Non mi aspettavo alcun ripensamento. Almeno in questa fase. Da parte di Salvini il nemico da battere è l’Europa matrigna che ci ha lasciati soli di fronte al problema dell’immigrazione. Per Di Maio sono le imprese che sfruttano il precariato e impediscono ai giovani di costruirsi il proprio futuro. Messaggi forti. In altre parole: adesso ci pensiamo noi. L’approccio è però contraddittorio.
Morbido con alcune organizzazioni datoriali, ruvido con le imprese. Salvini attacca le aziende che vanno al gay pride a suo dire per farsi pubblicità, Di Maio comincia minacciando le multinazionali della consegna a domicilio e del lavoro domenicale poi lancia il “Decreto Dignità” per annullare mediaticamente il jobs Act proprio il giorno nel quale vengono pubblicati i dati dell’occupazione che segnalano risultati positivi.
Per smentirli sceglie una comunicazione alla Fassina. Lavoro a tempo determinato e precarietà sono sinonimi. Adesso ci penso io. È la ricerca dell’equo consenso. I leghisti tacciono sornioni, destra e sinistra sparano pallettoni a sale contro di lui. Giorgia Meloni definisce il “Decreto Dignità” un impianto marxista, nemico del lavoro.
Non potendo contare su un’internazionale sovranista che alza la cresta in tutta Europa, disponibile al controcanto con gli autoctoni di Pontida, Di Maio offre il petto alla sollevazione delle imprese contando sulla neutralità dei sindacati e sul sostegno di un elettorato a cui promette, senza se e senza ma, la fine del precariato.
Sceglie il tempo indeterminato come misura della buona occupazione per nulla interessato alla trasformazione in atto del lavoro e il tempo determinato come nemico. Poi, c’è tempo, il decreto legge, come sempre, dovrà comunque passare tra le forche caudine in Parlamento e lì si vedrà. Il neo ministro non è nuovo a giravolte quando comprende la dimensione del problema e le sue possibili conseguenze.
E’ singolare sottolineare come le Confederazioni sindacali tentino di rientrare in gioco in questo teatrino pericoloso senza valutare rischi e conseguenze sia nel rapporto con le imprese sia in vista dei prossimi rinnovi contrattuali. Di Maio, credo sia chiaro a tutti, non è Giacomo Brodolini. E neanche Gino Giugni. Non è animato da una strategia di valorizzazione dei corpi intermedi. Quindi una maggiore cautela da parte loro sarebbe utile.
Quello che non ha però compreso Di Maio è che il sistema funziona per vasi comunicanti. Se aumenti i costi delle imprese o ne irrigidisci l’utilizzo sulla tipologia dei contratti queste cercheranno di recuperare in termini di qualità e quantità di occupazione e di costo del lavoro. Quindi il cane si morderà inevitabilmente la coda.
Con conseguenze immaginabili sia sul piano delle future riorganizzazioni aziendali, che delle strategie di investimento sulle risorse umane. E sul modello stesso di relazioni industriali.
L’arbitro non deve scendere in campo e il Paese, in questa situazione, non ha bisogno di Robin Hood. Ha forse bisogno di una politica che guardi avanti e accompagni i cambiamenti in atto combattendo gli abusi e costruendo un sistema innovativo (per il nostro Paese) di politiche attive e di formazione continua che non si fermi alle tipologie del 900 ma accompagni le persone con maggiore efficacia in un mercato che è molto diverso dal passato.
L’ingenuità, che però non può essere di un Ministro o dei suoi collaboratori, è pensare che la flessibilità necessaria per le imprese in un mercato esasperato dalla competizione possa essere bypassata imponendo vincoli lineari a imprese e settori anziché sanzionare gli abusi, che indubbiamente ci sono.
Illudere i più giovani che si apprestano ad entrare nel mercato che, grazie al governo del cambiamento una fase si è chiusa, è un errore. Non sarà così. Il percorso che porta un giovane ad essere utile e importante per un’impresa non lo decide la tipologia contrattuale, così come il suo futuro. Lo decide la sua capacità di integrazione in un contesto organizzativo dato, la voglia di crescere in rapporto alle opportunità o meno che si creano, la disponibilità a condividere i valori dell’azienda e a sentirsi ingaggiato. Tutto questo non è legato ad alcuna tipologia contrattuale. Se però non c’è tutto questo il rapporto di lavoro è destinato a non durare a prescindere dall’idea che un vincolo all’entrata possa cambiare la situazione.
Certo si può buttarla in politica. Sconfessare il jobs act o difenderlo, aspettare le prossime percentuali per cavalcarne l’esito o scambiare i tempi determinato estivi come segnale di deciso aumento del precariato come sta succedendo in questi giorni. E restare però fermi sul fronte dei cambiamenti in atto. Sarebbe un tragico errore che pagherebbero proprio i più deboli.
Quello che spero è che, passato il tempo delle dichiarazioni roboanti di facciata, segua un confronto a tutto campo con gli interlocutori tradizionali sia da parte del Ministro che delle forze politiche in parlamento in grado di proporre e individuare soluzioni concrete e praticabili.