Succede in Trentino per l’importanza della storia e della specificità del modello ma riguarda un tema più generale: la ricerca del contenimento del costo del lavoro nella GDO come leva (tra le altre) per fermare il declino di un punto vendita o di un’azienda. Stiamo parlando di Famiglia cooperativa trentina. Le Famiglie Cooperative, fin dalla logica che ha ispirato il fondatore don Guetti hanno posto al centro la comunità, il cliente e il servizio. Hanno una loro ragion d’essere se perseguono questo obiettivo. Altrimenti esistono altre forme societarie meno vincolanti.
Mantenere il modello ha un costo economico che pesa sui costi dell’impresa (in parte sulla collettività e, altro tema, sulle dinamiche concorrenziali). Fatto salvo il rispetto di ciò che prevede il CCNL di categoria ogni elemento economico aggiunto che pesa sui costi dovrebbe, a mio parere, avere un bilanciamento con la produttività dal singolo punto vendita e dall’intero sistema. Altrimenti non regge né il modello né il sistema già gravato da altri handicap.
Le Famiglie Cooperative (dal 1993 hanno un accordo di collaborazione con Coop Italia che definisce l’esclusiva di commercializzazione dei prodotti a marchio Coop per il Trentino) gestiscono 364 punti vendita di cui 229 rappresentano l’unico esercizio commerciale del paese. Di queste 109 sono definiti SIEG (Servizi di Interesse Economico Generale) (saranno circa 120 nel 2024). Per essere definiti in questo modo è necessario essere l’unico esercizio commerciale della propria località ed essere situati in un paese al massimo di 100 abitanti, posto ad un’altitudine di almeno 800 metri e distante non meno di 3 km da un altro punto vendita. I SIEG possono diventare sempre più uno strumento per l’erogazione di servizi decentrati sul territorio in zone trascurate dal mercato. Di fatto, multiservizi evoluti. Ad esempio, la prenotazione di visite specialistiche, la stampa di referti medici, l’accesso alla propria cartella clinica, il ritiro di farmaci, il pagamento di bollettini o del bollo auto, il prelievo di contanti e il ritiro documenti anagrafici o autorizzazioni comunali.
La sfida per il futuro sarà arricchire l’offerta di questi punti vendita con servizi in grado di soddisfare tutti i principali bisogni di chi risiede in montagna. Per questa specificità ricevono dei finanziamenti pubblici. La metà dei negozi ha una superficie inferiore ai 150 metri quadrati, e solo il 18% supera i 400. Mantenere aperti i presidi di minori dimensioni, in piccole e piccolissime località, si conferma un sacrificio dal punto di vista del bilancio, ma resta un impegno che la Cooperazione Trentina di consumo sta portando avanti con convinzione insieme alla Provincia autonoma di Trento per garantire una presenza nelle periferie e contrastare lo spopolamento.
Una rete su cui continuano gli investimenti che nel 2023 hanno superato i 17 milioni di euro (+5 milioni rispetto al 2022). Il fatturato complessivo di queste imprese di proprietà di 125 mila soci e socie (+846) ammonta a 380 milioni (+8%), dato influenzato dall’inflazione. Nel 2023 si sono registrati maggiori costi per 5 milioni destinati a crescere ancora, per effetto del nuovo contratto nazionale. Stabile l’occupazione con 1890 collaboratori. Interessante però il tema dello scontro.
Il contratto integrativo provinciale (aggiuntivo al CCNL) è scaduto da sei anni. Prima di quella data, in accordo con i sindacati, i dipendenti della Cooperazione di Consumo Trentina erano stati inseriti all’interno dell’articolato delle Imprese Minori che ha comportato, dal 2011, l’aumento delle ore di lavoro settimanale passate da 38 a 40 a parità di retribuzione, la riduzione dei permessi retribuiti, l’aumento del divisore orario e la riduzione del valore di ogni lavorata. Nel 2014, c’è stato un accordo che ha previsto il blocco degli scatti di anzianità e la riduzione ulteriore dei permessi retribuiti. Tutte deroghe, inizialmente previste a tempo e poi mantenute fino al 2023 quando è stato sottoscritto un accordo di recupero con un parziale pagamento degli arretrati. Si è arrivati così ad aprile del 2024 con disdetta dell’intero contratto integrativo provinciale e alla proposta di rinegoziarlo.
L’ipotesi posta sul tavolo dalla federazione delle cooperative mira ad una trasformazione radicale del contratto integrativo. “Le sigle sindacali hanno respinto le richieste aziendali ritenendole provocatorie e lesive dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori della Cooperazione”. I tavoli di confronto tra sindacati (Filcams CGIL Fisascat CISL e Uiltucs UIL) e vertici cooperativi si sono per il momento arenati. La propostadeicrappresentanti della cooperazione è, a mio parere, interessante. Punta a collegare la parte variabile del salario non più alla presenza fisica dei dipendenti ma alla produttività del sito e del sistema. Un cambio di prospettiva che però mette in gioco circa 170 euro lordi mensili e che, in mancanza di un accordo, a causa della disdetta, andrebbero persi. Da qui la dichiarazione di sciopero dei sindacati di categoria. La seconda nella storia delle famiglie cooperative. Dopo lo sciopero (in parte fallito) responsabili delle cooperative hanno comunque deciso di mantenere aperto il confronto. Si rivedranno il 5 luglio.
D’altra parte i conti aziendali non tornano. «Nel 2023 l’andamento è stato a macchia di leopardo. I risultati complessivi in termini di vendite e redditività sono stati trainati dalle realtà attive nelle zone turistiche e da quelle più dimensionate. Un terzo delle cooperative faticano a trovare una sostenibilità economica adeguata: 15 su 60 sono in perdita ed altre 10 producono una redditività inferiore allo 0,5% . Sono quelle meno dimensionate e che si trovano lungo l’asta dell’Adige o zone non turistiche e con forte concorrenza».
«Il lavoro della delegazione al tavolo della trattativa – ha spiegato la vicepresidente – mira a creare una piattaforma contrattuale integrativa che tutte le Famiglie Cooperative siano in grado di sostenere nel tempo, senza intaccare il patrimonio e quindi il futuro delle imprese». Per i sindacati non è percorribile la via della retribuzione variabile legata ai risultati delle singole famiglie cooperative. Una contraddizione su cui riflettere. Le aziende che legano una parte del salario aziendale ai risultati economici sono numerose e non trovano opposizioni di principio da parte sindacale. In questo caso la ragione è evidente. La partenza del sistema avviene in negativo e con i conti in sofferenza.
La loro posizione è chiara:“Non è accettabile che si scarichino sulle lavoratrici e i lavoratori le inefficienze del sistema e che la cooperazione non sia disposta a trovare una soluzione che garantisca efficienza ed equità anche nei confronti dei propri dipendenti”. Il punto è quella che i sindacati chiamano “l’inefficienza del sistema” è, in parte, proprio la ragion d’essere di queste realtà o almeno di una parte di esse. Conciliare il servizio alla comunità con il riconoscimento del lavoro ai dipendenti, una sfida vera. Qui come altrove. Trovare come, è compito delle parti sociali.