Esselunga. Ipotesi di futuro dopo l’addio del CEO

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A differenza di molti altri più fortunati ho avuto la possibilità di incontrare Bernardo Caprotti solo in due occasioni. A Bruxelles quando il patron di Esselunga era riuscito a convincere l’intera compagine delle aziende di Federdistribuzione a battersi contro la Coop anche a livello europeo e, se ricordo bene, a Pioltello, accompagnando  il CEO di REWE italia di  allora, Francesco Rivolta, ad un incontro riservato in cui Caprotti ha lasciato intendere una generica disponibilità a discutere della cessione della sua azienda alla multinazionale tedesca.

A Bruxelles Caprotti comprese subito che la partita era in mano alle multinazionali e che la sua autorevolezza forte in Italia e in Federdistribuzione, in quella sede non sarebbe stata  sufficiente. A Pioltello dove, dopo aver sottolineato la grande stima personale nei confronti di Francesco Rivolta e l’apprezzamento per l’offerta tedesca, fece capire che quel tempo non era ancora arrivato. E che lui non avrebbe mai venduto. Però ci teneva ad essere corteggiato. Soprattutto dall’estero. Nulla di più.

Erano, credo, due sue caratteristiche. Affrontare battaglie di principio anche contro tutto e tutti, se necessario, e riuscire a tenere la propria azienda sempre un passo avanti alle altre anche per farsi ammirare. In quelle due occasioni ho tratto la convinzione che Esselunga era  la creatura  di Bernardo Caprotti e che, dopo di lui, quel modello fatto di “esasperata” attenzione al cliente, ai dettagli del mestiere e dei luoghi che ne costituivano la differenza con i concorrenti, non sarebbe stato possibile mantenerli, se in altre mani. Sarebbe diventata  comunque un’altra cosa.

Un po’ come l’Alfa Romeo. La Fiat l’ha comprata precedendo la Ford ma non è mai riuscita né a conquistarne l’anima né  a dargliene una nuova. Non era possibile. Da quel giorno l’Alfa Romeo non è stata semplicemente più la stessa. La nuova proprietà  è riuscita a perdere per strada la sua anima originale fatta di elementi materiali e immateriali e l’ha trasformata in un marchio simile ad  altri. Troppo poco per puntare alla fedeltà dei veri  alfisti, troppo omologata, rispetto alla concorrenza, per gli altri.

Esselunga non è un semplice supermercato. Può però diventarlo. Per un milanese è semplicemente Esselunga. Le altre insegne, nonostante gli sforzi, si assomigliano un po’ tutte. Discount a parte. A Milano solo il “Viaggiator goloso” di Unes per un certo tipo di pubblico  è uscito dalla media che caratterizza e confonde il resto delle aziende della GDO su piazza.

C’è chi ha provato a “de-caprottizzare” in senso buono Esselunga dall’interno guardando al futuro. Innanzitutto Giuseppe Caprotti, suo figlio. Sicuramente un manager visionario per quei tempi, forte di un percorso costruito per succedere al padre e desideroso di cominciare a lasciare la propria impronta manageriale provando a dare all’azienda una nuova direzione di marcia. È finita come è finita.

All’Esselunga di Bernardo Caprotti e ai suoi uomini chiave quella accelerazione forse parve un azzardo, un tentativo di renderla diversa, orientandola verso sfide e traiettorie manageriali che  non erano presenti nel DNA della “loro” azienda che comunque, da allora ad oggi, ha continuato a macinare  successi.

Il comparto della GDO era talmente indietro rispetto ai primi della classe che la distanza guadagnata ormai da Esselunga non poteva essere colmata da nessuno e quindi la strada per riaffermare la propria unicità era spianata.

Caprotti senior però aveva capito benissimo che, messo forzatamente da parte il figlio e le sue idee “rivoluzionarie”, la data di scadenza sua e della sua azienda avrebbero rischiato, purtroppo, di  coincidere. È stato un protagonista eccezionale di un’altra epocaL’accenno stesso alla possibile cessione presente nel suo testamento non lasciava adito a dubbi.

L’addio concordato in queste giorni del CEO Sami Kahale dopo appena tre anni, essendo arrivato da Procter&Gamble nel giugno del 2018 segnala, a mio parere, la stessa difficoltà. Esselunga non può essere cambiata restando uguale a sé stessa. Sola è la bellissima lepre che può solo farsi inseguire dalla concorrenza fino a quando il fiato e il vantaggio accumulato glielo consentiranno. Ma è così e basta.

Aver messo alla sua testa un manager navigato ed esperto proveniente da una cultura multinazionale e industriale sembrava la dimostrazione evidente, innanzitutto per clienti e collaboratori, che, pur nella continuità, un’altra Esselunga fosse possibile.

La sua uscita, a mio parere, rischia di dimostrare il contrario. Non c’è il tempo, non sembra esserci la volontà e probabilmente non ci sono le risorse economiche e umane per poter mettere in pratica una strategia differente.

Marina Caprotti, da parte sua, non ha ereditato dal Padre solo la quota di maggioranza di Esselunga  ma, dall’interno dell’azienda, confermano che ha tutti i fondamentali per guidarla come Presidente, la voglia  e l’energia personale necessaria. Vedremo i suoi prossimi passi. Soprattutto vedremo chi sarà il nuovo CEO.

L’azienda però è in una fase particolare. Il suo sviluppo se guardiamo i prossimi cinque anni non può essere certo rappresentato dagli urban store né dall’omicanalità che, al massimo, possono affiancare il business principale che, pur riconosciuto dal mercato, ha bisogno di darsi una prospettiva in linea con il potenziale di crescita dei concorrenti e con la crisi dei formati. Per fare questo occorrono importanti  risorse economiche.

Non va sottovalutato che la salute indiscutibile del gruppo (ricavi oltre gli 8 miliardi di euro con un margine operativo di circa 720 milioni) deve fare i conti con i debiti fatti per rilevare il 30% di Supermarkets Italiani da Violetta e Giuseppe Caprotti). Esselunga non può continuare ad essere solo ciò che Bernardo Caprotti   ha pensato e disegnato con grande maestria nel secolo scorso rendendola unica nel comparto della GDO nazionale.

Se l’uscita di Sami Kahale fosse derivata da queste constatazioni l’azienda sarebbe prigioniera di un paradosso: se prova a cambiare in solitudine  non va da nessuna parte ma se non cambia con sufficiente rapidità, visione del futuro e risorse non arriva da nessuna parte.

Da qui l’ipotesi di cessione (sull’ipotesi Amazon ho già scritto https://bit.ly/32L5vcA) o di avvalersi di risorse da qualche fondo di private equity e quindi di dotarsi un modello organizzativo e manageriale sicuramente diverso. Qui sta forse il punto vero.

Il futuro di Esselunga non può essere la semplice riproposizione del suo passato. Non è solo un problema di scelta della strada da percorrere come sembrano sottolineare alcuni osservatori. È anche un problema di rischi e di potenziali costi economici e sociali che chi ha in mano le redini deve saper valutare e gestire.

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Una risposta a “Esselunga. Ipotesi di futuro dopo l’addio del CEO”

  1. Finalmente,se mi permette, una analisi non banale…ne ho lette e sentite,anche in “casa”mia di ogni….Lei mi sembra cogliere il punto…di certo Esselunga è un bene del sistema Paese e speriamo che tale resti.Un cordiale saluto.

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