In un recente confronto su Twitter in cui lamentavo la latitanza di Confcommercio sul tema del lavoro, pur essendo titolare del più importante contratto nazionale, mi ha fatto riflettere la risposta di Francesco Rivolta, ex Direttore Generale: “Il vero problema è che Confcommercio non si è mai posta il tema del lavoro come questione centrale del suo essere organizzazione di rappresentanza. Il contratto è visto solo come strumento che può incanalare sul sistema e nel sistema benefici economici”.
Un’affermazione forte che rischia però di fotografare una realtà più di mille analisi sociologiche sui ritardi culturali, sull’interpretazione dei bisogni reali delle imprese, sull’evoluzione dei mestieri e del lavoro nei differenti comparti del terziario di mercato. Tutte le indagini commissionate dalla Confederazione individuano nella titolarità del contratto nazionale e dei suoi risvolti applicativi una delle ragioni principali dell’adesione associativa.
Milioni di individui sono gestiti in centinaia di migliaia di imprese grandi e piccole dagli strumenti discendenti dal contratto nazionale e, nel vertice politico della Confederazione continua ad essere assente una moderna cultura del lavoro. Ed è pur vero, che l’insieme degli strumenti discendenti dai contratti nazionali storna importanti risorse ogni anno sia a Confcommercio che, in quota parte, alle organizzazioni sindacali. Ma questo semmai consente l’agibilità e la gestione organizzativa pur importanti ma non aggiunge autorevolezza alle parti socie.
La leadership di Confindustria in materia di lavoro non è casuale. Nasce nel duro confronto con i sindacati nei diversi comparti produttivi che hanno dato forma al sistema delle relazioni industriali del nostro Paese. Contenuti ed equilibri individuati sono poi tracimati negli altri comparti. Sono arrivati nel comparto del commercio sostanzialmente tramite la Grande Distribuzione dove fortunatamente hanno trovato sindacalisti accorti che sono riusciti a incanalare il fiume in piena scaricandolo, da un lato, sulla contrattazione aziendale delle grandi imprese, e, dall’altro verso un interessante sistema bilaterale che, almeno nelle origini, aveva certamente ben più nobili intenzioni.
E così mentre Confindustria imponeva la sua leadership e una cultura sostanzialmente fordista e impersonale sul lavoro (non solo sulle relazioni industriali) Confcommercio e i sindacati di categoria conquistavano spazi in un terziario povero, ancillare, a basso valore aggiunto e costantemente alla ricerca di risparmi sui costi attraverso un modello contrattuale “à la carte”. Salario minimo ante litteram per le piccole imprese con normative abbastanza lasche per tutti.
Le grandi ristrutturazioni dell’industria, le terziarizzazioni e l’affermarsi di un terziario innovativo dove la qualità del lavoro e delle persone è diventata fondamentale ha trovato Confcommercio e i sindacati di categoria “al posto giusto al momento giusto” e Confindustria in ritardo, completamente spiazzata sia da un sistema contrattuale basato sulle gelosie e sulle resistenze dei differenti comparti industriali ma anche dal trovarsi prosciugati i conti correnti dai costi imposti per il mantenimento della sua leadership. A cominciare dai costi del loro quotidiano.
I tentativi di uscire dall’angolo però ci sono stati. La proposta del “Patto della fabbrica” che pur non decollando ha segnalato una volontà di cambio di passo, la stessa firma dei contratti nazionali principali con in testa quello dei metalmeccanici e, infine, i tentativi di alcune associazioni territoriali, a cominciare da Assolombarda, hanno contributo a segnare una prima rottura tra un modello fordista e “aggressivo” di relazioni industriali a uno più incentrato sulla collaborazione, la crescita delle persone e il ruolo delle parti sociali. Ovviamente la strada è ancora lunga ma, credo, sia ormai stata tracciata.
Dall’altra parte, Confcommercio.
Seduta abbastanza “casualmente” su un enorme deposito aurifero (il terziario italiano), senza rendersi conto del potenziale e delle sue esigenze, sonnecchia sugli allori del passato.
E conferma questo suo navigare a vista mettendo l’area del lavoro, della bilateralità e financo la rappresentanza nel CNEL nelle mani di un esponente del piccolo commercio di vicinato. Non critico la persona in sé. La conosco poco. Critico il segnale. Per stare nel mio settore di provenienza, la GDO, è come mettere un vegano a capo reparto della macelleria.
La battaglia sul terziario italiano, sul suo peso nella filiera e su come organizzarne il lavoro è ancora tutta da scrivere. Confindustria (e non solo) ha capito che ha davanti un’autostrada libera. Soprattutto che il sistema bilaterale ha enormi potenzialità sia per i servizi che può offrire a imprese e lavoratori ma anche per le importanti risorse che genera per chi lo gestisce.
In fondo basterebbe avere il coraggio di un suo ridisegno intelligente con al centro imprese e lavoro da opporre alla logica di “una poltrona per due” oggi imperante. Serve un contratto innovativo che sappia andare oltre le dattilografe e l’idea di lavoro povero da sottopagare. Serve un’idea moderna di collaborazione e di incentivazione, serve un nuovo modello che, soprattutto con il probabile arrivo del salario minimo, apra al welfare, ad un inquadramento più flessibile, alla formazione continua e alla contrattazione territoriale. Serve un’idea di politiche attive che parta dall’esperienza fatta con Manageritalia e sappia andare oltre. Serve quindi un sistema moderno efficace ed efficiente di bilateralità non esposto a continue critiche e dubbi.
Il lavoro, nella sua accezione più ampia, quindi torna centrale. Nel confronto con il Governo e con i partner sociali. C’è chi l’ha già capito e chi no. Speriamo non sia troppo tardi.