A leggere i giornali sembra immobile. Per alcuni, ormai inutile. Per altri addirittura dannoso. Il Sindacato confederale italiano è messo continuamente in discussione. Sembra affetto da una crisi irreversibile incapace di affrontare un contesto politico, sociale ed economico in continua evoluzione. Non è così. I contratti nazionali che si sono chiusi o che si stanno chiudendo coinvolgono importanti settori produttivi. Non tutti, ovviamente, ma sicuramente quelli che hanno, da sempre, saputo proporre o accettare “scambi” importanti sul piano negoziale. Sono categorie che difficilmente hanno dovuto impegnarsi in prove “muscolari” nei rinnovi contrattuali degli ultimi trent’anni. Se togliamo i chimici che si sono guadagnati da sempre e sul campo il diritto a contrastare sul piano della strategia contrattuale i metalmeccanici, gli alimentaristi e il sindacato del commercio sono sempre stati ritenuti incapaci di produrre riferimenti validi in termini di innovazione ma solo fino a quando i rapporti di forza si sono modificati provocando la crisi dell’egemonia dei metalmeccanici e della loro cultura sul resto del sindacato. Questo ha consentito nel tempo, ad esempio nel terziario, di costruire un solido sistema bilaterale e un welfare di qualità negoziando anche nastri orari, part time, misure di contrasto all’assenteismo e lavoro domenicale particolarmente indigesti per una cultura sindacale tradizionale e accompagnato, nello stesso tempo, lo sviluppo delle imprese. Negli alimentaristi e nei chimici si è impostato, negli anni, un modello di contrattazione aziendale di qualità che ha permesso di affrontare con intelligenza e visione del futuro le ristrutturazioni e le concentrazioni aziendali che si sono via via succedute. Oggi, pur a rapporti di forza profondamente cambiati, quella lungimiranza maturata in tempi passati consente a queste categorie la firma di importanti contratti nazionali e la continuazione di un dialogo utile alle imprese e quindi anche ai lavoratori con l’appoggio forte delle confederazioni. La proposta di “sindacato dell’industria” maturata in casa Cisl consentirebbe, anche ai metalmeccanici, di ritornare a giocare un ruolo forte e condiviso pur nelle diverse sensibilità categoriali che saranno chiamate a costituire questo nuovo soggetto. Resta fuori la FIOM ma la recente scelta di giocare sul confine tra aggregatore sociale e nuovo soggetto politico la porterà a subire le contraddizioni di un’area che, da sempre, vive tra leadership di scopo, agitatori politici d’antan e neo “sandinisti” in concorrenza perenne con i grillini che mantengono comunque una capacità di movimento maggiore e meno vincolata da storie personali e dalle ideologie. La Cgil, nel suo complesso ha tutto l’interesse a giocare di sponda con le altre due organizzazioni confederali e, di conseguenza, l’importante carta dell’unità sindacale, sia per ragioni difensive e di merito ma anche per il suo indubbio potenziale aggregativo. Va inoltre dato merito alla gestione di Susanna Camusso di aver avviato e portato avanti un processo di rinnovamento e ringiovanimento profondo nelle strutture di categoria e confederali che non tarderà a dare frutti anche sul piano politico. Contesto che invece è ancora “a macchia di leopardo” nelle altre due organizzazioni confederali. Comunque i processi di cambiamento sono in atto pur non essendo visibili nettamente agli osservatori distratti o in cerca di scoop troppo semplicistici. Sono processi decisamente lenti (forse troppo) che però segnalano una vitalità che caratterizza tutte le organizzazioni di rappresentanza radicate nei territori, che mantengono solidi valori di riferimento e che, nonostante qualche “mariuolo” e qualche burocrate di troppo, restano ancora un solido punto di riferimento per tutti coloro che non sono in grado di difendersi da soli. L’accordo sulla rappresentanza e la inevitabile intesa sulla contrattazione che presto arriverà vanno ovviamente in questa direzione. E questo al di là del giudizio che si può avere sull’efficacia concreta di queste intese. Quello che manca è forse la volontà di dichiarare esplicitamente e inequivocabilmente il cambio di passo e quindi la nuova direzione di marcia. Pesano sicuramente i guasti prodotti dalla deriva identitaria che ha caratterizzato ben oltre il necessario la storia recente dei rapporti tra le diverse organizzazioni al centro come in periferia, la stagione degli accordi separati e il disorientamento prodotto dai rimescolamenti dell’intero schieramento della sinistra politica e sociale. Ma questo non può più rappresentare un alibi. Sulle spalle dei dirigenti di oggi pesa la necessità di alzare lo sguardo e operare decisamente in una nuova direzione aprendo, se necessario, una vera fase costituente.