli di business, la saturazione dell’offerta in molte realtà territoriali, l’impossibilità di scaricare sui prezzi gli aumenti richiesti rendono il quadro contrattuale del settore piuttosto complesso. E se a questo aggiungiamo che le difficoltà sono presenti anche in altri comparti del terziario commerciale e del turismo ci rendiamo conto che il problema assume connotati più ampi sui quali occorrerebbe riflettere più in profondità. La stagione delle vacche grasse è finita da tempo e, per questo, non hanno più ragione di esistere condizioni e concessioni aziendali erogate in tempi lontani quando la crescita era a due cifre. Il sindacato del settore lo ha capito benissimo e si muove con estrema cautela contrattando o subendo l’iniziativa delle imprese a livello locale, che chiedono e ottengono sospensioni di norme contrattuali aziendali o spingono per ottenere la trasformazione o l’abolizione temporanea di istituti ormai datati. Ovviamente le aziende non sono tutte uguali. Alcune intravedono nuove opportunità di business e si attrezzano, altre continuano lentamente un declino inarrestabile. Il confronto tra di loro, sul piano commerciale, è sempre più aggressivo perché gli strumenti a disposizione sono gli stessi, così come i clienti e la loro disponibilità economica. Per questo le tipologie delle prestazioni, i nastri orari, il lavoro domenicale e il suo costo, le differenze di retribuzione tra giovani e baby boomers, sono problemi centrali in queste realtà che, addirittura, possono comportare chiusure o compromettere le aperture di nuovi punti di vendita. Il commercio per sua natura non delocalizza, però, i grandi gruppi internazionali possono investire altrove con maggiore convinzione, se disincentivati. E questo non è un bene. Il sindacato, dal canto suo, non è sostanzialmente in grado di reagire su di un terreno diverso dal passato. Da un lato perché è sempre stato poco propenso a entrare in conflitto con la sua base di riferimento. I baby boomers, appunto. Vicini alla pensione, legge Fornero permettendo, sono i più sindacalizzati ma anche i meno disponibili al cambiamento. Dall’altro lato si trova a dover gestire il rapporto con l’insieme dei lavoratori, soprattutto quelli più giovani preoccupati per il loro contratto e quindi del futuro del loro posto di lavoro che sfuggono inevitabilmente ai richiami della solidarietà sempre più impegnati a “combattere” sotto la propria insegna aziendale “contro” le altre insegne e poco attirati da aumenti irrisori che non scaldano certamente i cuori né mobilitano le coscienze. Quindi “il cane si morde la coda”. Le aziende non hanno margini di manovra, il sindacato pure. Come se ne esce? Innanzitutto rendendosi conto che lasciare ai rapporti di forza la soluzione dei problemi non è mai una mossa intelligente. Non lo è stata quando il pendolo oscillava in favore dei sindacati, non lo è oggi dove i rapporti di forza sono a vantaggio delle imprese. Attendere tempi migliori lasciando marcire una situazione dove al disagio delle imprese si somma quello dei lavoratori che, pur non seguendo le indicazioni dei sindacati, sanno benissimo di avere retribuzioni nette basse, non è una buona cosa. Non lo è per l’economia in generale come tra l’altro ha sottolineato la stessa Banca d’Italia, non lo è per l’impegno che viene giustamente richiesto ai propri collaboratori nei confronti dei clienti e non lo è perché, l’umiliazione dei sindacati e la banalizzazione del loro ruolo, porta con sé fenomeni di radicalizzazione imprevedibili, purtroppo già presenti in altri comparti economici. Il lavoro della GDO è spesso sottovalutato e l’impegno delle imprese nell’assunzione continua di giovani poco considerato. È un errore. Nei punti vendita, si cresce, si imparano mestieri, ci si forma anche per professioni e per carriere ben più importanti. Il clima interno però è decisivo e quindi le aziende non credo siano indifferenti alla necessità di trovare soluzioni condivisibili. Inoltre, gli accordi, quando sottoscritti con convinzione sono fondamentali per accompagnare il contesto sia nella crisi che nella ripresa quando le imprese si troveranno nell’assoluta necessità di sviluppare una situazione sempre più collaborativa. In secondo luogo anche il sindacato deve capire che non si possono più distribuire risorse senza averle prima create. Se l’inflazione è praticamente inesistente, i costi non possono aumentare se non legati concretamente ad incrementi di produttività reale. Le aziende non hanno solo il costo del contratto nazionale. Nel contratto dei metalmeccanici, ad esempio, i sindacati del settore hanno calcolato che solo il 5% dei lavoratori non hanno percepito benefici economici, in linea con i minimi contrattuali proposti, nel quadriennio precedente. Quindi esiste un effetto trascinamento dei costi e una incidenza della contrattazione aziendale che non possono non essere considerati. Se questo è vero, occorrerebbe riflettere sulla necessità di costruire un sistema a vasi comunicanti che garantisca alle imprese una certezza dei costi nel quadriennio di riferimento con la disponibilità a intervenire per modificare gli squilibri provocati nelle imprese dalla contrattazione passata o da situazioni di crisi momentanee. Pensare però che questo possa avvenire con automatismi gestiti unilateralmente dalle aziende e non all’interno di deroghe e confronti tra le parti è una ingenuità e quindi un errore. Il CCNL nel quadriennio costerà lo stesso importo per tutte le imprese sia quelle che applicano il contratto del terziario di Confcommercio sia per coloro che dovessero applicarne un altro. Non ci saranno sconti o scorciatoie per nessuno anche perché i rischi di dumping tra imprese sono evidenti a tutti. Quindi non è su questo che si dovrebbe giocare la partita. Così come nessuno può pensare di rientrare nei fondi contrattuali gestiti da Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali dopo esserne usciti accusando ingiustamente chi è restato e sbattendo la porta senza individuare modalità comuni, interessi in gioco, convenienze e percorsi credibili per tutti. Una matassa intricata, dunque. Inestricabile se sul tavolo permangono rancori, sospetti e atteggiamenti poco costruttivi anche perché nessuno può vantare diritti esclusivi di rappresentanza che non esistono e che la presenza di quattro contratti nazionali dedicati vanificherebbe di per sé… Inoltre è ormai chiaro che fare un contratto nazionale non è come fare un contratto aziendale, un po’ più grande. È un altro film. Forse qualcuno comincia a rendersene conto adesso. Le aziende della GDO, che si riconoscono in Federdistribuzione, ne hanno condizionati molti di quelli sottoscritti da Confcommercio negli anni e le esigenze vere delle imprese sono sempre stati tenute in grande conto. Come nell’ultima tornata. Quindi sarebbe molto più utile ricominciare da qui guardando avanti. E solo da qui partire per valutare se è come il confronto può essere effettivamente concluso in un comparto, tra l’altro senza esclusiva, o all’interno di una riflessione nuova, più ampia e condivisa in rapporto a ciò che sta evolvendo sul piano generale. Le organizzazioni datoriali hanno un ruolo solo se sanno interpretare le istanze delle imprese nel contesto dato. Per questo devono sapersi posizionare sempre un passo avanti per evitare che prevalgano atteggiamenti tattici o non dotandosi, di fatto, di una strategia a lungo termine. Il campionato è lungo però bisogna comprendere a fondo le regole del gioco, gli interessi in campo e gli obiettivi di ciascuno. I sindacati, datoriali o dei lavoratori, servono se affrontano e se riescono a risolvere i problemi dei propri associati di oggi ma anche di domani. Qui come altrove. Anche perché, come ricorda J.F.K. “non puoi costruire nulla con chi dice ciò che è mio è mio e ciò che è tuo è negoziabile”….