Esselunga. Continua la diaspora….

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In una intervista pubblicata il 29 marzo di quest’anno, il Presidente esecutivo di Esselunga Marina Caprotti di fronte ai risultati positivi dell’azienda aveva messo sul tavolo 500 euro a testa per i dipendenti del Gruppo. Undici milioni di euro per dare un aiuto concreto in difesa dell’inflazione. Un atto di liberalità non dovuto ma significativo in un momento difficile per i 25.000 collaboratori. Eppure qualcosa sembra continui a non funzionare.

Certo in un comparto che deve risalire al 2015 per ritrovare la firma di un CCNL poi scaduto nel 2019 un atto vale più di mille parole. E che una delle principali aziende lo segnali è sicuramente da apprezzare. Sostenere il reddito è importante ma non sufficiente quando è il clima interno ad appesantirsi.

La direzione risorse umane in un’azienda di quelle dimensioni è fondamentale. Ha tre compiti che nessun altra direzione aziendale può esercitare. Innanzitutto presidiare il clima interno. L’azienda è il clima che la pervade. I numeri, pur positivi, seguono. In secondo luogo deve gestire le persone. Una comunità di quelle dimensioni è un insieme di speranze e aspettative, di disponibilità e impegno, di conflitti personali e di gioco di squadra che vanno affrontati e manutenuti costantemente. L’azienda non è una macchina è un corpo vivo che va tenuto in salute. Infine deve “scovare” i talenti necessari e portarli a bordo, ingaggiare quelli che ha all’interno, lavorare sul “talento diffuso” che è presente in ognuno è che, se valorizzato e incentivato, contribuisce più di ogni altra cosa al risultato finale.

Deve prestare grande attenzione alla differenza tra l’opportunismo strumentale che a volte si confonde con il talento, il proliferare degli yesman e la necessaria critica costruttiva. Non esiste la solitudine del comando. Nessuna azienda può essere gestita senza una sana comunicazione a due vie. Se è unidirezionale fallisce nel suo intento principale che resta  quello di ingaggiare ogni risorsa, dalla principale alla più umile, facendola sentire importante, decisiva, utile alla causa.

Ce lo ricorda il famoso apologo dei tre scalpellini di Peter Schultz: «Un viandante cammina per una strada assolata, finché giunge nei pressi di un cantiere, ove tre scalpellini lavoravano sotto il sole cocente. Si avvicina al primo di essi e gli chiede: “Cosa stai facendo?” E quello: “Non lo vedi? Sto sudando!”. Il suo sguardo era torvo e il suo volto affaticato. Si avvicina al successivo scalpellino, gli rivolge la stessa domanda: “Cosa stai facendo?” E quello: “Non lo vedi? Mi sto guadagnando il pane!”. Il suo sguardo era spento e il suo volto rassegnato. Il viandante prosegue e ripete al terzo scalpellino la domanda: “Cosa stai facendo?” E quello: “Ma come, non lo vedi?” Partecipo alla costruzione di una cattedrale!” e i suoi occhi brillavano di soddisfazione e sul suo volto non vi era traccia di fatica.» Chi si occupa di risorse umane conosce bene la differenza di atteggiamento tra i tre scalpellini.

Perdere chi si sente parte di un progetto è l’errore più grande. È come perdere l’anima stessa dell’azienda. “Ma come fanno a non capire la deriva che stiamo prendendo?” è una frase che sento spesso dai miei interlocutori. Non c’è astio. C’è rassegnazione. Non servono comitati, interim  o gestioni collettive delle risorse umane. Chi lascia l’azienda andrebbe semplicemente ascoltato. Le sue ragioni dovrebbero essere discusse dai vertici aziendali. Il colloquio di separazione è altrettanto importante quanto il colloquio di assunzione.

Dietro un addio non c’è, di solito, un nuovo posto di lavoro cercato con  passione. C’è una ricerca inevitabile perché frutto di una resa. Una difficoltà che chi doveva cogliere non ha colto. Troppo facile passare oltre. Non è solo chi se ne va, il problema. È anche chi resta e vede come è gestito chi lascia.  È un corto circuito infinito. Quello che colpisce è il silenzio dei vertici.

Una collega tra i  tanti che lascia l’azienda dopo anni di impegno e di dedizione. Se ne va così, alla spicciolata. Senza fare rumore. Su LinkedIn i colleghi che restano, e che continuano a credere che l’azienda sia altra cosa rispetto a chi la governa pro tempore, la salutano con grande affetto. Sembra però incrinarsi quel senso di comunità che ha caratterizzato Esselunga  per oltre cinquantanni. L’azienda di Pioltello  è sempre stata, prima di tutto, l’aria che vi si respirava al suo interno. Il clima costruito intorno all’autorità e  alla autorevolezza dell’anziano leader. Spesso alla sua durezza.

