Federico Fubini solleva oggi il problema della difficoltà a trovare lavoratori nella fase della ripartenza (https://bit.ly/3cbWbUn) La polemica tra chi sostiene che i lavoratori dei servizi non si trovano per colpa del reddito di cittadinanza o dei sostegni del lockdown e chi, al contrario, invoca stipendi più adeguati come rimedio del fenomeno è destinata a durare a lungo.
I negazionisti continueranno a sostenere che il problema non esiste mentre gli imprenditori coinvolti, al netto dei soliti furbetti, continueranno a lamentarsi. È indubbiamente vero che i lavoratori sul piano numerico e professionale ci sono.
Se non si trovano occorrerebbe analizzarne le ragioni più che percorrere facili scorciatoie. A differenza del comparto industriale, il commercio e il turismo hanno continuato ad investire nella formazione professionale di base. In un Paese che è fanalino di coda nella formazione universitaria spesso si sottovaluta che la stragrande maggioranza dei giovani si avvia al lavoro dopo la “conquista” di un diploma o appena conclusa la scuola media.
Confcommercio vanta, un poderoso sistema formativo che coinvolge decine di migliaia di giovani che, dopo la scuola dell’obbligo, si avviano al lavoro nei settori del commercio, del turismo e dei pubblici esercizi. Pochi lo sanno ma stiamo parlando della dimensione di un’offerta seconda solo alla scuola pubblica. Non solo Lombardia, Emilia Romagna, e Umbria esistono eccellenze formative diffuse in tutto il Paese che mettono a disposizione di piccoli e grandi imprese giovani e meno giovani formandoli alle richieste del mercato del lavoro. Le micro imprese pescano lì.
In alcuni sottosettori questo sforzo è comunque insufficiente. Se pensiamo che in diversi Paesi dell’est le scuole che preparano macellai sono decine mentre in Italia sono rimaste pochissime, possiamo comprendere la difficoltà, ad esempio, per la grande distribuzione, di trovare personale specializzato sul mercato costringendole a gestire in proprio le esigenze formative e occupazionali del settore.
Bar, ristoranti, alberghi contano anch’essi su sistemi di reclutamento consolidati che assicurano flessibilità alle imprese di ogni dimensione e un inquadramento trasparente e coerente ai lavoratori. La pandemia e il conseguente lockdown hanno creato un momento di rottura che necessita di essere riallineato.
Innanzitutto occorre considerare che non basta schiacciare un pulsante per far ripartire la macchina quando hai tenuto migliaia di persone fuori sia da un meccanismo formativo che di lavoro sostenendo però, questo periodo, con aiuti pubblici. Cosa mai avvenuta in passato. È un mondo che si deve riallineare ma che non segue i colori e i tempi della ripresa.
Più che migliaia di persone che si accontentano del reddito di cittadinanza innanzitutto vedo il rischio che forme perniciose di lavoro nero possano riprendere quota. In secondo luogo si paga il fatto di non avere un contratto unico di riferimento nel turismo e nella ristorazione.
Aver perseguito una gara al ribasso sul costo del lavoro rompendo il CCNL del Turismo, come è avvenuto nell’ultima tornata di rinnovi, ha spinto centinaia di piccoli imprenditori a inseguirsi sul terreno dei costi a scapito spesso della continuità e della qualità dei rapporti di lavoro unica garanzia della professionalità e di fidelizzazione seppure stagionale dei propri collaboratori.
Il reddito di cittadinanza e i sostegni del lockdown sono intervenuti proprio mentre la qualità del rapporto di lavoro aveva già subito una mutazione qualitativa. È innegabile che esiste un problema salariale complessivo e a monte nel nostro Paese principalmente dato dalla differenza tra il costo del lavoro per l’impresa e il salario netto percepito dal lavoratore.
Se poi a questo aggiungiamo che qualsiasi forma di sostegno del reddito, a cominciare da quello di cittadinanza, spinge verso l’alto la richiesta e l’aspettativa di retribuzioni adeguate completiamo il cerchio. Sperare che i rinnovi dei CCNL possano risolvere un problema così complesso è però illusorio anche perché buoni parte del comparto esce stremato dal lockdown.
Però le misure messe in campo dal governo aiutano le imprese riducendone la pressione fiscale ma non favoriscono automaticamente la scelta delle persone. Soprattutto se i contratti offerti sono per qualità e corrispettivo poco interessanti per giovani di generazioni con un approccio diverso al lavoro da chi li ha preceduti.
Spesso si pensa che il problema del lavoro e della sua scarsità può comprimere tutti gli altri aspetti ma non è così. Lo stesso spostamento di parte del rischio di impresa sul lavoro è un dato sotto gli occhi di tutti. Il lavoro cosiddetto povero sotto questo punto di vista andrebbe affrontato seriamente. restituendogli dignità e confini accettabili.
La mancanza di controlli seri ha favorito la proliferazione di contratti pirata, deroghe a tutele e diritti, forme di sfruttamento e di lavoro nero che non possono esistere nel nostro Paese perché penalizzano la maggioranza delle imprese del comparto che rispetta leggi e contratti di lavoro.
La mancanza di lavoratori è un segnale che va colto per quello che è senza strumentalizzazioni o banalizzazioni fuori luogo. Il Paese deve giustamente ripartire ma lo deve fare con la lungimiranza di chi si impegna a costruire perimetri nuovi. Anche per il lavoro.
Una risposta a “Dove sono finiti i lavoratori dei servizi?”