Le discussioni recenti sui processi di delocalizzazione coinvolgono poche imprese industriali. Situazioni politicamente rilevanti sul piano locale ma assolutamente marginali sul piano generale. Sufficienti però a scatenare polemiche inconcludenti quanto inefficaci tese a contrastare un fenomeno che ha ragioni profonde. O proposte di legge elaborate per restare in un cassetto perché destinate a produrre più danni di quelli che si vorrebbero evitare.
A volte si semplifica assegnando al termine “delocalizzazione” un significato semplicemente negativo perché legato a ciò che provoca in termini occupazionali alla realtà che chiude dimenticando che le imprese, se coinvolte in processi di internazionalizzazione della catena delle forniture restano competitive solo se inserite in catene globali di produzione.
E questo le spinge non solo ad operare sul piano dei costi e del superamento di burocrazie e vincoli legislativi locali ma a concentrarsi, attingere alle migliori risorse, a sistemi scolastici collegati, ai mercati di sbocco e di approvvigionamento più profittevoli, a nuove tecnologie di prodotto o di processo.
Nessuno lascia un sito produttivo per ragioni banali. Così come nessuno lascia a cuor leggero fornitori provati e partners consolidati che interagiscono a livello locale. Né sostituisce facilmente materiali e produzioni di comprovata qualità, forma daccapo nuovi lavoratori, cerca le competenze necessarie e impegna la propria immagine in scontri sindacali e polemiche politiche se non per motivi seri e strategie costruite a livello globale.
Entrare nel merito di queste decisioni sia per la politica che per il sindacato è praticamente impossibile soprattutto perché un’impresa globale nel momento del confronto locale ha già preso la sua decisione. Ha già impegnato risorse per studiarne la fattibilità, preso accordi con i Paesi coinvolti, ha definito impegni con i fornitori di materiali e di servizi, stabilito le contropartite sociali.
Nel caso di Whirpool, ad esempio, sono passati almeno tre governi che si sono misurati sul tema con la multinazionale che però non ha mai cambiato idea né avrebbe potuto farlo. Ha solo accettato di accompagnare l’agonia del sito di Napoli e di discuterne gli eventuali sostegni economici. Alla fine, se non vogliamo rincorrere ipotesi non percorribili, di questo si tratta.
Un’azienda ha tutto il diritto di chiudere un sito, spostarlo altrove in funzione delle proprie strategie, definire tempi e modalità attuative ma deve (sottolineo deve) farsi carico della gestione delle conseguenze sul piano sociale. Conseguenze che vanno al di là di un’aggiunta più o meno consistente, al sostegno economico temporale pubblico.
Ci sono decine di esempi di impegno concreto al ricollocamento che forse fanno meno notizia ma che assicurano uno sbocco occupazionale. In questo le associazioni datoriali e sindacali a livello locale possono fare molto affinché si creino le condizioni di passaggio tra imprese dello stesso territorio, si formino i lavoratori coinvolti, si stabiliscano le modalità e i sostegni al loro distacco presso le realtà interessate e se ne segua l’inserimento.
La chiusura di un sito non è un accidente a cui non serve prepararsi. Il licenziamento per motivi organizzativi è un aspetto fisiologico della vita di un’impresa. Le aziende creano lavoro, competenze e professionalità che vanno manutenute nel corso del rapporto di lavoro. Soprattutto andrebbe allenata la disponibilità all’apprendimento continuo, a crescere professionalmente imparando cose nuove, mettendole a terra, capitalizzandone il potenziale. Le politiche attive sono la semplice messa a disposizione dell’impresa e del lavoratore di un insieme di strumenti che favoriscono l’occupabilità.
Quindi non è solo l’entità di un indennizzo economico più o meno congruo messo a disposizione. È una responsabilità che va condivisa, una cultura che non lascia sola la persona con il suo problema. Questo dovrebbe essere lo spirito alla base di una legislazione che si ponga il problema di innovare i comportamenti nei luoghi di lavoro. Evita inutili logiche punitive nel confronti delle imprese comunque sempre aggirabili, definisce che la libertà dell’impresa non è in discussione ma contemporaneamente che le conseguenze di quella libertà vanno negoziate nei suoi effetti, implementate e condivise.
Le politiche attive non funzionano né funzioneranno mai se sono semplicemente intese come una serie di elementi burocratici e di strumenti di sostegno temporale tra un posto perso e uno da conquistare. C’è un processo di consapevolezza da maturare, un futuro possibile da intravedere, un percorso di responsabilità da percorrere.
L’azienda che licenzia non ne può esserne estranea. Né delegare semplicemente all’esterno o al pubblico questo passaggio. Deve assumersi un’obbligazione di mezzo ed impegnare energie e risorse affinché questo processo si concluda nel più breve tempo possibile. Vale per la persona e vale anche per il sito dismesso. Agevolarne il riutilizzo è quasi sempre parte della soluzione dell’intero problema.
A mio parere, ritornando al confronto aperto tra Governo e parti sociali servirebbe che lo scontro politico sul tema rientrasse in una logica costruttiva. Se al contrario restasse confinato nella tradizionale materia su cui misurare vincitori e vinti qualsiasi risultato ottenuto sarebbe inutile. Si sedimenterebbe in una cultura che nel 900 non è riuscita ad andare al di là della “legge del pendolo” riproducendo nelle vertenze solo quello che i rapporti di forza sono riusciti a disegnare.