Da osservatore esterno ho maturato una personalissima convinzione: la grande distribuzione avrebbe sicuramente bisogno di farsi sentire, oggi più di ieri. La necessità di continuare a contribuire al processo di ammodernamento del sistema distributivo italiano, il rapporto con l’agricoltura nazionale e con l’industria di trasformazione; la riorganizzazione e rinnovamento dei formati e quindi il rapporto con le pubbliche amministrazioni; la necessità di mettere mano a un modello efficace di contrattazione nazionale e aziendale, i nuovi modelli organizzativi, la qualificazione, la formazione e il welfare del personale presuppongono la presenza di una forte spinta associativa che sappia guardare oltre le specifiche esigenze di concorrenza e di equilibrio tra insegne. Questa ultima necessità credo sia ormai superata così come si è conclusa la fase dove ad alcune insegne è riuscito il disegno di rafforzarsi definitivamente a spese di altre. Adesso occorrerebbe decisamente andare oltre. Non nei convegni o sulla stampa dove la professionalità di ottimi specialisti può fare la differenza ma dove si trovano le soluzioni, dove si incide sul serio e dove si determinano le decisioni a proprio o altrui favore. E non è più, sia chiaro, un problema tra grande e piccola distribuzione. È un problema di strategia. Che oggi sembra non esserci o non essere incisiva come dovrebbe essere necessario. Il perché è evidente. La GDO ha sempre condizionato la contrattazione nazionale di categoria pur non gestendola mai in prima persona. Lo ha fatto per oltre trent’anni. In altri termini con poco più di duecentomila addetti ha sempre dettato le condizioni di un contratto che copre oggi oltre tre milioni di persone. E ne ha tratto benefici indiscutibili. Purtroppo negli anni, anziché capitalizzare queste opportunità, ha preferito cedere a richieste assurde dei sindacati a livello aziendale costruendo accordi con vincoli organizzativi e costi relativi che dovrebbero essere contestati e trattenuti dalla pensione dei Direttori del personale e dei board che si sono succeduti in quegli anni. L’impasse di oggi è anche figlia di quel passato. E questa impasse porterà inevitabilmente con sé le tradizionali liturgie natalizie, le vertenze legali con i relativi costi e consoliderà ancora di più l’impressione, nel Paese, che nella grande distribuzione il lavoro è povero, mal pagato e di scarso interesse per chi vuole crescere e investire su se stesso. E, nei dipendenti, l’idea che le loro aziende non sono disponibili a concedere ciò che altre aziende dello stesso settore sono state disponibili a dare. Reazioni inevitabili quando si tira troppo la corda. E confondere, come si sta facendo, i limiti, i ruoli e le potenzialità di livelli contrattuali differenti porta ancora di più a non essere compresi. Così come sulle aperture e sulla pianificazione degli orari dove la GDO ha contribuito a costruire, a suo tempo in Confcommercio, una posizione forte mediana ma condivisa e inattaccabile sia sul versante sindacale che nelle diverse regioni. Anzi ha avuto il merito di condizionare non poco la posizione della più grande confederazione del terziario, favorendo un importante dibattito interno positivo e costruttivo ben diverso rispetto ad altre organizzazioni, come ad esempio Confesercenti, che si sono messe, anche per questo, alla testa di posizioni abolizioniste tra le più intransigenti. Oggi è chiaro che la posizione di Federdistribuzione non trova grandi ascolti e, probabilmente, rischia di essere accantonata rimettendo inevitabilmente in discussione abitudini e comportamenti di consumo ormai consolidati. Risultato, questo, che non giova a nessuno. E anche su questo tema, la difficoltà a costruire alleanze propositive, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Infine il rapporto con l’agricoltura nazionale. C’è in atto da sempre una guerra tra industria alimentare e agricoltura che passa quasi sotto traccia sulla stampa mentre continua la polemica esplicita sulla presunta “voracità” della GDO e sulla sua evidente volontà di “affamare” l’agricoltura nazionale magari a vantaggio di altri Paesi esteri. È certamente scandaloso e inaccettabile. Ma perché accade tutto ciò? Non certo per mancanza di volontà o di impegno di Federdistribuzione. È un problema di massa critica, di alleanze, di capacità o meno di finalizzare iniziative di sostegno che, quando il vento soffia contro, diventano più impegnative e complesse da realizzare. Per questo occorrerebbe tornare ad essere protagonisti costruendo le convergenze necessarie con chi ci sta. Occorre però avere la volontà e saper rimettere in fila i problemi valutando i percorsi possibili. Soprattutto quelli che non si sono sufficientemente valutati perché si è stati troppo occupati a cercare scorciatoie impraticabili. A volte qualche passo indietro aiuta a osservare meglio lo scenario che si ha di fronte. Personalmente vedo tre priorità: trovare un punto di incontro con le organizzazioni maggiormente rappresentative sulle aperture che non penalizzi fortemente le imprese della GDO e che sappia trovare un equilibrio praticabile così come ritrovare con loro e con le organizzazioni sindacali un percorso serio e costruttivo sulla contrattazione nazionale che sappia andare oltre le disfide giudiziarie che, per loro natura, non portano da nessuna parte e i desideri impossibili della prima ora e, infine, riprendere un iniziativa che riporti un equilibrio sostanziale nella filiera dalla produzione al consumo. Per fare questo occorre crederci, lavorare con ostinazione ma anche con lungimiranza dando per scontato che non c’è alcuna soluzione a portata di mano ma che occorre comunque provarci verificando chi ci sta e a quali condizioni. E se queste condizioni, pur diverse dai propri desideri, incontrano le esigenze delle imprese. Le aziende oggi, hanno bisogno di punti di riferimento. Il compito di una federazione è di aiutarle ad individuarli.