E’ indubbiamente vero che chi comanda si senta solo. Non lo pensa solo Sergio Marchionne. È così dappertutto. Nel bene e nel male. E, lo dico in premessa perché non credo di avere il diritto di parlare di un uomo della sua storia umana e di un’esperienza manageriale che non ho conosciuto se non attraverso gli articoli dei giornali o il racconto di terze persone.
Mi interessa approfondire il tema della solitudine manageriale, della composizione della squadra che affianca il CEO e del trauma che, inevitabilmente, subisce l’intera struttura decisionale aziendale quando la solitudine si trasforma in un vuoto comunque impossibile da colmare attingendo dentro o fuori la squadra di testa. Soprattutto in aziende quotate in borsa e di grandi dimensioni.
Certo ci sono gli azionisti e i mercati da tranquillizzare. Ci sono i collaboratori, i concessionari, i fornitori e i concorrenti. E, infine, ci sono i sindacati, la politica e le istituzioni. E, fino a qui, è relativamente semplice quando hai determinate dimensioni. I media che celebrano o che insinuano. I distinguo che anticipano e preparano critiche o assoluzioni postume.
Il Leader per chi osserva da fuori è sempre solo nel senso che con la sua personalità mette inevitabilmente tutti gli altri in secondo piano. Azionisti, manager e collaboratori principali non sembrano essere fondamentali né percepiti per il loro valore né determinanti per la causa. Non è così.
Il leader non è affatto solo. Se è tale si circonda di persone per certi versi migliori di lui con alcune caratteristiche specifiche. In genere molto diversi tra di loro, collaborativi ma estremamente competitivi. In simbiosi con il leader, devoti e consapevoli delle loro qualità e competenze ma certi di avere qualcosa in meno del capo. Altrimenti non sarebbero tollerati. Né resterebbero a lungo.
Ciascuno di loro è in grado di sfidare e tenere testa al leader sul proprio terreno, non su quello del capo. Nel tempo si crea un sistema di comunicazione quasi “telepatico” che anticipa i problemi e spinge a proporre soluzioni. E spesso le soluzioni risolvono problemi creandone altri. A volte agli stessi colleghi della prima linea.
Nei team internazionali non si ragiona per Paese di provenienza ma per area di competenza e per risultati. Il Paese è l’azienda stessa e al leader spetta l’ultima parola. Di solito un leader viene sostituito perché non porta i risultati o perché perde il feeling con l’azionista. Quindi la decisione ha tempo per maturare e sedimentarsi almeno nella struttura manageriale. Non tanto in termini di tempo che in genere è sempre rapido quanto di segnali.
Nel caso di Sergio Marchionne questa uscita era già stata ipotizzata consentendo la sua metabolizzazione interna e esterna in tempi ragionevoli. La precipitazione degli avvenimenti l’ha resa impossibile. Ritornando al tema che la vicenda FCA fornisce da pretesto mi viene da dire che la scelta di una successione interna non è mai semplice da digerire. Né scontata.
Ci sono aspettative, promesse, sensibilità in tutta la prima linea difficili da gestire. E anche strategie, ambizioni e metodologie di collaborazione differenti, personali e professionali. Se al leader precedente sono serviti anni per assemblare la sua squadra così sarà per il nuovo CEO. Nel breve, ovviamente, quasi nulla può cambiare. Lo chiede il mercato e lo chiedono i collaboratori. Anche perché il leader non è stato messo in discussione. È stato sostituto per forza maggiore. I messaggi sono tutti rassicuranti.
Ma per continuare sulla strada tracciata occorre avere le stesse caratteristiche, la stessa visione e la stessa capacità di vivere, comprendere e gestire un contesto interno ed esterno che è lì pronto a interpretare ogni correzione di rotta imposta dalla situazione.
Nella mia modesta esperienza non ho mai conosciuto top manager disposti a continuare storie altrui per lungo tempo. Quindi è buona norma aspettarsi dei cambiamenti profondi quando subentra una nuova leadership manageriale. Al di là delle rassicurazioni di rito. E questo non solo nel top management.
Aggiungo che questi cambiamenti, ritornando nella vicenda FCA, contribuiranno a ridisegnare non solo il peso, la struttura e il suo potenziale produttivo nel mondo ma anche la qualità e il sistema delle relazioni industriali.
Leggendo gli articoli di alcuni politici e di alcuni sindacalisti (non del settore) che si limitano a ribadire un’ovvia richiesta di continuità o altri che confidano che, se ci saranno cambiamenti, saranno comunque negativi e questo darà loro finalmente ragione trovo questi approcci abbastanza rischiosi, scontati e semplicistici.
Un’era si è chiusa e i risultati sono evidenti. Prenderne atto è il presupposto per voltare pagina. Nuove sfide attendono, l’impresa a livello globale. Alla politica e al sindacato italiano, unitariamente inteso, il compito di interpretare l’esigenza che il nostro Paese con il suo potenziale produttivo e occupazionale di grande qualità continui a restare in partita.