Esselunga non era diversa e unica solo per i milanesi o più in generale per i suoi clienti. Era un orgoglio lavorarci. Il dispiacere che si percepisce in chi lascia è contagioso. Non è tanto per il freddo comunicato che annuncia che anche l’ultimo Direttore Risorse Umane appena nominato proprio per dare un segnale di novità e sostituire il navigato ed esperto che lo aveva preceduto, lascia l’azienda. “Ha cessato la sua attività” suona in modo sinistro. E con il superamento della funzione assunta ad interim dal presidente esecutivo  sembra venga addirittura superata la necessità di ingaggiare, coinvolgere e impegnare le risorse umane in quello che lo stesso comunicato ammette essere: “una fase delicata e particolarmente importante per la nostra organizzazione”.

C’è una protesta numerosa, triste, silenziosa, composta che accompagna quel “Devo lasciarti, Esselunga” su LinkedIn.  Un post che veramente fa riflettere. Altri hanno lasciato senza dire nulla. In silenzio. Personalmente ricevo decine di segnalazioni. Così va il mondo, oggi, mi dicono ex colleghi e amici. Qui come altrove. Le direzioni risorse umane arrancano un po’ dovunque in crisi di ruolo e di credibilità. Da qui si capisce perché il CCNL scaduto non si rinnova nell’indifferenza generale.

Quello che spesso sfugge alle aziende è che aveva proprio ragione Totò: “È la somma che fa il totale”. Spesso si sottovaluta il collante rappresentato comunque da un CCNL che delimita una comunità in cammino. Semmai si può litigare con i sindacati sui contenuti. Mai sull’utilità dello strumento e sul necessario confronto. Le aziende non declinano all’improvviso. Soprattutto quando i numeri illudono perché continuano a dare loro ragione. Iniziano a declinare quando perdono una parte importante della loro ragion d’essere.

Ma è proprio la capacità di cogliere i dettagli dai contributi di ciascuno indipendentemente dal ruolo occupato che ha sempre fatto la differenza. Lì come altrove. Caprotti senior interpretava questi dettagli portati da chi stava sul campo calibrando le strategie aziendali alle forze e alle energie a disposizione. Oggi tutto questo sembra essersi interrotto. 

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5 risposte a “Esselunga. Continua la diaspora….”

  1. Le risorse umane negli anni scorsi hanno obbligato ad andarsene mio figlio direttore di negozio con vile infame stratagemma per invidia e cattiveria .Le risorse umane in esselunga sono opportunista e vili

  2. Ho trovato estremamente lucido e calzante l’articolo che sottolinea la necessità di cogliere i segnali vitali dell’azienda indipendentemente dal ruolo dei dipendenti che rappresentano sempre lo stato di salute dell’organizzazione. Ricordo l’incontro all’estero con 2 magazzinieri di esselunga risalente ormai a 15 anni fa. Mi aveva ammaliata l’orgoglio e il senso di appartenenza di questi trentenni. Più tardi sono diventata cliente entusiasta dell’azienda dove avverto sempre e ancora un’attitudine alla qualità del servizio di cui i dipendenti sono fieri. Sarebbe un vero peccato che tanta preziosa risorsa venisse trascurata …per la mortificazione degli operatori e anche per la salute dell’azienda che apprezzo da tanto.

  3. Sono contenta che da questo articolo emergono i miei pensieri di un’ Azienda cui si deve tanto ma che deve anche riconoscere il lavoro altrui che non è poco. Avanti tutta e scoprite i talenti.

  4. In esselunga da più di venti anni. Sono entrato ragazzino e mi ritrovo uomo. Ho cominciato come allievo responsabile, ma non mi ha innamorato l’idea imperante all’epoca del “prima la carriera, poi il resto”. Mi son fermato ad un livello basso come responsabile, serenamente. Ho costruito una bella famiglia ed ho lavorato con coscienza. Ho studiato, con fatica, fino a laurearmi due volte, ambito giuridico. Ho ricoperto una carica sindacale piuttosto importante, con serietà e dedizione. Ho accumulato esperienze rilevanti. Per motivi personali ho deciso di rientrare in azienda (evento raro). Un problema, evidentemente. Mi pare di capire che sia un problema avere un responsabile con un trascorso di dirigenza sindacale. Offro la disponibilità a cambiare reparto, mansione, punto vendita… mi viene risposto che “troveremo una posizione che valorizzi le competenze che ha acquisito, anche alla luce degli studi fatti!”. Mi viene proposto il ruolo di banconista in pescheria. Fa già ridere così…
    Questa é la mia azienda, alla quale ho sacrificato tempo, domeniche, festività, ore e ore di sonno, levatacce e notti in bianco. Tutte pagate, per carità. Tutto regolarmente e puntualmente retribuito. Le ho voluto bene. Davvero. Ero fiero e orgoglioso di quella esse rossa sul mio pullover blu.
    Adesso non riesco proprio a provare più alcun trasporto. Saluti.

  5. Mi sono dimesso nel novembre 2022 dopo ben 8 anni di servizio e avendo il 3°livello, nessuno ha tentato di trattenermi in alcun modo ( parlo di chi comanda). Mi è stato negato il buono da 500 € perché le dimissioni le ho date prima della fatidica data prevista…
    …il risultato è che mi hanno perso anche come cliente, di spese ne facevo e pure tante. Dal 6 dicembre non stacco uno scontrino in Esselunga. Peggio per loro che pensavano di tenermi al banco del pesce con una laurea in mano. A me spiace solo per i colleghi, con i quali avevo un ottimo rapporto.

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